Il 4 luglio 2016, quando Kevin Durant ha annunciato al mondo la decisione di accasarsi in riva all’oceano Pacifico, era opinione diffusa che la permanenza in Oklahoma di Russell Westbrook non si sarebbe mai e poi mai protratta oltre la scadenza naturale del suo contratto (giugno 2017).
Il GM Sam Presti però, non aveva alcuna intenzione di trascorrere dodici mesi facendosi cuocere a fuoco lento, e decise così di porre Westbrook (e i suoi agenti, Gregory Lawrence e soprattutto Arn Tellem) dinanzi ad una scelta netta: prolungare il contratto, oppure essere scambiato prima dell’inizio della nuova Regular Season, in modo da massimizzarne il valore sul mercato.
Contro ogni pronostico, Russy ha optato per la prima alternativa. Il 6 luglio, di passaggio ad OKC per girare uno spot pubblicitario, chiamò il PR della squadra, Matt Tumblesom, informandolo della propria scelta, e così facendo, si è impadronito definitivamente della franchigia per la quale ha sempre giocato; a dirla tutta, anche un osservatore distratto sa che, già da alcuni anni, Westbrook è il leader emotivo, vocale (e per certi versi, anche tecnico) dei Thunder, ma si trattava di una situazione bilanciata dalla presenza di Durant, che, per quanto incline a muoversi in punta di piedi, contribuiva a reggere l’equivoco su chi fosse l’autentico “franchise-player”.
Con KD a vestire la maglia dei Warriors e l’autografo di Russ in calce ad un triennale da 86 milioni di dollari (e l’opzione per uscire dall’accordo dopo due anni, quando diventerà eleggibile per un max-contract pari al 35% del salary cap), ogni dubbio è stato fugato, aprendo allo stesso tempo una frattura apparentemente insanabile tra i due ex compagni di squadra, che, in un modo o nell’altro, avevano trovato l’equilibrio necessario per coesistere, arrivando molto più vicini all’anello di quanto gli venga dato credito.
Se Russell avesse a sua volta abbandonato la nave, l’addio di Durant sarebbe stato meno criticabile e gli strali del pubblico si sarebbero concentrati sulla dirigenza incarnata da Presti; restando, Westbrook si è trasformato nel portabandiera della lealtà sportiva (si tratta naturalmente di una semplificazione ad uso e consumo dei media, ma tant’è) in contrapposizione con la supposta “vigliaccheria” dell’ex beniamino Durant, vestito per l’occasione dei panni di “Golden Digger” (“gold digger” è letteralmente il cercatore d’oro, ma è un termine usato dispregiativamente per indicare chi lucra dai rapporti sentimentali. Insomma, il buon vecchio “mercenario” dell’italico calcio).
E pensare che Sam Presti, prima del Draft 2008, non era affatto sicuro di voler scegliere Westbrook; aveva impostato i neonati Thunder attorno a KD, e avrebbe scambiato volentieri la quarta chiamata assoluta, ma siccome nessuno offriva una contropartita adeguata, chiamò, senza aspettarsi granché, quello che di lì a otto anni sarebbe diventato il giocatore più importante degli Oklahoma City Thunder, e che si avvia a divenire a breve l’uomo-franchigia per definizione della loro storia.
La crescita della guardia ex UCLA nel corso della propria carriera è stata esponenziale, tanto che il portatore d’acqua designato è diventato pian piano il fulcro della squadra di Clay Bennett, grazie alla sua capacità d’essere nord-sud senza compromessi, all’irreale capacità di coniugare velocità, esplosività e verticalità, ma soprattutto grazie ad un atteggiamento mentale che non fa prigionieri, e non contempla turni di riposo o serate libere.
A Oklahoma City l’hanno sempre sostenuto senza riserve, e questo, nella testa di Westbrook, equivale ad avere un credito con lui, un credito che reputerà saldato solo quando regalerà una parata alla sua Loud City.
Russ è un paradosso ambulante: fashion victim se ce n’è uno, è allo stesso tempo una persona d’inflessibile rigore militaresco, prima di tutto verso sè stesso. Lo si critica perché gioca un basket “sbagliato”, eppure è un cestista costruito in palestra e al videotape, uno che quando scende in campo ha un obiettivo solo, quello “giusto”: vincere. Ce lo raccontano come una superstar narcisista, e poi lo trovi in spogliatoio che controlla i centesimi sugli scontrini e invita i compagni a riordinare l’armadietto.
Molti appassionati non amano i modi sopra le righe di Russ, che però vanta tra i suoi estimatori Kobe Bryant, uno che si riconosce nell’atteggiamento di costante sfida a tutto e tutti esibito da Westbrook, in quella brama di fare in fretta e alla perfezione. Anche Michael Jordan ha recentemente detto, pensate un po’, di rivedersi nella guardia di OKC, che in effetti è uno dei pochi giocatori dell’NBA attuale a non voler essere a tutti i costi “amico” degli avversari, come ha sottolineato Charles Barkley.
Westbrook non è tipo da dare per scontato di essere professionista (da ragazzo era convinto di giocare solo per ottenere una borsa di studio e laurearsi, opinione condivisa dal mitico Frank Burlison, che lavorò con lui e mai si sarebbe immaginato di trovarselo tra i protagonisti dell’All Star Game). Per lui quel che conta non è necessariamente arrivare, ma sapere d’aver dato tutto, e, avendo vissuto abbastanza rifiuti in vita sua, non da per scontato il modo in cui i Thunder l’hanno trattato. Insomma, old school nel senso migliore del termine.
Al netto delle differenze tecniche (MJ e Kobe avevano fondamentali di livello assoluto, che non pertengono al patrimonio cestistico di RW0) la costante aggressione e la smania di Russell non possono non ricordare il Jordan prima maniera, quello che, allenato da Doug Collins, si ostinava a giocare uno contro cinque, andando sbattere contro i Detroit Pistons.
Ci volle Phil Jackson (e un altro paio di delusioni contro i Bad Boys di Isiah Thomas e Joe Dumars) per consentire a Michael di vedere la luce della “right way”, quando aveva la stessa età che Westbrook ha oggi, cioè 27 anni.
Russell, nativo di Long Beach, California, non è uno di quei predestinati cui tutto riesce facile. Si è dovuto conquistare un posto in squadra persino a Leuzinger High (quanto a storia cestistica, non proprio la Simeon High di Ben Wilson e Derrick Rose) e UCLA lo reclutò per ricoprire il ruolo di “giocatore locale”, ossia lo scugnizzo seduto in fondo alla panchina che fa simpatia e sventola l’asciugamano mentre “quelli forti” (Kevin Love, Arron Afflalo, oppure Josh Ship e Darren Collison) fanno canestro.
L’espressione americana per questo genere di storie è “from zero to hero”, e non è un caso se “zero” è anche il suo numero di maglia, indossato come memento motivazionale, se mai allo spirito competitivo di Russy dovesse servire un ulteriore pungolo.
Con otto stagioni NBA sotto la cintura, Russell Westbrook gioca per la prima volta senza l’ombra ingombrante del compagno di sempre, Kevin Durant. Era già capitato, nel 2015, che Westbrook fosse costretto dalle circostanze a supplire l’assenza dell’infortunato KD, ma il contesto di squadra era troppo distante da quello odierno per pensare di fare un paragone sensato con quanto accadrà nei prossimi mesi: questa OKC è certamente più forte e meglio allenata della compagine guidata da Scottie Brooks, che mancò addirittura l’accesso ai Playoffs.
Un anno fa, l’arrivo sul pino di coach Billy Donovan aveva gradualmente cambiato gli Oklahoma City Thunder, correggendo tanti piccoli difetti, dalle giocate in uscita dai time-out ai set offensivi, costruendo una difesa fisica e tremendamente efficace (come hanno scoperto i San Antonio Spurs).
OKC sembrava ormai pronta per concretare il proprio talento e mettere così le mani sul titolo NBA, complice lo scambio con gli Orlando Magic che ha portato in Oklahoma la guardia Victor Oladipo e Ersan Ilyasova (oltre a Domantas Sabonis, figlio del mitico Arvydas) in cambio di Serge Ibaka.
I baffuti Kanter e Adams sono ormai pronti alla definitiva consacrazione, e Kehinde Babatunde Victor Oladipo è un upgrade rispetto a Dion Waiters nel ruolo di guardia, dotato oltretutto di una propensione a difendere utile a compensare la scarsa applicazione di Westbrook, ormai dimentico dei propri trascorsi da lock-down-defender. Ilyasova invece, è appena stato spedito in Pennsylvania in cambio di Jerami Grant, ala atletica che inseguivano da tempo.
Grant è un… parente d’arte: i suoi fratelli sono Jerai (che i più attenti ricorderanno a Brindisi, nel 2012-13) e quel Jerian attualmente in forza a Chicago; il loro padre Harvey ha giocato a Washington, Portland e Philly, mentre lo zio (gemello di Harvey) è Horace Grant, ala forte quattro volte campione NBA tra Bulls e Lakers.
22 anni, doti balistiche rivedibili, Grant è un’ala che può ricoprire due ruoli con intensità, difesa e atletismo, tutte doti preziosissime in questi nuovi Thunder. Jerami è un vecchio amico di Oladipo (hanno frequentato assieme le superiori a DeMatha) e si abbina bene con l’atteggiamento “all in” di Westbrook, che gli ha costruito al contempo un seguito di fedelissimi che vedono ardere in lui il fuoco sacro per il gioco, e di detrattori che non tollerano la sua esuberanza.
Russell è questo, prendere o lasciare, e Kevin Durant ha optato in modo netto per la seconda alternativa, mandando a monte i piani di Bennett e Presti. Ora che la coppia si è rotta, stanno emergendo storie di dissidi rimaste a lungo sepolte nei corridoi della Chesapeake Energy Arena.
Era opinione comune che le due superstar, pur senza essere amiconi, si rispettassero, ma i recenti battibecchi pubblici (per quanto privi di autentico fiele) hanno rivelato che, nella migliore delle ipotesi, si sopportavano per il bene della squadra. A fine giugno, in un incontro tenutosi in un ristorante di West Hollywood, Westbrook arrivò al punto da chiedere al numero 35 cosa avrebbe dovuto cambiare nel proprio gioco, e di offrirsi di andarlo a trovare ad Hamptons (località scelta da KD come sede d’incontro con le franchigie interessate ai suoi servigi).
Durant però, era affascinato da quei tiri che Golden State costruisce in assoluta armonia, da quel basket apparentemente leggero e senza sforzo, e dalle praterie che gli Splash Brothers gli avrebbero aperto. Certo, i Warriors l’avevano appena eliminato in rimonta, ma questa, per KD, era una considerazione subordinata rispetto al desiderio di una nuova avventura in una “team-culture” che aveva fatto presa sulla sua immaginazione anche più dei Boston Celtics, che già l’avevano fatto vacillare.
Westbrook stava festeggiando il Giorno dell’Indipendenza a casa propria, a Los Angeles, quando ricevette il messaggio ferale, inviatogli da Durant immediatamente dopo la pubblicazione della ormai famosa lettera aperta comparsa su The Players’ Tribune.
Russell non ha mai preso in cosiderazione l’idea di cambiare aria per “vincere facile”, o per mettersi al seguito di qualcun’altro, e non ha preso particolarmente bene l’idea che Durant, dopo anni di sacrifici, abbia gettato la spugna, abbandonando lui e OKC (staff, dirigenti, tifosi e compagni) con i quali, per usare le sue parole “era stato in trincea“.
Per Westbrook questo comportamento ammonta ad un tradimento (sportivo, per carità, ma non di meno tradimento) rispetto alla missione che si erano dati, e non vediamo l’ora di vederlo in campo, motivato e incattivito dalla decisione di Durant. Il prossimo 3 novembre si terrà il il primo match tra i due alla Oracle Arena, mentre il 18 gennaio 2017 avrà luogo la resa dei conti definitiva (salvo incroci ai Playoffs!) in Oklahoma.
Billy Donovan dovrà essere bravo a incanalare la rabbia della propria guardia, cercando, per quanto possibile, di usarla per dare trazione in campo alla squadra; quanto a statistiche, Westbrook può far ombra persino ad Oscar Robertson, ma quel che si chiede ad un leader non sono numeri, bensì un certo tipo di impatto, che passa anche per un “usage” minore, in favore del coinvolgimento dei compagni e della cura di alcuni dettagli (difesa sopra al minimo sindacale, ad esempio).
Russell è nato per dominare, questo è fuor di dubbio, ma può riuscire a mettere il proprio talento e la propria ferocia agonistica al servizio del gruppo, convogliandola sui binari giusti, oppure continuerà ad essere una forza incontenibile quanto ingovernabile? In fondo, sarebbe il modo giusto per rispondere a Durant, che da Oakland, ha parlato dei suoi nuovi compagni, sottolineandone l’altruismo.
Le squadre che hanno un giocatore dal marcato UsgRt sono normalmente formazioni mediocri. Su 17 giocatori che hanno messo a referto un Usage Rate superiore al 35%, solo uno ha raggiunto le Finali (Allen Iverson), sei hanno perso al primo turno (Kobe, Jordan, George Gervin, Tracy McGrady, Dwyane Wade), e cinque hanno guardato i Playoffs dal divano di casa; insomma, con le one-man-band non si va da nessuna parte.
La buona notizia, è che i Thunder sono attrezzati a sufficienza per evitare quest’etichetta. OKC ha un’eccellente difesa, fisica, atletica e dotata di centimetri (è arrivato anche l’interessantissimo Joffrey Lauvergne), e Donovan dovrà usarla per forzare palle perse e fare quanta più transizione possibile, onde evitare di vedere esposte le lampanti lacune nel tiro dalla lunga distanza (il sostituto di KD in quintetto è Andre Roberson, bravo ragazzo e tosto difensore, titolare di un avventuroso 31% da dietro l’arco).
Per il momento, l’ex allenatore di Florida sta proponendo un quintetto con Adams (solo otto gicatori in tutta la NBA contestano più tiri di lui) e Sabonis (titolare puramente cosmetico, visto che gioca appena 13.5 minuti a partita), Roberson (sceso intanto al 25% da tre, col 37.5% ai liberi), Westbrook e Oladipo, che non ha iniziato nel migliore dei modi (17 punti di media col 34%, più di cinque “deflections” a partita, ma anche 3.3 palle perse a fronte di 2.3 miseri assist ad allacciata).
Indipendentemente dall’impatto dei singoli, i Thunder sono partiti molto bene, giocano tanto sui passaggi avversari grazie a centimetri e atletismo (rubano 11 palloni ed effettuano 24 deviazioni a partita), proteggono il ferro (concedono solo il 47.9%), concedono appena il 23.5% da tre e hanno il terzo defensive rating (92.2) della lega, dietro a Cavs e Hawks.
Kanter e soprattutto Oladipo sono giocatori in grado di segnare (all’interno di un sistema), e compatibili con Westbrook, ma dovranno essere bravi a non farsi schiacciare dalla dirompente personalità di Russell Westbrook, che si gioca la stagione della vita e ha iniziato con 38.7 punti, 12.3 rimbalzi e 11.7 assist nelle sue prime tre uscite stagionali: è questo l’anno in cui si impadronirà dell’NBA?
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.
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