Nel contesto dello scambio che ha coinvolto Atlanta Hawks e Cleveland Cavaliers (in virtù del quale Kyle Korver ha fatto le valigie in direzione dell’Ohio), l’attenzione dei media si è concentrata sulla squadra di LeBron James (com’è naturale e logico), che con questa mossa raggiunge il duplice scopo di coprire l’assenza per infortunio di J.R. Smith, e di allargare ulteriormente il fossato che la separa dal resto di un’anemica Eastern Conference.
Difficilmente rivedremo Korver all’All Star Game, ma Kyle è molto più di un semplice tiratore in uscita dai blocchi, e se il suo approdo in maglia color vinaccia va letta soprattutto in ottica NBA Finals, è interessante anche valutare l’impatto del suo addio sugli Atlanta Hawks.
A Cleveland, Kyle Korver aprirà ulteriore spazio alle zingarate in palleggio di Kyrie Irving, oltre a far brillare gli occhi a LeBron, che già pregusta i palloni “al bacio” che potrà servirgli. Per la cronaca, Kevin Love, assistito da James, tira il 43.3%, e senza, appena il 36.8%. Channing Frye tira il 35.3% da tre, ma se la palla arriva da LBJ, la percentuale schizza al 59%! Dividendo il campo con James, Kyrie e Love, il nostro Korver potrà diventare più che mai efficiente.
Sin dagli esordi in quel di Philadelphia, Kyle Korver è stato etichettato come un onestissimo specialista. Solo ad Atlanta, in un sistema di gioco oliato alla perfezione, l’ala californiana ha raggiunto lo status di “stella”, con tanto di All Star Game (nel 2015) a sancire l’assunto; nel corso degli anni, Kyle ha sviluppato un’affezione speciale per la città dove sono nati i suoi figli, e per il club che gli ha offerto la possibilità di realizzarsi compiutamente su di un campo da basket, ma era giunto il momento di cambiare, sia per Korver (ora potrà andare a caccia dell’anello) sia per gli Hawks, intenzionati a ricostruire in corsa, senza sacrificare flessibilità salariale.
In un contesto NBA di alto livello, Korver è un tiratore (non un realizzatore) e come tale ha bisogno di un impianto di gioco che gli consenta di liberarsi del marcatore prima di entrare in possesso di palla, ricevendola solo quand’è pronto a scoccare la sua mortifera conclusione. Coach Mike Budenholzer ha perfezionato il concetto grazie ad un sistema cestistico votato al gioco di squadra, tanto che Atlanta è tutt’ora sesta per assist a partita.
A Cleveland coach Tyronn Lue difficilmente potrà costruirgli più di due-tre giochi (le classiche uscite dai blocchi sulla linea di fondo, e magari il passaggio consegnato in punta, dopo aver portato lui stesso il blocco al palleggiatore), ma non importa, perché la presenza contemporanea di due grandissimi attaccanti palla in mano, come James e Irving, gli consentirà di trovare conclusioni ad alta percentuale, e di converso, renderà impossibile la vita agli staff tecnici avversari, costretti a immaginare un piano-gara con Korver e Love piazzati in angolo, a far pagare ogni tentativo di flottaggio verso LeBron e Kyrie.
L’altra faccia della medaglia è quel che Atlanta (21-16 al momento di scrivere) ha perso lasciando andare Kyle Korver, il giocatore-simbolo del recente successo della franchigia. Il meccanismo che era valso 60 vittorie due stagioni orsono, ha gradualmente perso abbrivo, e i limiti di questo tipo di gioco sono stati spietatamente esposti da una lega capace di scovare e punire ogni tipo di debolezza, sia essa tecnica, fisica o mentale.
Con l’addio di Korver e (forse) anche di Paul Millsap, non resta più nulla di quel gruppo, eccezion fatta per Kent Bazemore, Thabo Sefolosha, Mike Scott e Mike Muscala. Se i commiati estivi di Jeff Teague (accasatosi a Indianapolis) e di Al Horford (Boston) erano stati in qualche modo tamponati (l’arrivo dell’home-boy Dwight Howard) o giustificati (con l’intenzione di scommettere su Dennis Schroder), la cessione di Korver segnala inequivocabilmente la fine di un percorso tecnico e l’inizio di uno nuovo, che vedrà più minuti per Hardaway, per DeAndre’ Bembry e Taurean Prince.
Gli Hawks (o per meglio dire Budenholzer, che della squadra è anche President of Basketball Operations) avevano concepito un attacco “democratico” basato su flusso e ritmo, con lo scopo di coprire l’assenza di una vera e propria superstar capace di sbrigarsela di puro talento, ma senza più Teague e Horford, e con un Korver in netto calo atletico, il gioco non valeva più la candela.
Quando si parla dell’importanza del sistema rispetto ai giocatori, occorre sempre tenere a mente che giocatori da un lato, e sistema dall’altro, sono elementi complementari, e che vittoria e sconfitta difficilmente sono ascrivibili integralmente a questa o quella componente: adottare l’Attacco Triangolo con un Player Personnel che non sa giocarlo, provoca disastri (vedi Kurt Rambis a Minneapolis, o Derek Fisher a New York), e lo stesso vale per la Princeton Offense o qualunque altro tra i migliori sistemi in circolazione.
Flusso e ritmo non s’inventano disegnando schemi sulla lavagnetta, o all’opposto, accatastando talento per poi dire “ragazzi, fate voi”. Perché la squadra funzioni, occorre trovare la miscela giusta: non è un problema di filosofia cestistica astratta, ma di riconoscere quale sistema possa funzionare con un determinato gruppo.
Un conto è avere Al Horford e Jeff Teague, e un altro è provare a fare le stesse cose con il nativo di Braunschweig e con l’ormai ex-Superman, giocatori spettacolari e talentuosi, che però non hanno la continuità mentale e (soprattutto nel caso di Howard) i fondamentali adeguati per giocare una pallacanestro fatta di angoli e di letture, ma che, di converso, possono metterla sul piano atletico con più successo rispetto ai loro predecessori, e quindi possono fiorire in un altro tipo di sistema.
Così, mentre Il GM dei Cavs, David Griffin, ha semplicemente perfezionato una macchina già letale, ad Atlanta Budenholzer e il GM Wes Wilcox (recentemente al centro di un’assurda bagarre a sfondo razziale, per aver scherzato sulle tendenze polemiche degli afroamericani… peccato che parlasse di sua moglie e dei suoi figli!) continuano l’opera di conversione in chiave difensiva della squadra, tanto da scegliere di regalare Kyle Korver a una rivale di Conference, per evitare di perderlo a fine stagione, quando sarà free agent (e comanderà un po’ più dei 5.2 milioni dell’attuale accordo).
La contropartita tecnica è sostanzialmente irrilevante, perché Mike Dunleavy Jr. è già in predicato di essere scambiato, mentre Mo Williams è di fatto ritirato, e la prima scelta 2019 o 2020 (top-10 protected in ambedue i casi) altro non è che un “asset” per il momento ipotetico, visto che nessuno sa chi finirà alla fine del primo giro a giugno, figuriamoci tra due anni.
Per certi versi, è esattamente il tipo di manovra alla R.C. Buford che tante volte abbiamo magnificato, come quando gli Spurs si privarono del pur utile George Hill (perché il suo rinnovo non era funzionale alla struttura salariale coltivata all’ombra dell’Alamo) ottenendo in cambio un Kawhi Leonard ritenuto interessante, soprattutto perché costava poco. Che poi Kawhi sia diventato la pietra d’angolo della franchigia, è stato solo un piacevole effetto collaterale assolutamente imprevisto, ci dicono le nostre fonti vicine ai nero-argento.
Interrogato a proposito della futura direzione della franchigia prima della vittoria contro Dallas, Budenholzer dichiara: “Non penso si debba dare per scontato alcunché. Dobbiamo prendere decisioni difficili dal punto di vista dell’organizzazione, e penso sia importante che ciascuna di queste decisioni ci collochi nella situazione migliore per essere una grande organizzazione. In questo caso (quello di Korver, N.d.r.) abbiamo fatto una trade non facile. È stata una decisione sofferta; abbiamo una buona squadra, che ha dimostrato di saper competere ad alto livello, ma continuare a tenerla unita è qualcosa… al cui riguardo non voglio dare nulla per scontato”.
Insomma, il più classico dei “non escludo nulla”. Se Bembry e soprattutto Price dovessero esplodere, quella degli Hawks passerebbe per una mossa geniale, e in caso contrario, si tratterebbe semplicemente di una saggia manovra per contenere i costi. Certo, questo tipo di operazioni sono più semplici a San Antonio, perché lì c’è un nucleo consolidato che garantisce continuità.
Qualunque sia stata la ratio della decisione presa da Budenholzer, Atlanta sembra chiamarsi fuori dalla pattuglia d’inseguitrici dei Cavaliers, composta da Toronto Raptors e Boston Celtics. La pressione è tutta sulle spalle dei Raptors, che sono 0-7 contro le grandi corazzate, e hanno Kyle Lowry in scadenza a fine stagione, oltre che sui giovani Boston Celtics, che hanno in Horford un centro trentenne orientato all’oggi più che al domani, e che rappresenta un investimento economico importante per la franchigia guidata da Danny Ainge e coach Brad Stevens.
Secondo Ben Golliver, di Sports Illustrated, non è da escludere che Masai Uijiri e Ainge cerchino rinforzi proprio in casa Hawks; Paul Millsap è un’ala moderna (anche se non arriva al 33% da tre punti) ed esperta, adatta a una formazione pronta a vincere oggi; se Toronto non ha grandi contropartite da offrire, Boston potrebbe viceversa mettere sul tavolo una pletora di esterni giovani e di buone prospettive; d’altronde, è difficile immaginare molti GM pronti a svenarsi per ottenere un cestista destinato a diventare un-restricted free agent tra pochi mesi.
Atlanta sta varando una rivoluzione difensiva e giovanile, e spera di farlo senza incappare in un’annataccia, ma non è chiaro come possa pensare di costruire il roster del futuro attorno a Howard e Schroder (a libri con il contratto da rookie, ma da quest’estate scatterà per lui l’estensione contrattuale destinata a garantirgli 70 milioni in 4 stagioni).
Dwight Howard può ancora vantare il quarto posto tra i rimbalzisti NBA (13.1 a gara, per il 24% dei rimbalzi disponibili) e per percentuale dal campo (63.9%), ma il suo impatto è lontanissimo da quello di Orlando, quando, in uno schieramento a quattro esterni predicato sul pick-and-roll, riuscì a conquistare l’accesso alla Finale NBA 2009. Il calo fisico legato ai problemi alla schiena e all’inevitabile trascorrere del tempo (un mese fa ha spento le 31 candeline) ne hanno esacerbato (anziché limato) i difetti, tecnici e caratteriali.
Ai tempi dei Lakers la colpa del pessimo rapporto tra lui e Kobe Bryant era stata ascritta al figlio di JellyBean, ma la storia si è ripetuta identica anche a Houston, con James Harden, e peraltro, tolta l’acrimonia verso queste due discrete guardie, non si può dire che Dwight abbia lasciato ricordi indelebili nello spogliatoio dello Staples o del Toyota Center, o presso i rispettivi staff tecnici, anzi (chiedere a Stan Van Gundy o Mike D’Antoni…).
Ai limiti caratteriali, come detto, si assommano quelli tecnici: offensivamente Howard funziona solo se gioca sopra al ferro (ha il 72% nella restricted area, e il 33% nel resto del verniciato), o se lavora come roller in situazioni di pick-and-roll, ma purtroppo non è sempre in grado di riconoscere le situazioni e i tempi delle giocate, e anche in difesa, alterna ottime giocate ad amnesie inspiegabili per un veterano con il suo chilometraggio NBA.
L’utilità offensiva di Howard sta tutta nei possessi dinamici, situazione nella quale rimane una forza incontenibile: da tagliante, è uno dei giocatori più devastanti della lega. Purtroppo però, Howard non ama questo tipo di basket, e nemmeno Dennis Schroder lo aiuta; in un mondo perfetto, il tedesco si ciberebbe di pick-and-roll con il suo lungo di riferimento, anziché caricare a testa bassa, come purtroppo a volte tende a fare.
L’impressione è che Schroder viva il basket come l’altra sua grande passione, lo skateboard: prova un trick dietro l’altro, con tanto gusto per lo stile, ma senza guardare veramente quel che succede in campo. Le sue giocate sono belle e sgargianti come graffiti, ma il suo modo di stare in campo rischia (prima o poi) di provocare un incidente diplomatico con Dwight Howard, e non gli consente di far fruttare appieno il suo immenso potenziale, un po’ com’è successo a Rajon Rondo.
Il giovane playmaker ha assistito Howard 36 volte, che non sono poche, ma sono molte meno delle 94 assistenze che Russell Westbrook ha elargito a Steven Adams, o degli 84 canestri per i quali Clint Capela deve ringraziare James Harden. Il ventitreenne Schroder usa il 27% dei possessi degli Hawks, e sono molti, specialmente considerato il basket collettivo predicato ad Atlanta, e di questi possessi, il 39.4% finisce con un assist, e il 30.7% con una palla persa. Budenholzer e Wilcox hanno scommesso convintamente su di lui, e ora spetta a Dennis iniziare a ripagare la fiducia con una crescita tecnica che non può più attendere.
Questi dolori di gioventù sono assolutamente normali e accettabili, specialmente per un playmaker cui Madre Natura ha concesso doti atletiche devastanti (e che si è abituato a dominare senza davvero destreggiarsi tra le pagine del libro del Gioco); ora però Mike Budenholzer dovrà pilotarne la maturazione tattica, come avvenne per Tony Parker, ai tempi di San Antonio. Da questo singolo, cruciale passaggio, dipende molto del futuro di Atlanta e Budenholzer.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.
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