Con il senno di poi, è stata una tipica mossa da Kevin Durant. Silenziosamente, senza estenuanti ammiccamenti verso una franchigia oppure l’altra, KD35 ha preso tutti di sorpresa con una scelta largamente pronosticata, eppure improbabile: accasarsi alla corte di Steve Kerr e Stephen Curry, salutando la città e l’organizzazione che per quasi un decennio ha chiamato casa.
A ben vedere non si tratta di un fulmine a ciel sereno, perché già in primavera l’ipotesi era stata ventilata, ma KD aveva fatto sgonfiare ogni supposizione, opponendo un muro di gomma alle domande dei cronisti; più recentemente, commentando lo scambio Ibaka-Oladipo Durant aveva parlato di “noi”, e anche questo aveva fatto ben sperare Sam Presti e Clay Bennett, attentissimi nel leggere tra le righe di ogni dichiarazione della loro superstar.
Durant però, aveva altro per la testa; chissà, forse a convincerlo è stata l’idea assai seducente di giocare assieme agli altri due grandi tiratori di questa generazione, in un ambiente tecnico ideale per le sue caratteristiche, lui che non è mai stato un vero e proprio alpha-dog, ma in compenso tira divinamente e sa fare tutto, ma proprio tutto, quel che c’è da fare su un campo da basket.
Forse ha prevalso la voglia di misurarsi con una nuova sfida, oppure, al contrario, il desiderio di provare una strada (appartentemente) in discesa, saltando sul carro della squadra che lo ha appena eliminato, rimontando da 3-1, e infrangendo ancora una volta i sogni di gloria di Oklahoma City.
La scelta di KD è destinata a dividere persino più di quanto avvenne ai tempi di The Decision, nel 2010, quando King James annunciò che avrebbe “portato i suoi talenti” a South Beach, unendo le forze con Dwyane Wade e Chris Bosh. In fondo, LeBron James lasciò Cleveland in favore degli Heat per costituire una squadra nuova; talentuosissima, certo, ma inedita.
Durant invece si accasa ai Warriors, che nelle ultime due stagioni hanno, nell’ordine: vinto il titolo NBA, messo a referto la miglior regular season di tutti i tempi, e perso una Finale a Gara 7. Possiamo tranquillamente sostenere che unirsi a loro non è stato propriamente un salto nel buio, mettiamola così.
Lo ha detto anche Draymond Green, parlando dell’incontro tenuto tra i giocatori più rappresentativi di G-State e Durant, quando KD ha chiesto se il suo arrivo avrebbe potuto danneggiare la chimica di squadra: “gli abbiamo chiesto quanti titoli pensa che potremmo vincere, restando come siamo ora? Quanti pensa di poterne vincere senza di noi? E quanti pensa che potremmo vincerne assieme?“. Insomma, è una questione di strenght by numbers, pura e semplice.
Ci è capitato di vedere degli ex-MVP accasarsi in squadre molto forti (citiamo Bob McAdoo e Bill Walton, oppure Karl Malone), ma si trattava di stelle al crepuscolo, intenzionate ad accettare un ruolo minore pur di continuare a battersi al massimo livello possibile; KD, al contrario, ha solo 27 anni, ed è all’apice del proprio fulgore cestistico.
KD non farà lo specialista, ma è importante notare come sia stata l’insistenza dei Warriors su di una cultura non basata sullo star-power a conquistarlo. Curry è arrivato al punto da mandargli un messaggio, dopo l’incontro, per ribadire che a lui non importa chi farà l’uomo-franchigia, chi venderà più scarpe, e che se Durant sarà nominato MVP, lui sarà in prima fila ad applaudire. Conta solo ed esclusivamente vincere.
Nella sua lettera aperta pubblicata su The Players’ Tribune, Kevin Durant parla di crescita professionale e umana, riferendosi proprio a questi aspetti di gioco e di vita all’interno di un gruppo, e chiudendo poi con una dedica a OKC che suona inevitabilmente un po’ meno accorata di quella che accompagnò la conquista dell’MVP 2014, recitata col cuore in gola.
“Mi mancherà Oklahoma City e il ruolo che ho avuto nel costruire questa squadra straordinaria. Il rapporto con l’organizzatione, gli amici e i compagni con i quali sono andato in guerra (sic) per nove anni sul campo da basket, e tutti i fans e le persone della comunità avranno sempre un posto nel mio cuore. Mi hanno sempre coperto le spalle incondizionatamente e non potrei essere più grato per quanto hanno significato per la mia famiglia e per me”.
Insomma, “grazie e arrivederci, penso di aver trovato un posto migliore dove stare”. Tutto lecito e legittimo, per carità, ma siamo cresciuti pensando che un campione sia tale non solo per i gesti tecnici che sa compiere, ma anche per come perde e per come vince; la scelta di KD ci ha sinceramente stupiti, perché pensavamo volesse arrivare in vetta, ma in un altro modo.
Nel trambusto generale, è passato in secondo piano il contesto nel quale questa firma si colloca; Durant sbarcherà sulla Baia di San Francisco, ma non sarà semplicemente l’upgrade di Harrison Barnes. Per averlo, Jerry West e Bob Meyers si sono privati anche di Andrew Bogut (spedito ai Mavs in cambio di spazio salariale) e rinunceranno alla qualifying offer per Festus Ezeli, rendendolo un free agent di tipo “unrestricted”, autorizzato, cioè, ad accasarsi dove gli pare.
Cedere Bogut era diventata per i Dubs una dolorosa necessità, e Dallas era nella posizione di assorbire l’intero contratto del centro australiano, liberando lo spazio utile a firmare Durant (posto che tutti questi movimenti saranno ufficializzati solo dal 7 luglio, quando finirà la moratoria NBA). Questo significa che i Warriors del 2016-17 saranno una formazione per forza di cose nuova, che dovrà rimpolparsi sotto canestro (basterà il neo-arrivato Zaza Pachulia e il rookie Damian Jones, o tornerà addirittura Jermaine O’Neal, ritiratosi due anni fa?).
Naturalmente però, il piatto forte della stagione di Golden State sarà la possibilità di affiancare Kevin Durant agli Splash Brothers, in un terzetto offensivo che ha davvero pochi eguali nella storia del gioco, e un quintetto small da far tremare i polsi, con Curry-Thompson-Durant-Iguodala-Green, e tanti auguri a chi li dovrà marcare.
Durant è un “fit” ideale per i Warriors, perché, proprio come Steph e Klay, anche lui combina doti balistiche irreali alla capacità di mettere palla per terra e pescare i compagni dopo aver mosso la difesa. Avere tre giocatori capaci di esprimersi a questo livello di sintassi cestistica sullo stesso parquet, è sinonimo di spettacolo assicurato, e grossi guai per gli avversari.
Per di più, la contemporanea presenza di Curry e Durant consentirà a entrambi di dosarsi nel corso della regular season, e giocoforza consentirà a tutti i Warriors di giocare con meno pressione e più opzioni sul tavolo (ad esempio, tanto per gradire, un pick-and-roll Curry-Durant), senza contare che, fin qui, abbiamo sempre visto KD in un attacco a base di ISO; quanto può migliorare, in una squadra impostata sulla circolazione di palla?
Nel corso degli ultimi Playoffs il buon Harrison Barnes si era trasformato nell’anello debole della catena di Golden State. Troppo leggero per difendere su LeBron, troppo discontinuo al tiro per non finire sistematicamente battezzato (ha tirato con il 38.5% dal campo), il classe ’92 si è accasato alla corte di Cuban e Rick Carlisle, disposti a pagarlo 95 milioni in 4 anni: uno sproposito per un buonissimo giocatore, che però non sposta granché.
Durant è un po’ più costoso (54 milioni in 2 anni) ma è un cestista infintamente migliore in attacco e in difesa, area nella quale il suo lavoro viene spesso sottovalutato. A dispetto del fisico longilineo, KD ha contribuito alla tremenda fisicità di OKC, e potrà svilupparsi ulteriormente lavorando con una vecchia volpe come Ron Adams, che già pregusta le infinite possibilità offerte dalle lunghe leve del nativo di Washington.
Chissà, se i Warriors avessero vinto le Finals (vale a dire, se Kyrie Irving non avesse segnato quel pazzesco tiro da tre), l’ipotesi di smontare il giocattolo sarebbe stata meno percorribile o consigliabile. A conquistare il titolo però è stata Cleveland, e il front office di G-State ha scelto un approccio molto aggressivo ai problemi palesatisi nel corso della post season; hanno puntando forte su Durant, che era sembrato molto interessato anche alla proposta dei Boston Celtics di Brad Stevens, accettando la possibilità assai concreta di perdere Barnes.
Pare che a far pendere definitivamente l’ago della bilancia in favore di Golden State, sia stata la telefonata di Jerry West, determinatissimo a portare KD alla Oracle Arena. La scommessa ha pagato, e ora i Warriors sono decisamente legati allo small ball, tanto da aver perso un bel po’ di quella flessibilità che gli consentiva di mutare assetto a seconda dell’avversario e della partita.
Può non esserci piaciuto molto il modo in cui questa situazione si è creata, ma i Warriors hanno giocato benissimo le proprie carte, dimostrando ancora una volta d’appartenere alla ristretta cerchia delle franchigie NBA con un piano in testa e la capacità di tradurlo in realtà.
Dal canto loro Sam Presti e Clay Bennett pagano anni di titubanza con Scott Brooks (oltre alla scelta di sacrificare James Harden sull’altare del salary cap), che ha ritardato per anni la svolta portata avanti nel giro di qualche mese da Billy Donovan. Con l’ex coach di Florida, i Thunder sono diventati una vera formazione d’élite; le mosse di giugno incoraggiavano ulteriore ottimismo, perché Ilyasova, Oladipo (e in fondo anche Sabonis) sono tutte splendide scelte, e se Durant fosse rimasto, OKC sarebbe stata una delle favorite d’obbligo per il Larry O’Brien Trophy.
Presti ha abbozzato una reazione elegante all’addio di KD, ringraziandolo e indicandolo come “padre fondatore” della franchigia, ma è chiaro che il colpo alle ambizioni dei Thunder è grave. Rimane Russell Westbrook (fino a quando?) e l’intrigante backcourt con Victor Oladipo, ma senza il 35 si apre una voragine in ala piccola (dubitiamo che Ilyasova possa essere la risposta, e Kyle Singler è semplicemente improponibile).
Due anni fa OKC sfiorò i Playoffs giocando praticamente sempre senza Durant, mentre quest’anno le prospettive sono certamente migliori: Enes Kanter, Steven Adams e Ilyasova costituiscono una buona rotazione in frontline, Oladipo e Westbrook si sposano bene nel backcourt, ma è chiaro che non si può più parlare di formazione da titolo NBA, e non dimentichiamo che tra 12 mesi Russ diventerà free agent, mentre il salary cap schizzerà ancora più in alto (a circa 108 milioni), invogliando tante squadre a fare follie.
A queste condizioni, potrebbe essere sensato scambiare subito Westbrook e provare a ripartire dal draft, ma è chiaramente una scelta difficilissima per una piazza piccola, che si era abituata a ben altre prospettive. Se i Thunder rimarranno questi, potranno provare a replicare le 45 vittorie del 2015, ma è chiaro che il sogno del titolo NBA andrà, almeno per il momento, riposto in un cassetto. A meno che Donovan sia veramente molto, molto bravo…
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.