Al mondo vi sono diversi paradossi.
Achille e la tartaruga, l’uovo e la gallina, il Comma 22, il viaggio nel tempo, i Chicago Bulls 2016/2017.
Perché aprire il portafogli a veterani di qualità adesso che tira aria di rifondazione e non muoversi sul mercato qualche anno prima, all’apice della carriera di Derrick Rose, quando ti candidavi al ruolo di contender? Tom Thibodeau, che ora sbraita sulla panchina dei giovanissimi Minnesota Timberwolves, gradirebbe conoscere la risposta più di noi.
Poche squadre fanno alzare il sopracciglio come i Bulls costruiti in questa caotica estate.
Che Rose e Noah fossero ai ferri corti coi tori si sapeva, ma il corso naturale delle cose voleva Jimmy Butler ereditarne il testimone, ergersi a leader di un gruppo farcito di prospetti intriganti e lasciare spazio di manovra a coach Fred Hoiberg, senza la pressione del successo a tutti i costi.
Se vuoi puntare ad una transizione felice dalle panchine dei college a quelle NBA, l’esempio da seguire non può che essere quello di Brad Stevens ai Celtics; un paio d’anni di purgatorio e poi via nel basket che conta.
Per questo la firma di Dwyane Wade è piovuta come un fulmine a ciel sereno. Una delle ultime bandiere in un’epoca in cui di bandiere non ne esistono più, ha salutato Miami con la consueta classe e ha scelto di portare i suoi talenti nella Windy City.
È la narrativa dell’hometown kid, del figliol prodigo che torna a casa, e in pochi sono più fieri delle proprie radici dei figli di Chicago. Cosa ci sia veramente dietro alla decisione di D-Wade non lo sappiamo e forse non lo sapremo mai, c’è chi parla di dissapori con Pat Riley, fatto sta che forse nemmeno ai piani alti della dirigenza Bulls si aspettavano che dicesse sì alla loro proposta.
E allora ecco che i rumors che dipingevano Butler infelice e con la valigie in mano, per fare tabula rasa e ripartire da zero, si spengono. Si inizia a parlare di qualcosa in più, d’altra parte la Eastern Conference è una tela bianca dai Cleveland Cavaliers in giù.
Con due All-Star in squadra sei obbligato a provarci, specialmente quando hai un pubblico esigente, che non si è ancora dimenticato quanto è bello vincere dagli anni di Jordan. Da New York era già arrivato Robin Lopez a puntellare il reparto lunghi, ecco anche Rajon Rondo selezionato tra il parco dei giocatori a piede libero.
Il contratto è di quelli poco impegnativi, due anni senza opzioni, come si conviene per uno con la fama di piantagrane. Dopo l’infortunio al ginocchio le sue performance difensive sono scese in picchiata, eppure nel lazzaretto dei Sacramento Kings Rondo ha registrato statistiche di tutto rispetto, tra le migliori della carriera: 11.7 assist a partita e una percentuale dall’arco finalmente degna di questo nome, 36.5%, nonostante la meccanica rimanga traballante.
Quando si parla del nuovo assetto dei Chicago Bulls c’è però un proverbiale elefante nella stanza. Un quarterback e due ricevitori vanno bene nel football, nella pallacanestro del 2016 che venera le spaziature serve qualcuno che si apposti sul perimetro e apra il campo per i compagni. L’idra a tre teste rischia di diventare un mostro impacciato, che si pesta i piedi. Qualcuno dovrà reinventarsi.
Rajon Rondo sembra essersi già calato nella parte come il migliore degli attori protagonisti. I compagni ne cantano le lodi. “È super-intelligente” ha detto Butler. “Vede le cose sul campo prima che accadano. Mi scuso in anticipo con lui, perché so già che nel corso della stagione mi passerà la palla prima che io capisca le sue intenzioni”.
Coach Fred Hoiberg rilancia. “E’ il nostro leader vocale, riunisce tutti intorno a sè”. Rondo intanto si crogiola nei complimenti. “Rendo più facile il lavoro agli altri, è il mio mestiere”.
Il principale candidato a vestire i panni del trasformista è Wade. In fondo l’ha già fatto una volta e gli è valso due anelli coi Miami Heat; il pallino del gioco era in mano a LeBron James e lui si sacrificava in movimenti senza palla e negli intangibles.
Dopo tredici anni di carriera ha l’esperienza necessaria per adattarsi ai compagni, il fatto che abbia scelto la strada difficile per tornare a Chicago suggerisce che sia anche abbastanza umile da accettarlo. La questione tecnica però rimane in sospeso.
Nonostante la sua rinascita atletica degli ultimi tempi, Jimmy Butler gli rimane superiore come slasher, difensore e rimbalzista. Entrambi sono nell’élite quando attaccano il ferro, decimo e quattordicesimo nella lega per punti generati ad azione secondo SportVU, ma il pallone è uno solo e il canestro pure.
Hoiberg ha subito messo le cose in chiaro; avrai spazio a disposizione sul perimetro, devi tirare da tre, e lui in estate ha gettato le basi per una stagione da career-high nelle conclusioni dall’arco. Flash è reduce da una stagione singolare; tra 2015 e 2016 ha trascorso quattro mesi senza mai muovere la retina dalla distanza, poi ha scoperto una precisione invidiabile nei playoff, 12/23.
A Chicago si augurano di ammirarlo in quest’ultima versione, impersonando magari la trasformazione di un Jason Kidd a fine carriera coi Mavericks. Ma se non nasci tiratore, difficilmente muori cecchino.
Qualche cifra per analizzare meglio la questione del tiro da fuori. Lo scorso anno i Bulls sono stati terzi per efficienza nelle cosiddette conclusioni wide open, i tiri smarcati, frutto della predicazione di Fred Hoiberg su ritmo e spaziature.
Le principali firme dietro alla percentuale di 41.5%, però, hanno cambiato casa, E’Twaun Moore e Mike Dunleavy, mentre Doug McDermott difficilmente vedrà incrementare il proprio minutaggio. Dei 51 wide open shot che si è preso Jimmy Butler, ne ha messi a segno soltanto il 33.3%, abbondantemente sotto la media della lega.
Ma a chi è meglio lasciare il compito? Wade a quel tipo di soluzioni ricorre col contagocce (4/9 la passata stagione), Rondo quando non è marcato tira col 37.7% in carriera.
Se c’è un dato che è emerso con chiarezza dalle ultime 82 partite dei tori è che il matrimonio tra Rose e Butler non s’aveva da fare.
I due si toglievano spazio, non producevano assist, penalizzavano la squadra quando condividevano il parquet. Sarà interessante vedere Butler alle prese con nuovi compagni di squadra. Da un lato gli consentiranno di esprimere il proprio potenziale difensivo, dall’altro gli contenderanno la leadership appena conquistata.
Con parole al miele sia Rondo che Wade lo hanno riconosciuto come il maschio alfa dello spogliatoio, ma parleranno i fatti. Per chi vuole intendere, Butler ha già lanciato l’esca. “Mi sta bene che si faccia sentire” ha detto, a proposito della nota faccia tosta di Rondo. “Mi farò sentire anch’io. Voglio che mi ritenga responsabile, e che io ritenga responsabile lui”.
Oltre ai nuovi big three, ed è questa la nota più incoraggiante, il roster è profondo. Chicago cova una nidiata di prospetti accattivanti già da un paio d’anni ed ha appena aggiunto alla lista il duttile Denzel Valentine da Michigan State.
Il rischio è che smettano di essere giovani prima ancora di essere maturati. Tony Snell e Doug McDermott si sono goduti il loro quarto d’ora di celebrità per poi tornare nelle retrovie, e il primo è stato persino scambiato con Michael Carter-Williams dei Bucks; i Bulls ottengono un affidabile vice-Rondo nonché un’assicurazione nel caso il prodotto di Kentucky desse di matto, ma ingolfano ulteriormente il backcourt rinunciando a un valido interprete del 3-and-D.
Tra i lunghi Bobby Portis ha lasciato intravedere sprazzi di talento e scalpita accanto al veterano Taj Gibson. Nikola Mirotic è l’unico ad essersi già affermato, ma a questo giro è chiamato a spiccare il volo dopo aver ricevuto l’investitura da Pau Gasol.
La sua affidabilità dall’arco sarà l’ingrediente decisivo perché la salsa made in Chicago risulti piccante al punto giusto. Ha migliorato la percentuale effettiva di oltre dieci punti dopo l’All-Star break, periodo in cui il 62% delle sue conclusioni a canestro coincideva con tiri da tre.
Robin Lopez è lì apposta per coprirgli le spalle e presidiare il pitturato, ma coach Hoiberg dovrà valutare con cautela se puntare sulla classe dello spagnolo o preferirgli l’indiavolato Gibson. Un tiratore di striscia potrebbe non bastare.
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È in difesa che ci si aspettano i miglioramenti più sensibili. Butler sguinzagliato sull’avversario più pericoloso e Lopez al posto degli acciaccati Noah e Gasol sono una certezza, a maggior ragione in un reparto che, seppure a singhiozzo, funzionava anche l’anno scorso: sono stati tra i sette migliori fino a gennaio e tra i sette peggiori da lì ad aprile.
C’era un eroe che agiva nell’ombra, Tony Snell: il rating difensivo aumentava di 10.4 punti con lui in campo, solo Draymond Green incideva più di lui, ma quest’anno lo vedremo con la casacca di Milwaukee.
L’attacco andrà oliato a puntino. Con quel tipo di backcourt non è facile immaginare un gioco spumeggiante, extra pass e alte percentuali. I Bulls che mirano ai playoff del 2017 vinceranno le partite d’astuzia e di peso, costruendosi un’identità di squadra che bada al sodo.
Viene da chiedersi se Fred Hoiberg sia l’uomo giusto per questo progetto, sfidato in carisma da uomini poco più giovani di lui, con ragazzi appena usciti dai college limitati a ruoli secondari. È sopravvissuto ai malumori di Butler e soci in un’annata di obiettivi modesti ma se quest’anno i risultati dovessero tardare potrebbe finire estromesso dal nuovo triumvirato che governa lo United Center.
Sembrano i Bulls che avrebbe amato Tom Thibodeau, tosti, da spremere fino in fondo, avrebbe persino ritrovato Rondo dai tempi dei Celtics. Ma così sono i paradossi; Achille non ha ancora raggiunto la tartaruga.
Scrittore e giornalista in erba – nel senso che la mia carriera è fumosa -, seguo la NBA dall’ultimo All Star Game di Michael Jordan. Ci ho messo lo stesso tempo a imparare metà delle regole del football.
GO BULLS!