Il Rucker Park playground, tra la 155esima West e 8th Avenue, prende il nome da Holcombe Rucker, direttore del dipartimento Parks & Recreation dell’area nord di Manhattan negli anni sessanta, insegnante di educazione fisica, e poi, ottenuta la laurea al City College di NY, anche docente di inglese alla Junior High School 139, ovviamente a Harlem, cuore nero della Grande Mela, dov’era nato nel 1926, e dove tornò, dopo aver servito nell’esercito nel corso della Seconda Guerra Mondiale.
Rucker morì giovane a causa di un tumore. Aveva solo 38 anni, ma ha lasciato un’eredità che prosegue tutt’ora, sia perché il torneo a lui intitolato continua a disputarsi (però, spiace dirlo, ha perso gran parte dello spirito originario, nonostante l’impegno del nipote, Chris Rucker) sia perché contribuì, con il suo impegno nella comunità, a far ottenere ben 700 borse di studio per meriti sportivi, a ragazzi e ragazze che in questo modo si sono potuti costruire un’educazione, e quindi, un futuro lontano dai projects.
Il Rucker si è rapidamente imposto come il migliore tra i playground dell’area newyorkese, quello con più tradizione, storia, e fascino, lasciando al palo la concorrenza di DeWitt Clinton Park, West Fourth Street, Red Hook, Ozone Park (Queens), Tillary Park (Brooklyn), e tanti altri campi dei “Five Boroughs”.
Dal Rucker sono transitati Lew Alcindor, Connie Hawkins, Nate Archibald, Wilt Chamberlain, Julius Erving e Earl Monroe, che si mescolavano a sportivi della domenica e a leggende locali, come Herman Knowlings (soprannominato “elicottero”), Pee Wee Kirkland, o Joe Hammond.
Il nome del Rucker però, è legato soprattutto ad un giocatore, Earl Manigault, detto “The Goat”.
Su di lui, si sa poco, sin dall’origine del soprannome. C’è chi la attribuisce all’andatura un po’ ingobbita (goat in inglese significa “capra”), chi all’assonanza con il suo cognome, chi ancora ci ha voluto leggere l’acronimo per “Greatest of All Times”, un titolo che gli è stato tributato dalle strade, ma che è stato riconosciuto anche da Alcindor (nel frattempo diventato il 6 volte campione NBA Kareem Abdul-Jabbar) al momento di ritirarsi.
Per Jabbar, Manigault è stato “il miglior giocatore della sua taglia nella storia di New York City e l’avversario più duro contro il quale abbia giocato”. Kareem lo ha anche definito “non un grande passatore”, ma di questo, ovviamente, nessuno si ricorda, preferendo la narrativa tragica del supremo contrasto tra il talento cristallino e la fine ingloriosa.
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Kareem, classe 1947, ed Earl (1945), si conoscevano fin da ragazzini, quand’erano le due giovani promesse di Harlem. Manigault però non era nato a Manhattan.
Nono di nove figli, venne al mondo a Charleston, South Carolina. I genitori erano poveri, e non sapevano proprio che farsene dell’ennesimo pargolo, così Earl diventò il figlio adottivo di Mary Manigault. Per guadagnare un pochino di più, la signora Manigault traslocò a Harlem, trovando occupazione prima in una lavanderia e poi in un hotel dell’Upper West Side, ma lavorava da mane a sera, e restava sempre poco tempo per badare al piccolo Earl.
Manigault era un bambino nero del South Carolina (e quindi, doppiamente outsider), disorientato dalla nuova realtà metropolitana. Era taciturno e non aveva amici, ma in compenso sapeva farsi valere sul campo da basket, diventando rapidamente “un nome” conosciuto e rispettato, attorno al quale fiorirono colorite leggende.
Qualcuno racconta che con i suoi salti riuscisse a recuperare le monete appositamente lasciate sul bordo superiore del tabellone (lui stesso ha smentito categoricamente), altri ripetono che a 13 anni fosse capace di schiacciare due palloni in fila, uno per mano, o ancora, che riuscisse a schiacciare e poi sedersi sul ferro.
Sono racconti che passando di bocca in bocca s’ingigantiscono, fino a sfociare nel mito, quello spazio narrativo in cui realtà e fantasia si mescolano, per essere consegnati ai posteri aggrovigliati in un affascinante rompicapo. Quel che è sicuro, è che Manigault misurasse 6’1’’ (come Rajon Rondo o Mo Williams) e che fosse un saltatore pazzesco, ma ci sentiamo di dubitare dello zompo con il quale avrebbe scavalcato un avversario che tentava di prendere sfondamento all’altezza della linea del tiro libero!
Earl era uno splendido solista, un attaccante dinamico e avanti rispetto ai tempi, divertente e abile col palleggio in entrata e nel tiro dalla media distanza. Giocava un basket da ala, pur non avendone i centimetri, un po’ come fa Dwyane Wade, che dà l’impressione di essere più alto del suo metro e 93.
Un’altra cosa sicura, erano i segni sulle sue braccia, inequivocabili tracce di un passato da tossico del quale Earl non si è mai veramente sbarazzato.
Con amarezza diceva “Sono un uomo ricco, dai un’occhiata alle mie braccia, tutti i miei soldi scorrono nelle mie vene”, consapevole di aver sperperato il proprio talento. Ad ogni bivio postogli dinanzi dalla vita, Manigault ha preso puntualmente la direzione sbagliata, un po’ il contrario di quanto accadeva in campo, dove l’istinto lo aiutava, e The Goat trovava sempre l’acrobazia giusta per finire a canestro.
“Per ogni Michael Jordan, c’è un Earl Manigault” disse lui stesso, “Non possiamo farcela tutti. Qualcuno deve fallire, e quel qualcuno ero io”.
Frequentò la Franklin High School, con la quale furoreggiò nel competitivo campionato cittadino, ma durante l’anno da senior venne espulso per aver fumato marijuana nello spogliatoio della squadra. È una storia che lui ha sempre smentito, ma allora perché la scuola,che aveva tollerato per anni le sue assenze ingiustificate, l’allontanò prima della sfida per il titolo statale contro Power Memorial High di Lew Alcindor?
Tornò a sud, in North Carolina, al Laurinburg Institute. Era la grande occasione per far pulizia nella sua vita e ripartire da zero, lontano dalle tentazioni e dalle cattive amicizie di Harlem. Riuscì a diplomarsi, arrivando penultimo nella sua classe, e fu reclutato con entusiasmo da tanti college importanti, come Duke, North Carolina, Indiana; chi non avrebbe voluto aggiungere al quintetto una guardia capace di stoppare anche Wilt Chamberlain?
Sembrava che il peggio fosse ormai alle spalle, e invece la storia era destinata a ripetersi inesorabilmente. Earl temeva di non riuscire a tenere il passo con la didattica di un grande college, e così si accontentò di frequentare Johnson C. Smith University, una piccola istituzione a netta prevalenza nera, sempre in North Carolina.
Pensava che i “fratelli” l’avrebbero protetto e aiutato, e invece accadde l’esatto contrario. Complici i pessimi risultati scolastici e i cattivi rapporti con l’allenatore, la carriera collegiale di Manigault finì col durare meno di un anno.
Avrebbe potuto provare a ricominciare da un’altra parte, oppure a farsi notare in una lega minore, ma Earl non vedeva queste opzioni. Decise una volta per tutte di aver fallito, e cercò consolazione nell’eroina, che all’epoca imperversava nelle strade di Harlem, e poi giù-giù per Manhattan, fino a Times Square, all’epoca un covo di papponi, cinema a luci rosse e tossici seduti sui sudici marciapiedi, in una New York diversissima da quella odierna, e raccontata da “Il Panico a Needle Park”, con un indimenticabile e giovanissimo Al Pacino.
Manigault si trasformò in un ladruncolo (rubava pellicce d’ermellino per pagarsi il vizio, che ormai gli costava l’irragionevole cifra di 100 dollari al giorno), finché i boss locali, che lo avevano coccolato quando era The Goat, decisero di fornirgli l’eroina gratis. Nonostante tutto, Earl era ancora “l’uomo che può girare per Harlem senza un penny in tasca, e avere tutto quel che vuole”.
Nel frattempo però il fisico di Manigault veniva divorato dall’eroina; le sue ultime apparizioni da giocatore al campetto lo videro protagonista di episodi imbarazzanti, che a nessuno piace ricordare: cadeva per terra da solo, non riusciva più a staccarsi dal suolo di un singolo centimetro, lui che un tempo planava come e forse più di Julius Erving (da queste parti, noto come The Claw, l’artiglio). Era il 1965, l’anno in cui morì Holcombe Rucker, l’uomo che a lungo aveva provato a vegliare (come poteva) sul giovane Earl.
Quattro anni più tardi, Manigault sarebbe stato arrestato per la prima volta, e avrebbe trascorso 16 mesi in cella a Stormville, mentre l’amico d’infanzia, Kareem, esordiva in NBA con la maglia dei Milwaukee Bucks, dopo aver vinto tre volte il torneo NCAA con la maglia dei Bruins di UCLA.
Nel frattempo Bill Daniels, il proprietario degli Utah Stars (della defunta ABA) stava leggendo il nuovo libro di Pete Axthelm, “The City Game”, che dedicava a Manigault un intero capitolo. Decise così di offrirgli un provino per gli Stars, ma, racconta Willie Mangham, il suo compagno a Franklin High che lo accompagnò in aeroporto “Era troppo tardi per lui, il suo corpo era provato, non riusciva più a reggere il ritmo del gioco”.
Giunto nello Utah, Earl non superò il tryout, e tornò mestamente a New York, senza più sogni o illusioni, con l’eroina come unica compagna di vita. Nel frattempo riuscì a convincere i boss della droga a finanziare il Goat Tournament, che si teneva al “suo” campetto tra la 98esima e Amsterdam, tentando, nell’impossibilità di redimersi, di trasformarsi in un monito per le nuove generazioni. Andò avanti fino a un giorno dell’estate 1977.
Pioveva, e il torneo era stato sospeso, così Earl e alcuni suoi conoscenti presero una macchina e si diressero nel Bronx. Volevano fare una rapina (“una rapina da sei milioni”, disse Earl) ma furono presi immediatamente, e Manigault si ritrovò con una nuova condanna a due anni di reclusione.
Quando uscì, prese con sé la moglie Yvonne i due figli minori, Earl jr. e Darrin (ne aveva sette in totale, avuti da varie donne), e tornò a Charleston, iniziando a fare lavoretti da poco, certo, ma onesti: tagliava prati, verniciava staccionate o case, tirando a malapena avanti.
Ritornò a vivere a New York negli anni ottanta, per ridare lustro al proprio torneo, divenuto “Walk Away From Drugs Tournament”, e per essere operato al cuore, due volte in pochi anni. In seguito diverrà chiaro che a Earl serviva un trapianto, ma la legislazione USA prevede che la lista dei trapianti veda in testa i bambini e le persone senza problemi di dipendenze, e in coda ex tossici e alcolisti, e così Manigault aspetta, senza rancori, perché sa benissimo che questa norma è calvinista, ma in fondo, giusta.
Che senso avrebbe infatti dare un cuore nuovo a lui, che ha bruciato ogni opportunità offertagli dalla vita, anziché a un bambino che inizia appena ad affacciarsi alla propria, o magari proprio a uno di quei ragazzini che cerca di aiutare con il torneo di basket che porta il suo nome?
Aspetta così a lungo da convincersi di non aver bisogno di un trapianto. Fuma, non riesce a giocare a basket per più di una manciata di minuti, ma il suo torneo è popolare, e Earl, per la prima volta nella propria vita, sta riuscendo in qualcosa.
Nel 1996, HBO gli dedica addirittura un film, “Rebound”, una agiografia (di qualità) dagli intenti costruttivi girata per il piccolo schermo, con protagonista Don Cheadle, e, nel cast, il premio Oscar Forest Whitaker.
Appena due anni più tardi, il 15 marzo del 1998, dopo 14 giorni di ricovero al Bellevue Hospital, il cuore di Manigault smise di battere. Aveva 53 anni.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.