Ve ne siete accorti? C’è una progenie di lunghi che sta prendendo possesso della NBA.

Come le tre fiere dell’inferno dantesco si aggirano nelle ombre della bassa classifica, ma talvolta affiorano in superficie per terrorizzare gli avversari.

Uno è un grosso gatto, lo chiamano KAT, uno è un leone come quelli indomabili della sua terra natale, il Camerun. Poi, il più bizzarro, è un unicorno.

C’è chi si è spinto a dire che nell’epoca che stiamo vivendo l’NBA è un point-guard’s game. Simili posizioni non hanno tutti i torti e nascono da un incrocio di fattori, alcuni casuali, altri studiati a tavolino.

Lo small ball, il tiro da tre, il conseguente allargamento degli spazi e l’incremento nell’atletismo medio lasciano preferire la funzionalità al talento.

Gli scorer puri, specie se in posizione di guardia, conducono una vita grama; pensate, per esempio, al rapidissimo declino di uno come Ben Gordon, che agli esordi piaceva parecchio. Meglio un giocatore più spartano che sappia gestire il multitasking; tra difendere, segnare e costruire almeno due caselle devono risultare spuntate.

Il concetto di combo guard è ormai obsoleto, ha difatti inglobato l’immagine stessa del backcourt player dopo il tramonto del playmaker tradizionale. Prendete i vari Kemba Walker, Kyle Lowry, Isaiah Thomas: sono giocatori limitati ma tosti, macchine in perpetuo movimento e competenti sulla pallacanestro contemporanea. Sono efficaci.

Poi ci sono i fenomeni generazionali, quelli che trainano il movimento, e qui si può tirare in ballo una buona porzione di casualità.

Dopo Shaq, Robinson, Olajuwon, Ewing? Nessun’altra figura di spicco, nemmeno mediatico, eccetto forse gli anni di fuoco di Dwight Howard. Dall’altra parte del campo Chris Paul, Steph Curry, Russell Westbrook, John Wall, Kyrie Irving, Damian Lillard.

La definizione di point-guard dominated league però non rende giustizia al pregio che i lunghi di qualità continuano a rivestire in ogni roster.

A pallacanestro si gioca comunque in cinque. Di diverso c’è che in mancanza di forze dominanti nel pitturato, è il lungo a doversi adattare alle necessità della propria squadra e alle abilità dell’avversario, non il contrario.

La funzione del big man resta imprescindibile ma gli interpreti sono più variegati. I 5 più pagati di oggi sono specialisti della difesa come Gobert o atleti puri come DeAndre Jordan e Tristan Thompson, altri come Draymond Green e Al Horford sono coltellini svizzeri capaci di unire qualità in attacco e protezione del ferro.

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Qualcosa, però, sta cambiando. Kristaps Porzingis, Karl-Anthony Towns e Joel Embiid provano a spostare il baricentro del gioco, a riesumare il vecchio pivot dotandolo di arti bionici.

Non sono casi isolati o prototipi prodotti in laboratorio, tutt’altro. Sono il frutto del meccanismo evolutivo che opera in qualsiasi ambito vi sia competizione, per la vita o per la vittoria. La sopravvivenza del più forte garantisce ricambio ciclico e continua innovazione.

Pescando i loro filamenti di DNA da un pool genico che in passato era precluso alla loro categoria, i tre sono a tutti gli effetti big men della nuova generazione, aggiornati alla versione 3.0.

Quello che offrono, pur con limiti dettati dall’inesperienza, è il pacchetto completo. Potenzialità da giocatore totale nel senso cruyffiano del termine.

Embiid ha il fisico del centro vecchio stile ma piedi insospettabilmente veloci, gli altri due dispongono di uno chassis più leggero ma sorprendentemente forte. Possono migliorare in massa muscolare dal bacino in giù, ma il lift è di un altro pianeta rispetto a un Bargnani, agile ma non esplosivo.

L’impronta nowitzkiana è evidente in qualsiasi lungo con attitudini perimetrali ma la pallacanestro è cambiata dal 1998 e dal caschetto biondo del tedescone. Oggi si estremizzano gli spazi, in orizzontale e in verticale.

Guardate come vola a rimbalzo in attacco Porzingis, o Towns che cavalca in campo aperto con quelle falcate un po’ sgraziate, per poi saltare a mangiarsi il ferro. Verticalità.

In difesa tutti e tre sanno cambiare sui piccoli, conditio sine qua non per lo spot di 5 nel 2016, per poi scendere a proteggere il ferro. Embiid è già uno shot blocker di primo livello, gli altri due si faranno le ossa come intimidatori. Noi scommettiamo che ci metteranno poco: hanno un cuore grande come un pallone da basket e non si sottraggono a un contatto nemmeno a pagare.

L’attacco, però, è il campo dove il gene egoista ha raccolto i migliori guadagni in termini evoluzionistici. È quello che costringe gli avversari ad adattarsi a te, comanda l’inversione di tendenza che i tre alfieri stanno preconizzando.

Towns, semplicemente, non ha difetti. Il tiro dalla distanza ha una forma antiquata ma efficace (33%), divora gli spazi in velocità, batte l’uomo dal palleggio, sa costruirsi il tiro come una guardia, conosce un paio di go-to-moves con le spalle al canestro. Non è un caso se hanno iniziato a piovere i primi quarantelli.

Quel che gli si può imputare è un’interpretazione ancora grezza della partita – tende a partire forte e poi a spegnersi – e una scelta di tiri rivedibile. Segna con un 47.8% complessivo, ma a volte si accontenta della conclusione da tre.

In questa clip Al Horford va al bar, si siede, ordina un Gin Tonic, se lo scola e racconta la sua vita al barista

Porzingis lascia andare il pallone dai polpastrelli ad un altezza proibitiva per i difensori, in più ha un buon margine per inquadrare il ferro sopra le loro mani protese.

Il suo tiro è di qualità sopraffina, che sia da tre piedi per terra o in sospensione dal palleggio. Questo già lo si immaginava quando fu scelto – tra i fischi – al draft; sono gli altri aspetti del suo gioco che ci fanno saltare sul divano. Quella proprietà di palleggio innestata su di un 7’3” è disarmante, segna 1.04 punti per possesso in penetrazione.

Fa un po’ fatica a farsi largo nel pitturato o a ricevere nello stretto, ma i movimenti ci sono e con quella sensibilità nelle dita può centrare il canestro da qualsiasi angolazione. Le statistiche che sta accumulando da fine ottobre sono nobilitate dal contesto poco educativo in cui si esibisce, con tre veterani a litigarsi le chiavi dello spogliatoio e un coach che non ha ancora imposto una direzione precisa.

Se i Knicks stanno puntando seriamente ai playoff, buona parte del merito è sua.

Alla lezione di minibasket dove spiegavano che i lunghi non devono mettere palla per terra, Kristaps era assente

Embiid, fra i tre, è l’oggetto più misterioso. Gioca sotto il limite dei 30 minuti a partita, in una squadra perdente, dopo due anni di inattività, ci fa trattenere il respiro ogni volta che cade a terra; se nonostante questo gli dedichiamo un pezzo di articolo, significa che il ragazzo ha qualcosa di unico.

L’impostazione è classica, la presenza in campo ha un sapore duncaniano. Quando è sul parquet il rendimento difensivo dei Sixers s’impenna (100 punti su 100 possessi, dato tra i migliori in NBA) e in attacco è un centro di gravità permanente, un fantasista del post-basso come non se ne vedevano da tempo (segna nel 40% dei casi e si guadagna 6.4 tiri liberi).

Si getta su ogni pallone, specie quando la partita è in bilico, ruggendo come i leoni indomabili del suo Camerun; Embiid ha conosciuto la pallacanestro da poco e se n’è innamorato come in una cotta estiva. Il software, comunque, ha ricevuto l’aggiornamento. Con porzioni di campo lasciate scoperte dalle politiche di spacing, Embiid ha sviluppato un tiro da tre di tutto rispetto (sfiora il 50% da posizione frontale) e, soprattutto, partenze in palleggio come questa qui.

Finta, partenza in palleggio e sottomano, tutto con la sinistra. Guardate bene: questi non sono passi nemmeno col metro europeo

In questa nostra versione di un’iper-natalizia poltrona per due, che qui diventa per tre, c’è qualche altro paio di chiappe che resta fuori.

DeMarcus Cousins si è fermato all’upgrade 2.5, ormai è un giocatore affermato ma sembra allergico ai record superiori al 50%. Tra i centri della sua generazione è l’unico con un repertorio offensivo degno di questo nome, e ogni anno lo arricchisce. Pure lui tira da tre con un certo agio e ricorre sempre più di frequente alle partenze in palleggio dal perimetro, per guadagnarsi il pitturato in corsa. Ha una sensibilità per il canestro che ricorda il venerabile Rasheed, però gioca su un’isola. Soprattutto, l’impatto difensivo non è all’altezza dei nuovi mostri.

E Anthony Davis? Ci dimentichiamo di lui fin troppo spesso, ma non ha mai lasciato la competizione. Per completezza di fondamentali, su entrambi i lati del campo, se la gioca con Towns e probabilmente lo supera. Fisicamente, però, viaggia a una marcia più bassa.

Le stagioni frammentate da infortuni sono lì a dimostrarlo e ci rendono difficile il giudizio. Tende più al 4 che al 5 e finora nessun coach è stato in grado di ritagliargli una squadra intorno.

Noi attendiamo, con pazienza, che le stelle si allineino per lui e per gli altri tre. Quello che manca ai lunghi 3.0, per lanciare la rivoluzione e stravolgere il meta-gioco, è quello che più conta. La vittoria. Un impatto decisivo sulla squadra.

Questa nidiata di fenomeni fa pensare alla trinità Duncan-Garnett-Nowitzki con la conseguente influenza sullo spot di power forward, ma è necessario che Timberwolves, Knicks e Sixers s’inseriscano nel giro del basket che conta senza tergiversare. Il vero banco di prova per i prodotti dell’evoluzione, dove si applica la selezione naturale, è quello dei playoff.

 

2 thoughts on “Big Men 3.0 : il gatto, il leone e l’unicorno

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