La provincia americana è popolata di città interscambiabili tra loro, quasi come le stanze delle grandi catene alberghiere. Potreste trovarvi a Omaha, Nebraska, oppure a Saint Louis, Missouri, e non notare subito la differenza. I palazzi sono gli stessi cubi di cemento e vetro, la vita verte attorno ai medesimi, anonimi, centri commerciali.
Allo stesso tempo però, gli USA sono pieni di luoghi inconfondibili, che invece hanno una storia alle spalle; pensiamo a New Orleans e al suo quartiere francese, a San Francisco con le sue vie ripide e i tram sferraglianti, oppure all’atmosfera (nord) europea di Boston.
Memphis, Tennessee, fa storia a sé, perché pur essendo esteticamente una città senz’anima, ricca di parchi ma onestamente un po’ sporca, è tuttavia un crocevia del sogno americano, e di storia, a ben vedere, ce n’è molta, anche se spesso dolorosa e controversa.
Giace placidamente sulle sponde del Mississippi, in una posizione commercialmente strategica (non a caso FedEx, sponsor del palazzetto dei Grizzlies, ha sede in città).
Fondata nel 1819, Memphis crebbe grazie al commercio di cotone, e visse fortune alterne, tra conflitti sociali (specialmente tra neri e irlandesi) e terribili epidemie, che nella seconda metà dell’ottocento ne stravolsero la composizione sociale: con la fuga dei suoi cittadini più colti e agiati, divenne una città “blue collar”, etichetta, quest’ultima, carissima a tante franchigie odierne, dai Toronto Raptors ai Detroit Pistons (per quanto risulti ostico classificare come “operaio” chi si può permettere i salatissimi biglietti NBA).
Memphis è una Southern City che coniuga ritmi lenti e durezza, costruita a suon di lotte per i diritti dei lavoratori e per quelli civili, sfondo ideale per i “legal thriller” di John Grisham; non è un caso se proprio a Memphis, nel 1968, fu ucciso Martin Luther King Jr., innescando un ciclo di violenza che convinse i bianchi agiati a fare definitivamente le valigie in direzione della più tranquilla periferia suburbana, trasformando la città in una metropoli afroamericana (proprio come la più florida e vivace Atlanta), che è al contempo un’insospettabile fucina di artisti di livello assoluto.
Qui sono nati il rocker Jerry Lee Lewis, Al Green, B.B. King, Johnny Cash, l’immensa Aretha Franklin, e ovviamente Elvis Presley, che nacque nella vicina Tupelo ma crebbe (e morì, nel 1977) a Memphis. Non dimentichiamoci di Justin Timberlake, che forse non è musicalmente al pari della compagnia di nomi che lo precede, ma che si è costruito una solida reputazione come entertainer, e che con la moglie, l’attrice Jessica Biel, possiede una quota di minoranza dei Memphis Grizzlies.
Già, i Grizzlies. Arrivarono in città nell’ormai lontano 2001, quando lasciarono Vancouver e la Columbia Britannica, nella speranza di poter convogliare la passione per il basket collegiale, che in Tennessee è seguitissimo (sulla scorta dei successi dei Tigers) anche verso una franchigia professionistica, l’unica presente a Memphis, e che quindi non deve neppure vedersela con la durissima concorrenza di NFL e MLB.
Concluso il periodo di transizione, quando si giocava a The Pyramid e la squadra non era esattamente indimenticabile, intervenne Jerry West, reduce dall’amaro addio ai “suoi” Los Angeles Lakers. Mr. Logo trovò un ottimo punto di partenza nel lavoro svolto dal suo predecessore nel ruolo di GM, Billy Knight. Dal draft erano arrivati Shane Battier e Pau Gasol, e Knight aveva scambiato Mike Bibby con un Jason Williams nel punto più basso della sua carriera, ma che West, suo ammiratore di vecchia data, riuscì a rivitalizzare.
L’uomo della West Virginia portò in Tennessee comprimari intelligenti come James Posey (poi campione NBA con Miami e con Boston) e Mike Miller, ma soprattutto, offrì la panchina al decano degli allenatori NBA, quello Hubie Brown che tutt’ora (alla verde età di 83 anni!) delizia con la sua competenza chi ha la fortuna di ascoltarne le telecronache.
Brown e West diedero credibilità alla franchigia, creandole un’identità che tutt’ora l’accompagna, nonostante nel frattempo siano cambiati tutti i giocatori, l’allenatore, il GM, e anche la compagine dei proprietari, dal 2012 capitanati da Robert Pera, trentottenne imprenditore del settore informatico con un passato a Cupertino.
Il roster attuale è nato alla fine dell’era-West, quando, insediatosi Chris Wallace come GM, Memphis selezionò Mike Conley con la quarta chiamata nel draft 2007, per poi proseguire l’opera di ricostruzione a stagione in corso, spedendo Pau Gasol ai Lakers in cambio di contratti in scadenza e dei diritti su Marc Gasol, che di fatto è un home-boy, avendo vissuto per anni in Tennessee, al seguito del fratello maggiore.
Col trascorrere delle stagioni, il Grit-and-Grind è diventato l’emblema di questo gruppo, che puntualmente smentisce i detrattori e si ripresenta a buon livello, armato di talento, gioco di squadra, e di quella passione perfettamente incarnata da Tony Allen, autentico uomo-barometro di una franchigia che si nutre di caparbietà, tanto da aver conquistato i Playoffs persino l’anno scorso, in una stagione martoriata dagli infortuni (hanno dovuto mettere a contratto la bellezza di 28 giocatori!), arrendendosi ai Warriors al secondo turno.
Dopo aver rifirmato Mike Conley a cifre che hanno fatto inarcare qualche sopracciglio (cinque anni, 153 milioni: è il nuovo contratto collettivo, baby), Pera e Wallace hanno deciso di cambiare guida tecnica, salutando coach Dave Joerger, che era ormai giunto al capolinea emotivo di un’esperienza comunque positiva, e sostituendolo con David Fizdale, assistente NBA di lungo corso alla prima esperienza da capo-allenatore.
Fizdale (pare interessasse anche agli Houston Rockets, poi orientatisi su D’Antoni), due titoli vinti da assistente alla corte di LeBron ai tempi di Miami, è l’uomo scelto per tentare una transizione verso un basket più moderno, operazione nella quale il pur valido Joerger aveva fallito.
David Fizdale è un perfezionista, e ha cambiato il modo in cui i Grizzlies mangiano (il fritto, assai presente nei libri di ricette del Tennessee, è incredibilmente scomparso), si allenano, e persino dormono; i suoi metodi hanno catturato l’attenzione della squadra, ringalluzzita da un allenatore che chiede a tutti i suoi giocatori il medesimo grado di impegno, senza guardare in faccia all’anzianità o ai contratti.
La situazione medica dei Grizzlies non è destinata a risolversi magicamente (basti pensare all’infortunio alla schiena che ha fermato Conley per 12 partite, o alla lentezza del recupero di Chandler Parsons), ma è altresì vero che i metodi di Fizdale, ereditati da Erik Spoelstra (che a sua volta si è abbeverato alla fonte di Pat Riley) sul lungo periodo pagano dividendi in termini di prevenzione degli infortuni, e di condizione atletica, essenziale in una NBA che vive di movimento costante e di accelerazioni fulminanti.
Lavagnetta alla mano, Memphis ha cambiato molto anche per quanto pertiene il parquet: la squadra un po’ lenta e laboriosa messa in campo da Joerger ha lasciato il posto a una formazione più fluida e moderna, che cerca (non sempre riuscendoci, va detto) di far girare la palla rapidamente, e di trovare conclusioni veloci e qualitative.
Per riuscirci, Fizdale ha affrontato il passaggio più rischioso della sua per ora breve avventura in Tennessee: chiedere al veteranissimo (e beniamino del pubblico locale) Zach Randolph di adeguarsi a fare il sesto uomo, consentendo al team di schierare un quintetto a quattro esterni.
Incassato il placet di Z-Bo, coach Fizdale (che nei circoli NBA ha reputazione da uomo di basket, ma non necessariamente di grande tattico) sapeva di avere trovato il bandolo di una matassa che non può prescindere dalla disponibilità dei giocatori a sacrificarsi “per il bene della squadra”, usando le parole dello stesso Randolph.
Questa disponibilità serve (e servirà) per completare la metamorfosi, senza rifugiarsi nelle antiche certezze alle prime difficoltà, com’era successo a Joerger, che tentò lo stesso tipo di rivoluzione (sulla scorta di quanto fatto da Golden State e Cleveland) solo per abbandonarla a causa degli scarsi risultati nel breve periodo, condannandosi, di fatto, al licenziamento.
Con David Fizdale al timone, i Grizzlies non si sono miracolosamente trasformati nella riedizione dei Phoenix Suns di Steve Nash, ma sono riusciti a ricalibrare il loro modo di attaccare il canestro, senza però smarrire per strada la loro natura di formazione tignosa e difensiva, come attesta la percentuale concessa agli avversari (42.9%, secondi ai soli Warriors).
Può forse venir spontaneo sottovalutare Fizdale, per via di quella faccia un po’ così, ma va sottolineato quanto sia stato bravo nel far sembrare semplice e naturale una transizione che in passato ha mietuto innumerevoli vittime illustri, come gli Indiana Pacers di Frank Vogel, o i Chicago Bulls di Fred Hoiberg, che un anno fa si ritrovarono a metà del guado, senza più certezze difensive, e senza guadagnare trazione offensiva, finendo col deragliare miseramente in una Regular Season fallimentare.
Con un record parziale di 22-14 (13-7 alla Grindhouse, e 9-7 fuori) e la settima piazza a Ovest, Memphis si sta trasformando in una squadra orientata al movimento di palla, non solo capace di aumentare il volume di tiro da dietro l’arco (provano 25.5 triple a gara, contro le 18.5 del 2015-16), ma anche di imparare a costruire conclusioni in ritmo, che nascono dopo aver mosso la difesa avversaria, anzichè cozzandoci contro di prepotenza.
I Grizzlies ruotano offensivamente attorno al pick-and-roll Conley-Gasol, mentre tutti gli altri esterni si mettono in visione o tagliano, come fa Tony Allen, la guardia trentacinquenne delle mani di ghisa e dal cuore d’oro, capace di approfittare della distrazione delle difese per rubacchiare qualche lay-up (tanto da avere il 48.6% dal campo), o come l’ala James Ennis III (42.1% da dietro l’arco) e il tiratore Troy Daniels (40.1% dalla lunga distanza), mentre l’ex Kentucky Andrew Harrison continua il suo apprendistato NBA.
Come detto però, il motore della franchigia è l’asse centro-playmaker, vertente su Marc Gasol e Mike Conley. Il centro catalano si sta adattando a un nuovo modo di giocare che comporta parecchie novità: è al minimo in carriera per rimbalzi (solo 6.1) ma non ha mai sfornato tanti assist (4.1) o tirato così tanto da dietro l’arco (3.5 tentativi ad allacciata) o così bene (il suo 41.5% da tre è inferiore al 66% dello scorso anno, ma in questa stagione ha già tentato 118 conclusioni, contro le 3 del 2015-16), e d’altronde, non ha mai avuto un UsgRt alto come quest’anno (27.4% dei possessi di Memphis) complici i tantissimi tocchi dal post alto o dal gomito, che ne magnificano le splendide doti di passatore.
Mike Conley è l’altra metà del cielo sopra il FedEx Forum, e anche lui sta vivendo una stagione estremamente positiva (chissà che non arrivi anche la prima, stra-meritata, convocazione per l’All Star Game). È al massimo in carriera per punti (18.3) e per percentuale da tre (43.%), ma non è mai stato e non sarà mai un giocatore da giudicare solo per le statistiche.
A sua volta, anche Conley ha un altissimo Usage (26.1%), e questo alla lunga potrebbe diventare un limite di questa squadra: più del 50% dei possessi è gestito da due soli giocatori (per quanto altruisti e intelligenti), ma è anche vero che la combinazione delle due superstar offre talmente tante varianti (il loro pick-and-roll spesso finisce per coinvolgere un terzo giocatore, beneficiario dello scarico) per cui parlare di prevedibilità sarebbe inappropriato.
Tutto questo, in attesa del pieno recupero di Chandler Parsons, arrivato in estate da Dallas, che non l’ha voluto rifirmare (per lui, quadriennale da 94 milioni), e ancora alle prese con i postumi di una operazione al ginocchio (prima microfrattura, e poi anche menisco).
Coach Fizdale vorrebbe impiegarlo come giocatore universale, alla LeBron per intenderci (fatti i dovuti distinguo in termini di potenza e talento), ma finora ha avuto a disposizione un’ala esitante e priva di grande esplosività, che tira male da tre (20%) e che, con appena 2.3 rimbalzi di media, non ha grande impatto fisico sulle partite.
Ai Mavs Parsons era diventato grande amico del proprietario, Mark Cuban (qualcuno diceva anche troppo, perché Chandler era consultato per ogni operazione di mercato, e questo ha creato una dinamica antipatica in spogliatoio), ma gli infortuni e un rendimento lontano da quello –stellare– tenuto ai Rockets, hanno convinto Donnie Nelson e lo stesso Cuban a cambiare direzione, puntando su Harrison Barnes.
Grandissimo fan della cantante Adele (quest’estate si è anche presentato allo Staples, per un suo concerto, con… una settimana d’anticipo!), Parsons ha l’opportunità di ripartire da zero, liberandosi delle scorie lasciate dal rapporto con Cuban e dal mancato approdo in Texas di DeAndre Jordan, ma la strada, almeno per il momento, è ancora in salita.
Chi invece ha soddisfatto le attese, è JaMychal Green (vecchio pallino di chi scrive, per quel poco che vale), figlio dell’Alabama che, pur essendo atleta di ottimo livello, conosce i propri limiti e gioca di squadra, come ha imparato a fare ai tempi del college con i Crimson Tide. Al terzo anno di professionismo, JaMychal ha preso il posto di Randolph in quintetto, e con la sua solida meccanica di tiro (37.1% da tre) e l’intelligenza cestistica che lo contraddistingue, ha consentito ai Grizzlies di spaziare meglio l’attacco restando una formazione fisica e punitiva in difesa.
Il trentacinquenne Zach Randolph, dal canto suo, ha assorbito bene la retrocessione sul pino, passando da 29 a 22 minuti d’impiego, alternando fasi della partita in cui viene usato come cambio di Gasol, ad altri in cui Memphis torna al vecchio assetto con due lunghi. Z-Bo è calato leggermente in tutte le categorie statistiche, ma la sua percentuale di rimbalzi catturati si è impennata (dal 15.3% al 19.6%) e il minutaggio ridotto pagherà dividendi con il passare dei mesi, consentendogli di arrivare più fresco e con più energie da spendere quando sarà chiamato alla tenzone.
Un altro nonnetto che non sembra volerne sapere di appendere le scarpe al chiodo è Vince Carter, ormai giunto alla diciannovesima stagione di una carriera che non ha mantenuto quanto prometteva (ad inizio millennio era stato un serio rivale di Kobe Bryant come “nuovo Jordan”, e Tracy McGrady dovette traslocare a Orlando per togliersi dalla sua ombra), ma, a quasi quarant’anni, l’ala da North Carolina ha ancora una freschezza atletica invidiabile, e continua a fare il suo dando l’esempio (oltre ad essere l’enforcer del gruppo).
Tutto bello e tutto giusto, si dirà; ma Memphis è il perfetto ritratto della formazione intrappolata in quella mediocrità che di aureo, in NBA, ha pochissimo. Che fare allora? Smontare il giocattolo, cercando di pescare la prossima balena bianca al draft (peraltro, sapete quante franchigie hanno vinto il titolo con una loro prima scelta assoluta in squadra, da quando esiste la lottery? Due: San Antonio, con Duncan e Robinson, e Cleveland, con LeBron. Capite bene che di garanzie non ce ne sono nemmeno tankando…) oppure pazientare, e costruire su questo gruppo?
Giudicando da un oceano di distanza, ci sembra che la strada più promettente per Pera e Wallace sia di continuare a costruire su questo nucleo, migliorandolo ogni anno, e lavorando su di un supporting-cast giovane, che può fare strada. Chissà che, prima o poi, la dea bendata o la free-agency, non decidano di premiare la costanza e il cuore del Grit-and-Grind di Memphis.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.