Se siete appassionati di NBA, o di sport americani in generale, avrete anche voi un senso di mistificazione per gli Stati Uniti.
I bioritmi squilibrati dai tre diversi fusi orari (italiano, costa Est e Ovest), il gusto perverso per il junk food, ma soprattutto il fascino esotico che ogni città, o stato, provocano solo al sentirne il nome.
Avete il pallino per New York, L.A. e Miami certo, ma non siete i soliti turisti casuali: voi amate anche le vaste e desolate pianure del Kansas. Va di conseguenza che anche Minneapolis vi sembra una Courmayeur meno fighetta, ma escludendo quelli tra voi che nutrono una fissazione per il freddo siderale ― anche se parlando di appassionati NBA son sicuro che qualcuno così strano lo troviamo ― possiamo dire con certezza che c’è poco altro.
Ma se siete appassionati di NBA sapete però benissimo che questa città, così minimalista, dai colori artici e crocevia della miglior deviazione mentale scritta dai fratelli Cohen sinora, rischia di essere il Centro Caldo Dell’Universo NBA del prossimo decennio.
I Minnesota T’Wolves sembrano avere tutto, ma proprio tutto, per rompere gli argini della storia e della sfortuna; i pezzi di puzzle assemblati con parsimonia e amore negli anni scorsi sembra essere finalmente pronti a mettere il gentil Minnesota sulla mappa dei conquistatori.
Prima di bombardarvi il cervello con cannonate di hype sui T’Wolves del domani è doveroso soffermarsi un momento su Kevin Garnett, il giocatore-icona di Minnesota negli ultimi venti anni, che con l’annuncio del suo ritiro ha chiuso per sempre un capitolo fondamentale della storia della franchigia.
Nonostante abbia giocato anche per i Brooklyn Nets e soprattutto per i Boston Celtics, coi quali ha vinto il suo primo e unico titolo NBA nel 2008, Garnett è stato lo spirito guida di tutto il movimento ― sportivo e non ― dei T’Wolves, racchiudendo all’interno del suo personaggio tutti i sogni, le delusioni, le incertezze, la vita appunto, di tutti coloro che aspettavano l’alba della rinascita.
Garnett è stato molto di più di un giocatore straordinario, di un atleta futurista, di un difensore leggendario. Garnett è stato il cuore tribale di una presa di coscienza che non si piega alle regole, che combatte il conformismo, la superficialità. Garnett è stato un ponte tra due ere geologiche diverse unendo i puntini di congiunzione con il fuoco tipico del rivoluzionario.
The Revolution ha cambiato totalmente il Gioco fin dai suoi primi passi nella NBA, datati novembre 1995, e l’ha cambiata insieme ad un altro prodigio di scienza mistica: un caraibico, silenzioso e dall’anima lunga. Tim Duncan, altra leggenda che ha deciso di dire basta quest’estate.
Basta con l’angolo Degli Occhi Lucidi, d’accordo, ma se anche voi come Dio non giocate a dadi e non credete alle coincidenze vi basti sapere che da qualche parte nel caribe, nel novembre del 1995, veniva alla luce un’altra anima lunga destina ad entrare nel Libro del Gioco: Karl-Anthony Towns, ovvero il motivo principale di tutte le aspettative che si stanno accumulando attorno ai Minnesota Timberwolves.
Oltre al doveroso ringraziamento a The Big Ticket, Minnesota deve ringraziare calorosamente anche un altro personaggio che ha inciso tanto nelle sorti della franchigia come Flip Saunders. Prima che una tremenda malattia ponesse fine alla sua esistenza Saunders ha rimesso in piedi un progetto valido, ripulendo i disastri della gestione Khan.
Saunders rifonda la franchigia smantellandone tutte le fondamenta e mettendo assieme un gruppo di giovani molto promettenti.
Cede la stella Kevin Love ai Cavs (dopo averci provato anche coi Warriors proponendo la scambio con Klay Thompson) in cambio delle ultime due prime scelte assolute Bennett e Andrew Wiggins, ai quali aggiunge giocatori come LaVine (scelto con la numero 13), Shabazz Muhammad, Rubio, Jones e la prima scelta del Draft 2015, Towns appunto.
Il core è giovane, garantisce elasticità di costruzione e progettualità, e soprattutto permette finalmente alla franchigia di ripartire da zero. Saunders purtroppo non potrà godersi i frutti della sua semina ma possiamo rassicuralo noi sulla genuinità del risultato finale.
Nella loro prima stagione assieme i giovani T’Wolves hanno dato dimostrazione di possedere un potenziale pressoché illimitato e quello che ancora di più fa impressione è la consapevolezza di non aver neanche grattato la superficie di un iceberg profondo metri. Quella vista nella passata stagione è ancora una squadra acerba, distante dal poter competere.
Infatti oltre al quintultimo peggior record (29-53) Minnesota ha mostrato tutti i limiti della propria gioventù e di una intelaiatura ancora molto disfunzionale, capace di alternare vittorie proibitive (vedi la W sulla Baia contro i Warriors distruttori di record) a settimane di manifesta inferiorità.
Infine la presenza di un coaching staff raffazzonato che aveva come unico compito quello di continuare a strutturare al meglio le fondamenta dei singoli individui non ha permesso di osare di più. Poco importa: la crescita nell’anno da sophomore di LaVine e Wiggins è stata tangibile, ed anche la discontinuità strutturale di Rubio sembra meno limitante. Quello che senza dubbio ha impressionato più di tutti è stato però Towns.
Alla sua prima stagione in NBA ha (stra)vinto il premio come miglior rookie dell’anno, mettendo assieme numeri che non si vedevano da tanto tempo. Quanto? Ovviamente dalla prima stagione di Duncan nella Lega. Il nuovo “Big Thing” del basket mondiale è planato sulla NBA contemporanea come Garnett aveva fatto sulla generazione precedente.
La naturalezza con cui Towns, a 21 anni, è in grado di muoversi all’interno del mondo NBA è impressionante. Che sia parlare davanti ad un microfono o piroettare il area come un ballerino del Bolshoi (dall’alto dei suoi 213 centimetri, un sette-piedi fatto e finito) per lui non fa alcuna differenza.
È in grado di fare qualsiasi cosa su un campo da basket e di farla a livelli altissimi. Il fatto di possedere, già oggi, tutti i requisiti del 5-tools-player come probabilmente nessuno prima di lui lo rende un giocatore completo e maestoso, una sorta di unicorno nato con la missione di dominare la razza umana del mondo cestistico.
La varietà di movimenti offensivi è illimitata: può segnare da dove vuole, quando vuole, come vuole. Possiede già una tranquillità sufficiente per ascoltare il battito della partita e un quoziente intellettivo superiore che gli fa vedere il gioco con i due giri d’anticipo dei grandissimi.
Difensivamente volendo è ancora più impressionante perché ad una verticalità naturale e allo wingspan di un uccello preistorico può abbinare mobilità laterale e capacità di concentrazione: un castigo in pratica. L’aver lavorato un anno con Garnett è una garanzia e l’aver mostrato cose come questa qui sotto è un biglietto da visita al limite della crudeltà umana.
Come presumo avrete intuito chi scrive è un romantico e come tutti i romantici tende a bruciarsi con la fiamma della passione. E la fiamma di Towns inizia a vedersi a miglia di distanza. Dicendo che Towns ha tutto per essere il miglior lungo di sempre si rischia di sbagliare di poco. Probabilmente di non sbagliare affatto.
Nonostante l’alieno-Towns, la guida di coach Mitchell non è stata esattamente illuminante e la società ha saputo operare in fretta e bravura, bruciando i tempi dell’arrivo quasi scontato di Tom Thibodeau. Ovviamente l’arrivo di un coach di questa caratura spinge l’hypermometro ancora più in alto, e parlando appunto di fiamme è così che il fuoco divampa.
La scelta di Thibodeau ha tutta l’aria di essere quella del uomo giusto al posto giusto (nel momento giusto). Difficile pensare ad una scelta migliore ― visto il mercato a disposizione ― se i tuoi obiettivi sono quelli di costruire una cultura sportiva e dare un senso tattico ad una squadra e di plasmarla rendendola un’anima compatta e vincente. Ah, ovviamente Thibodeau è anche quello che ha costruito la difesa monstre dei Celtics campioni 2008 dove Garnett era il faro. I cerchi della vita.
Thibodeau è un icona della difesa e nella sua unica esperienza come head coach, a Chicago, la sua impronta era tangibile e soprattutto molto efficace. Su 394 partite come capo allenatore ne ha vinte 255 (.647 di Win percentage) nonostante le disgrazie fisiche di Rose.
Quei Bulls giocavano una pallacanestro molta solida, magari non spettacolare, ma mettendo in campo ogni sera massima concentrazione e attenzione ai dettagli. I metodi semi-militareschi non sono sempre visti con simpatia ma certamente hanno garantito con efficacia a creare fin da subito una cultura vincente ― cosa di cui Minnesota ha bisogno primario.
Oltre al nuovo coach i T’Wolves rischiano di aver aggiunto anche una nuova stella con la scelta di Kris Dunn al draft di questo maggio. Era il giocatore che Thibodeau voleva e che sembra perfetto per il nuovo scacchiere tattico, anche se inizialmente sarà il back-up di Ricky Rubio e LaVine, le due guardie titolari.
Un Rubio che nonostante gli scetticismi potrebbe trovare nell’ex allenatore dei Bulls il profilo ideale per emergere finalmente anche in NBA. Se guardiamo al domani dei T’Wolves la coppia Dunn-LaVine (che ricordiamo Thibodeau ha voluto tenere a qualsiasi costo, tanto da rinunciare a Jimmy Butler) sembra quella titolare, ma non è così scontato che Rubio venga emarginato.
Soprattutto perché un attacco più camminato e meno improvvisato potrebbero trovargli una dimensione più concreta del giocoliere attuale, facendolo maturare. Anche nella metà campo difensiva Rubio può giocarsi le sue chance, soprattutto se aiutato dai compagni (e da un sistema difensivo efficace). Molto dipenderà comunque da quanto tempo impiegheranno i giocatori ad assimilare gli automatismi necessari.
Come nei Bulls i princìpi cardine della difesa (e quindi del cuore) dei T’Wolves saranno la grande intensità nel forzare le linee di passaggio, il contestare il maggior numero di tiri possibile e di “intrappolare” i pick-and-roll avversari. In quest’ultimo aspetto Minnesota può diventare un macchina mortale. È giusto dire ― in questo caso ― che Rubio rischia di essere un punto debole, ma lo è altrettanto affermare che nessuno può permettersi di ruotare tre atleti come Towns, LaVine e Wiggins nei cambi sui pick-and-roll.
Wiggins soprattutto sembra il prototipo perfetto del giocare Thibodeano. Le otte (non quattro) ruote motrici, il rapporto centimetri-chili (alto per una Small Forward) e l’atletismo belluino gli consentono di poter cambiare sempre, contro chiunque. I numeri per adesso dicono poco o niente sulle sue capacità difensive ma va considerato il contesto; Wiggins sarà presumibilmente il giocatore-barometro dei nuovi T’Wolves, un po’ come lo era Butler nei Bulls.
I margini di miglioramento anche qui come Towns sono infiniti e soltanto la presenza di un alieno come quest’ultimo può oscurare il talento cristallino di una prima scelta assoluta (2014), vincitore tra l’altro anche lui di un Rookie Of the Year. Ma Thibodeau sa bene che il destino del suo progetto è legato a doppio nodo alla definitiva esplosione del fenomeno uscito da Kansas.
Nella metà campo offensiva Wiggins rischia di essere più fondamentale di Towns. Se è vero che fisicamente il giocatore canadese può permettersi di schiacciare in testa a tutti (ma a tutti veramente) è anche vero che nella NBA di oggi questo non è sufficiente.
Nei suoi primi due anni Wiggins ha messo assieme numeri magri da oltre l’arco e più in generale il tiro è un elemento del suo gioco ancora da perfezionare. Difficile pensare che possa un giorno diventare Kyle Korver ma che possa inflazionare quel 30.4% da tre decisamente sì; arrivare attorno ad un 36-37% (comunque non poco, non sono tutti Kawhi Leonard) gli permetterebbe di dominare letteralmente, perché ricordiamolo ancora una volta il ragazzo è capace di cose così.
Parlando di persone che sono in grado di volare, anche da LaVine ci si aspetta molto. Da quei quadricipiti bionici Thibodeau può tirare fuori un giocatore completo e capace di dominare nelle due metà campo; soprattutto in quella offensiva dove potrà esplorare più spesso il giocare da PG ― mascherata o meno ― per togliere pressione a Dunn quando sarà in campo e/o per sfruttare un tiro dall’arco valido e in crescendo (anno scorso nel mese di Marzo ha tirato vicino al 48% da tre, in generale ha chiuso la regular season attorno al 40%) che lo rende un giocatore davvero molto interessante. LaVine è apparso più solido e in crescita come giocatore in generale già dalla seconda parte di stagione scorsa e sembra perfetto come terzo violino.
Il quartetto formato da lui più Wiggins, Towns e Dunn è una combinazione di talento, affinità molecolari, skills fisiche e predisposizione al dominio che rischia di diventare ingiocabile, soprattutto se si considerano i margini di crescita (i primi tre hanno 21 anni, Dunn 22).
Dunn, infine, come detto sembra la ciliegina su una torta già molto buona di per se: ha tiro, istinti per il gioco naturali, grandi capacità fisiche ed esperienza per potersi inserire da subito. Il fatto di aver giocato quattro anni al college lo rende già oggi un giocatore sul quale fare affidamento, e per Thibodeau sarà preziosissimo data la sua capacità istintiva di andare in transizione, risorsa fondamentale in un attacco spesso camminato e giocato prevalentemente a metà campo come quelli dell’ex allenatore dei Chicago Bulls.
Inoltre Minnesota ha anche una panchina lunga, piena di giocatori che potrebbero dare alternative preziose. I vari Jones, Muhammad, Cole Aldrich, Deng (che dovrebbe essere la PF titolare ed è un altro prospetto fisicamente molto intrigante) danno l’opportunità di non asfissiare di minuti i titolari, lasciando comunque completa libertà decisionale al coach visto che nessuno ha un contratto pesante ― altra cosa molto positiva in prospettiva futura per la franchigia.
Un giocatore che potrebbe trovare una dimensione interessante è Bjelica, che dopo una stagione difficile tra infortuni ed ambientamento ha tutte le carte in regola per ritagliarsi un ruolo nei T’Wolves che stanno nascendo. La materia prima è di qualità purissima e non tutti possono permettersi di difendere su LeBron James con questa pulizia tecnica e fisica.
Ancora una volta provate a immaginare a cosa potranno essere in grado di fare quando saranno in grado di muoversi come un corpo unico e avranno raggiunto la consapevolezza necessaria per dominare ad ogni livello. La mano di Thibodeau li plasmerà in un conglomerato spietato, vincente.
Toglietevi dalla mente show stile Suns di D’Antoni o à-la-Golden State, è molto probabile che questi T’Wolves non giocheranno su ritmi forsennati e forse anche poco spettacolari. Ma cosa si intende per spettacolo? Eseguire clinic difensivi di 24 secondi a suon di scivolamenti e movimenti laterali alieni non è da considerarsi uno spettacolo? Poi comunque se veder giocare Towns non è di per se uno spettacolo allora non so davvero cosa possa esserlo.
Ovviamente Minnesota necessita ancora di tempo di crescita. Parlare di playoff in questa stagione è prematuro ed è lecito pensare che non siano neanche l’obiettivo primario di Thibodeau e società. Nella tonnara dell’Ovest le combinazioni da playoff possibili sono incalcolabili, e tra queste sicuramente ci sono anche i T’Wolves, ma Roma non è stata costruita in un giorno. Il talento da sè non basta.
L’esempio perfetto sono i Rockets dell’anno scorso, forse la squadra più disfunzionale della Lega ma che grazie ad Harden e all’esperienza dei propri pirati navigati ha centrato l’ultima piazza disponibile a discapito di una Utah più interessante, giovane e talentuosa.
Ma non raggiungere i playoff di per se non significherebbe niente, soprattutto niente di male, per Minnesota. Al primo anno con Thibodeau i Bulls centrarono miglior record NBA e finale di conference ma ho paura per Minnesota che questo sia uno scenario utopistico.
Quello che invece di utopistico non ha niente è il pensiero di aver scoperto una nuova costellazione di talenti, che con il lavoro e il tempo rischia di schiantarsi sulla nostra realtà con la violenza dei predestinati. Se è vero che quest’estate i Warriors con l’aggiunta di Durant hanno costruito una Morte Nera che sembra invincibile, lo è altrettanto pensare che se la forza scorrerà forte in Towns e compagni c’è materiale a sufficienza per una battaglia di dimensioni epiche.
È noto che da grandi poteri derivano anche grandi responsabilità, e gli occhi di tutti saranno puntati sulla anonima, gelida Minneapolis. Minnesota però sembra avere tutto per ascendere finalmente al regno degli eletti, e riuscirci vorrebbe dire chiudere in maniera definitiva il cerchio che Garnett aveva aperto nel lontano novembre 1995, pochi giorni prima della nascita di Towns. Se continuate a non credere nelle coincidenze, allora anything is possible.
Niccolo’ Scarpelli nasce a Firenze (1990) ma appartiene al Deserto del Sonora. Da piccolo soffrivo di insonnia, tipo Al Pacino. Poi ho scoperto gli sport americani e sono peggiorato, proprio come Al Pacino.
Speriamo!!! Let’s Go Wolves!!!