21 anni dopo lo sbarco in NBA di Kevin Garnett, una pertica umana che si stabiliva in Minnesota dal South Carolina passando per Chicago, l’NBA ha appena cominciato a capire che tipo di giocatore fosse.
Alcuni uomini nascono postumi, scriveva Nietzsche. Più che a un uomo, KG somiglia a un androide venuto dal futuro per cimentarsi in un gioco di cui ha già visionato gli sviluppi.
Eppure non è un semplice prototipo; mentre coach e analisti si lambiccano il cervello per capire come definirlo e quale ruolo assegnargli in campo, lui già realizza il pieno compimento dell’archetipo che incarna.
Era l’anello di congiunzione tra due step evolutivi non ancora comparsi. Era il centro moderno, solo che nessuno lo sapeva.
Carente in massa – ma non in forza -, compensa con la capacità di difendere sia il ferro che il perimetro, vi unisce una comprensione squisita del gioco e mani educate.
Fin qui sembra di leggere una descrizione del collega Tim Duncan, ma quel che fa saltare il banco è l’atletismo esagerato di Kevin.
Dal suo stampo la fucina ha sfornato Anthony Davis e Karl Anthony Towns ma a entrambi manca qualcosa. Per non parlare di gente come Rudy Gobert e DeAndre Jordan, tra i centri più desiderati della nuova generazione, ma del tutto sprovvisti di un arsenale offensivo degno di questo nome.
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Ora che ha deciso di chiudere i conti con la pallacanestro professionistica, la sensazione è che non ci abbia lasciato abbastanza tempo per capirlo e, soprattutto, per imitarlo.
Sono passate ventuno primavere ma la parabola sportiva e umana di Kevin Garnett ci ha travolti in un lampo. Nel mezzo ci sono state 1462 partite, 26071 punti, 14662 rimbalzi, 5445 assist e altre statistiche che lo collocano nei primi dieci all-time della lega; eppure lo conoscevamo appena.
“BUILT LIKE THIS”
Quando debutta nella lega con la maglia dei Minnesota Timberwolves, Kevin Garnett è il giocatore più giovane nella storia nonché il primo a saltare direttamente dall’high school ai professionisti dal 1975.
La sua stagione non parte col botto ma Flip Saunders, appena subentrato in panchina, ne intuisce la potenzialità e lo promuove in quintetto.
Il ragazzo ha una tecnica di tutto rispetto, un raro talento per la difesa e un’energia inesauribile; con quel fisico dinoccolato, però, come schierarlo in campo?
È alto sette piedi e forse più – anche se lui si impunterà su sei piedi e undici pollici – ma pesa quanto un fuscello. Sono gli anni dei centri statici, mastodonti che imbastiscono partite a scacchi nel pitturato, e la domanda che tutti si pongono è: come fa Garnett a marcare Shaq?
Manca ancora del tempo perché l’inerzia si inverta e ci si inizi a chiedere l’opposto, come oggi. Come fa Shaq a marcare Garnett? La risposta sarebbe stata illuminante.
Alla fine della fiera, Kevin si ritrova a giocare da 3 con Tom Gugliotta a sobbarcarsi il carico offensivo e una rassegna di pivot che si susseguono sotto le plance.
Nella galleria degli orrori come dimenticare i nomi di Michael Olowokandi, Cherokee Parks, Mark Blount, Stojko Vrankovic, Ervin “Tragic” Johnson. In mezzo a questi Rasho Nesterovic sembra un signore.
Di riffa o di raffa i Timberwolves iniziano a vincere. Nel frattempo a Minnesota gioca anche Stephon Marbury, ma al Target Center lo show è tutto di Kevin Garnett.
È lui che riempie il palazzetto. The Big Ticket, prende a chiamarlo il cronista Trent Tucker. Insieme ai successi arrivano i soldi. Il giorno in cui l’agente lo chiama per ufficializzare la firma del contratto che cambierà la storia dell’NBA, lui non risponde al telefono.
Sta ascoltando la demo del nuovo cd di Janet Jackson, vietato disturbare. Con qualche minuto in più di attesa sul suo conto finiscono 126 milioni di dollari; più che abbastanza da motivare il lockout della stagione successiva.
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Quando infine la dirigenza lo accontenta e chiama i rinforzi, nella figura di Sam Cassell e Latrell Sprewell, i Timberwolves siglano il miglior record della stagione 2004 e si arrendono solo in finale di conference ai Lakers versione Malone+Payton.
La squadra collassa. Garnett non prende bene le sconfitte. In una famosa intervista del 2005, concessa a John Thompson di TNT, si sfoga trattenendo a fatica le lacrime, prega gli osservatori di non scambiare le sue emozioni per debolezza. “I’m built like this”, dice.
“ANYTHING IS POSSIBLE”
I Big Three dei Boston Celtics sono un esperimento concepito in laboratorio ma che sul campo si arricchisce di una componente umana imprevedibile.
È l’elemento che trasforma un progetto ambizioso in una realtà vincente, dal giorno alla notte. È la leadership di Garnett, evidente fin dal primo giorno di training camp.
S’impone senza sforzi sul carisma di un coach esigente come Doc Rivers, sulle bizze dell’incontrollabile Rondo, sulle rughe da veterano di Ray Allen. Si unisce in una simbiosi pressoché perfetta con l’influenza di Paul Pierce, padrone della squadra.
Sul parquet potrebbe giocare da centro, le spalle si sono irrobustite parecchio dagli anni degli esordi, ma i tempi non sono ancora maturi. Doc Rivers lo affianca a Kendrick Perkins mentre dall’altra parte d’America Phil Jackson sperimenta quintetti piccoli alternando Bynum e Gasol col versatile Lamar Odom.
Garnett guida con l’esempio, ma a chi osserva non piace. La reputazione di villain contro cui odi giocare non è cosa nuova, ma in questo periodo la sua impopolarità sale alle stelle. Lo tacciano di essersi svenduto per inseguire un anello, lo vedono come un prepotente che vessa i compagni di squadra (vero, Glen “Big Baby” Davis?) e assilla gli avversari.
Ci si dimentica del suo trash talking buono, quello che dà pepe alla lega e che oggi tanti rimpiangono, e ci si ricorda quello cattivo, quando travalica le regole e se la prende coi più piccoli. Non scambiate le mie emozioni per debolezza, chiedeva in un appello accorato. È proprio quello che fanno i più; i suoi eccessi in campo, sotto la lente d’ingrandimento, diventano indizi di un carattere instabile.
Nessuno di noi conosce l’uomo Kevin Garnett; persino quelli che per lavoro vi hanno avuto a che fare per anni brancolano nel buio, figurarsi se possiamo giudicarne le controversie.
Quel che è certo è che in pochi mesi KG costruisce un’intera cultura dal nulla. A Boston la amano, perché è quella a cui sono abituati; si fonda su lavoro, sacrificio e vittoria. Ubuntu: prima di essere un sistema operativo era l’idea di umanità, e il legame che la unisce, il lingua zulu.
Il titolo 2008 è l’apice di una carriera straordinaria e l’occasione per un’altra immagine da copertina. “Anything is possible”, urla a pieni polmoni, intervistato a caldo; con una sola frase fa alzare il sopracciglio alla Adidas – suo sponsor, quella di “Impossible is nothing” – e si accattiva le simpatie dell’azienda sportiva cinese Li-Ning, che al tempo cavalcava lo stesso motto.
Qualche anno dopo saranno altri cinesi, quelli di ANTA, a fornirgli l’attrezzatura, mentre sempre a quelle latitudini celebrano il suo ritiro dedicandogli una stella. “Leader of the pack”, così lo chiamano in estremo oriente; il capobranco.
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L’infortunio al ginocchio del 2009, in quella maledetta serata a Salt Lake City, è uno dei più grandi what if della recente storia NBA. Priva i Celtics di un’onesta rivincita coi Lakers, che in quel giugno si contenderanno il successo con gli imberbi Magic. La resa dei conti arriva l’anno successivo, nel climax di gara 7 la spuntano i gialloviola sulle spalle di Gasol e Odom. La pallacanestro stava, in parte, cambiando. Le gambe di Kevin Garnett però non erano più le stesse.
L’UOMO PIÙ ONESTO DEL MONDO
Quando dici Kevin Garnett, dici trash talking. Dici agonismo esuberante che si traduce in atteggiamenti istrionici, metodici, persino ossessivi sul campo.
La spazzata del ferro dopo il fischio dell’arbitro, suo marchio di fabbrica che oggi tutti gli imitano, per negare all’avversario la soddisfazione di vedere la palla entrare nel canestro.
Per lui ogni partita era una guerra, e non si tratta di banale retorica; una volta ebbe l’accortezza di spiegare come si preparava alla suddetta battaglia con una metafora militare ricca di dettagli sull’armamentario.
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In molti si sono chiesti dove finisce l’uomo e dove inizia il personaggio, quella sorta di bullo dei sobborghi imbevuto di superomismo.
La verità, ci è dato di credere, è che il mondo di Kevin Garnett funziona solo se inscritto in regole ferree. Lui le rispetta, e qui nasce il suo successo, ma non accetta che gli altri se ne affranchino.
Come ogni uomo che coltiva un’ossessione, quella della vittoria, ha bisogno di certezze per non perdere la bussola. Si rifugia nella routine. Il tiro non deve entrare nel canestro. La sua altezza deve essere di sei piedi e undici, non un pollice di più.
Il cibo del buffet post-partita è riservato ai giocatori, qualsiasi estraneo sarà allontanato con la forza. Se i completi di Craig Sager offendono il suo senso del gusto, lui si sente obbligato a farlo presente.
Se non lo tratti come dice lui, verrai preso a male parole anche se ti chiami Joakim Noah o Andrea Bargnani e sei un suo fan fin da bambino.
Di aneddoti come questo ce ne sono a decine. Una volta, racconta Tyronn Lue, prese a testate il muro di casa colto dalla rabbia per un programma tv. A chi taccia Garnett di ipocrisia, risponderei che per un uomo privo di filtri si tratterebbe del crimine perfetto. È soltanto che delle sue regole, a noi comuni osservatori, sfugge la logica.
L’ETERNO RITORNO
Nella trade che ha fatto le fortune presenti e future dei Boston Celtics KG finisce a Brooklyn insieme a Paul Pierce. Mikhail Prokhorov vuole vincere subito, ma non ha ben capito come organizzare la faccenda e la squadra boccheggia.
Garnett non si risparmia, anzi ci tiene a far abbassare la cresta ai nuovi galli del pollaio, come quando si prende a colpi di becco con Dwight Howard. Brook Lopez è l’ennesimo, immobile compagno di frontcourt della sua carriera, e a trent’anni suonati nemmeno lui è più un fulmine di guerra.
Poi un imprevisto salva la stagione dei Nets. Lopez s’infortuna e Jason Kidd, al primo anno da allenatore e già in odore di golpe, ha l’intuizione che nessuno dei suoi predecessori ha mai voluto concretizzare: spostare Garnett da 5 e affiancargli ali fisiche come Pierce e Kirilenko in uno small ball da manuale.
Brooklyn gioca bene e guadagna i playoff prima di arrendersi ai Miami Heat. Siamo nella pallacanestro degli anni ’10 del nuovo millennio: ah, ecco, forse era a questo che serviva The Big Ticket.
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Il cerchio non poteva che chiudersi a Minnesota con due annate che sono poco più di una passerella. Non che KG abbia tirato i remi in barca, è geneticamente incapace di farlo; stiamo parlando di uno che a colazione beve caffè e Gatorade, dopotutto.
Il coach però gli riduce il minutaggio e ne monitora gli acciacchi. Assiste alla dipartita del suo mentore degli esordi, Flip Saunders. Nell’eterno ritorno dell’uguale fa da chioccia alla next big thing tra i lunghi NBA, l’animale che forse più gli assomiglia: Karl Anthony Towns.
Assistere allo sviluppo di un gruppo così giovane, ha detto in un’altra delle sue metafore colorite, è come mettere un mucchio di cuccioli in una scatola, agitarla e guardarli darsi da fare. Forse continuerà a supervisionare la lotta per la sopravvivenza dei cuccioli che si lascia alle spalle, da dietro le quinte.
Di sicuro, se hai rispettato le sue regole e non gli hai mancato di rispetto, ti proteggerà e ti consiglierà a vita. È l’unico linguaggio che conosce. Se non è uno stupido, Karl Anthony Towns ha imparato a parlarlo.
Scrittore e giornalista in erba – nel senso che la mia carriera è fumosa -, seguo la NBA dall’ultimo All Star Game di Michael Jordan. Ci ho messo lo stesso tempo a imparare metà delle regole del football.