Stephen Curry, finta-palleggio ― fly-bye di Frye ― arresto-tiro, e splash: 96-86 e gara-4 in ghiaccio. Golden State è avanti 3-1 nella serie, è arrivata alle Finals rimontando da sotto 1-3 contro i Thunder di Westbrook & Durant, ha in squadra il bi-MVP (Stephen Curry), è allenata dall’allenatore dell’anno (Steve Kerr), ha vinto 73 partite in regular season ― SETTE-TRE ― e gioca una pallacanestro di stampo illuminista che soffia sulla società sportiva moderna coi tratti tipici della rivoluzione culturale.
Due possessi più tardi Draymond Green e LeBron James si allacciano: il primo cade a terra dopo le reciproche trattenute, l’altro gli passa sopra stile-Iverson-sul-suo-Head-Coach (Life is a flat circle). Green lo colpisce furbescamente, impercettibilmente: gli arbitri non se ne accorgono, ma dalla lite che ne segue la NBA decide di indagare e vederci meglio. Risultato: flagrant foul e sospensione per una partita.
Green torna regolarmente in campo in gara-6, dopo la vittoria sulla Baia dei Cavs e le solite teorie cospiratrici, ma si ha la sensazione che qualcosa nei Warriors si sia rotto. Qualcosa d’impercettibile, quasi come il colpo-di-Green a LeBron nella concitazione della diretta. L’inerzia si sposta piano piano ad est del Mississipi e lì rimarrà fino al termine della serie, regalando all’Ohio un titolo sportivo che mancava da oltre cinquant’anni e chiudendo il cerchio del figliol prodigo James consegnandolo all’imperitura gloria.
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Nessuno aveva mai vinto un titolo rimontando da sotto 1-3 (0-32 il record prima di The Block) e le cause della disfatta dei Warriors andrebbero ricercate più in profondità, ma c’è un dato che emerge limpido sugli altri: Golden State non può più fare a meno di Draymond Green. Non solo, gli Warriors sembrano essere maggiormente dipendenti dalla presenza di Green che di chiunque altro.
Si è sempre parlato tanto del ruolo delle capacità architettoniche di Steve Kerr, di come Steph Curry stia rivoluzionando il Gioco, della grandezza degli Splash Brothers e della in-quantificabile importanza di Iguodala; ma il vero filo di Arianna della franchigia californiana è l’ex Michigan State. La sua importanza nello jaggernaut giallo-blu è tentacolare, tanto che l’organizzazione tattica dei Warriors cambia radicalmente a seconda della sua presenza o meno in campo: ogni aspetto per cui Golden State è la Rivoluzione Copernicana è vincolata a lui come una piovra: i tagli, la difesa, il flow offensivo, la qualità di passaggi e blocchi.
E quello che più impressiona ― o preoccupa ― è la crescita continua nei quattro anni finora disputati in NBA. I numeri parlano di un miglioramento (sensibile) in quasi ogni parametro, senza contare l’inestimabile valore della sua leadership o di tutte quelle piccole cose che alla fine fanno la differenza tra una vittoria ed una sconfitta, che gli inglesi definiscono intangibles.
Green inizia le sue partite da Power Forward per poi finirle (spesso) da centro, nel quintetto con Iguodala e Barnes ali-interscambiabili più gli Splash Brothers meglio noto come Death Lineup che ha terrorizzato la lega nelle ultime due stagioni, anello o meno.
E dal prossimo anno la situazione rischia di diventare ancora più drammatica per gli avversari visto il recente annuncio di Kevin Durant di unirsi alla franchigia californiana in questa free agency. Le cose che saranno in grado di fare Curry, Thompson, Green ed il nuovo arrivato Durant su un campo da basket rischiano di essere ai limiti del possibile: ma nonostante l’arrivo di uno dei migliori giocatori al mondo, il giocatore che permetterà a Golden State di poter mettere in campo un basket mai visto prima rimane Draymond Green.
La sua capacità di giocare da centro ribalta di 180° la percezione che si ha di Golden State: fortissimi prima ingiocabili poi.
Nella metà campo difensiva i Warriors sono capaci di cambiare su ogni blocco senza perdere d’intensità o subire un matchup particolarmente svantaggioso. La squadra di Kerr è un mix di rapidità ed atletismo, ma la vera chiave-di-volta è Draymond Green. Nonostante gli ultimi due premi di Defensive Player Of the Year siano andati a Kawhi Leonard, l’ex-Spartans avrebbe avuto tutte le carte in regola per precederlo, anzi: secondo una più attenta analisi proposta da Vantage Sports si vede come in molti dei parametri calcolati Green abbia numeri/percentuali migliori di Leonard ― senza nulla togliere a Kawhi, stiamo parlando dei due migliori difensori della lega.
Nell’iperuranio difensivo di Green i Warriors pescano a piene mani. È fenomenale nell’accoppiarsi con ogni tipo di attaccante e di limitarlo pesantemente: dalle point-guard rapide e tecniche come Jarrett Jack a lunghi e futuristici fenicotteri come Karl-Anthony Towns o Jabari Parker: può difendere contro ogni All-Star.
È particolarmente mobile, cosa che gli permette un’agilità insolita per un giocatore che al college sembrava sempre qualche chilo in sovrappeso. Grazie all’elevato QI cestistico è in grado di anticipare/leggere le situazioni di gioco in anticipo sugli altri. Non a caso Draymond Green è il giocatore con il miglior DeftRtg della squadra (97.5 punti subiti su 100 poss.) tra i compagni ad aver giocato 30+ minuti, ed ha un NetRtg migliore anche di Curry, dimostrandosi oltre che barometro anche giocatore insostituibile ― di fatti Green ha saltato soltanto due partite quest’anno, entrambe perse da Golden State.
La sua intensità è debordante, tipica di chi ha dovuto conquistarsi ogni centimetro di rispetto, ed è bravissimo nel posizionare il corpo ed usare le lunghe braccia (ha uno wingspan superiore ai sette-piedi).
Nonostante i due metri scarsi è un eccellente rimbalzista, come dimostrano gli ultimi playoff con oltre 200 rimbalzi, una cosa riuscita a pochissimi prima di lui. Ma Green è una dinamo d’energia inesauribile e spesso dopo il rimbalzo tramuta l’azione da difensiva in offensiva con un solo movimento. La sua visione di gioco gli permette di condurre la transizione o, meglio ancora, di portare la palla nella metà campo offensiva, togliendo pressione dalle spalle di Curry.
Spesso infatti è lui il playmaker della squadra e questo pone un vantaggio pressoché incolmabile sugli avversari visti i grandi atleti capaci di mangiarsi il campo aperto e soprattutto la presenza dei due (forse) migliori (ma neanche troppo) tiratori del gioco, Steph Curry e Klay Thompson.
Ogni giocatore di Golden State è capace di condurre l’azione e questa è una cosa del tutto normale nella proposta-libera di Steve Kerr. Dall’arrivo nella lega Green è cresciuto tantissimo nelle letture e adesso è totalmente in controllo dei suoi movimenti; e considerando anche una tecnica sopra la media e la grande capacità dei compagni di mettersi sempre in luce per una buona ricezione ― anche questa derivante dal continuo movimento voluto dall’ex-GM dei Phoenix Suns di D’Antoni (Sì, non è una coincidenza) ― il risultato è puro spettacolo, soprattutto quando possono correre.
Dalla maturazione di un feeling quasi telepatico con Curry e Thompson, oltre a garantirsi l’appellativo di Splash Cousin, nascono continui ed immarcabili giochi-a-tre.
Ma la costruzione di triangoli ipotetici che cambiano forma e funzione sono tipici nell’attacco di Golden State e vengono giocati continuamente da tutti i componenti del roster, centri compresi,. L’ormai celebre flow (flusso) offensivo dei Warriors garantisce loro di aver sempre due/tre soluzioni di passaggio possibili che generano tiri ad alta percentuale continuamente, per chiunque.
Anche quando Curry decide di lasciare la materia di cui sono composti gli altri esseri viventi per spaccare in due le partite non si ha mai la sensazione di forzatura. Tutto scorre fluido, leggero.
E in tutto questo l’avere in squadra un passatore eccellente come Green facilita clamorosamente le cose, con gli avversari che finiscono col perdere l’orientamento, in una sorta di girandola-perfetta che allarga ed allunga il campo come e quando vuole, come una fisarmonica.
Anche se il titolo perso malamente rischia di compromettere in parte l’idea di questi due anni degli Warriors (e spero per voi che resultadismo e/o la superficialità risiedano altrove), quello che difficilmente può essere messo in discussione anche dai Critici Dei Peggiori Bar Sport di Caracas è la dottrina offensiva stile panta-rei che ha permesso a Golden State di porre le basi di una nuova era cestistica.
Gli Warriors tramite lo Small Ball ed una filosofia basata su corsa/ritmo/muovere-la-palla sono riusciti a consacrare definitivamente un modello di pallacanestro che ristagnava nello scetticismo (il Seven seconds or less dei Suns di D’Antoni e Kerr appunto) facendone un punto di riferimento per quasi tutte le altre franchigie. Questo grazie anche, e soprattutto, al già citato Death Lineup, rebus irrisolvibile che oltre ad aver terrorizzato la lega ― i numeri sono irreali ― ha portato ad un nuovo livello l’importanza di saper tirare (bene) da tre.
Avendo oltre a Curry e Thompson una batteria di grandi tiratori, Golden State fa grande utilizzo del tiro da tre, di cui è stata stra-prima sia per canestri realizzati (13.1) che tentati (31.6) a partita, nella scorsa stagione.
Nonostante questo dato vada spesso a braccetto con un grosso utilizzo del pick-and-roll (vedi Spurs e Hawks, per esempio) non è così per i Warriors, che al contrario ne fanno un utilizzo bassissimo ― solo i Knicks ne fanno un uso ancora minore.
Gli uomini di Kerr sfruttano il continuo movimento della palla ed una velocissima entrata nei set offensivi per far lavorare la difesa ed arrivare a tiri ad alta qualità.
L’alta qualità dei tiri dei Warriors deriva anche dalla loro grande capacità nel portare i blocchi, categoria dove assieme ai Thunder sono una delle migliori squadre della lega: a differenza dei primi però gli Warriors tendono a portarli lontano dalla palla (Off-Ball Screen) e soprattutto (qui sta la grande differenza) ne fanno portare tantissimi agli esterni, soprattutto con Curry e Thompson ― che sono bloccanti eccellenti nonostante si possa pensare il contrario.
Draymond Green, oltre ad essere uno dei migliori dell’intera lega sia nella metà campo difensiva sia nel servire assist-cioccolatini per i compagni, è fenomenale anche nel portare i blocchi e, cosa ancora più importante, forma con Curry uno dei pick-and-roll più mortali di sempre.
Premessa: avere in squadra il miglior tiratore della Storia del Gioco ― il forse lo togliamo ― nel corpo di uno dei giocatori più influenti della Storia del Gioco tende a generare un discreto vantaggio.
Grazie ad un campo spaziato in ampiezza ed in lunghezza fino al massimo raggiungibile Curry i primi tempi poteva usufruire di molto spazio per i suoi uno-contro-uno e/o per punire i matchup vantaggiosi contro il diretto avversario (che essendo in marcatura di Green è spesso un lungo o un ala forte).
Dopo i necessari aggiustamenti ― tradotti in raddoppiare Curry ovunque ― il risultato volendo è finito col diventare ancora più tragico: Green, dopo un inizio non sempre lucido, ha iniziato a decodificare i vari assetti-difensivi finendo col trovare sempre una valvola di sfogo sicura. Il campo, troppo largo, finisce con l’essere impossibile da coprire interamente e quindi: dove anticipare una rotazione porta sistematicamente ad una tripla piedi per terra ― spesso dagli angoli ― non aiutare genera un due-contro-uno che finisce con Green al ferro o meglio ancora con un Alley-Oop per il compagno.
Una chiave per fermare questo mostro-a-cinque-teste l’avevano proposta (con ottimi risultati) gli Oklahoma City Thunder nella finale di conference, mandando nel raggio d’azione di Green, Kevin Durant. Problema immediatamente risolto con la firma del 35 di OKC. Facile, no?
Dall’ingresso nella lega Green ha migliorato sensibilmente le sue percentuali al tiro dalla lunga distanza, passando da uno scarso 20% del primo anno al quasi 39% di quest’ultima stagione (incredibile) impedendo così al diretto avversario di poterlo sfidare da oltre l’arco.
Dalla sua stagione da rookie però non solo ha duplicato la sua efficacia da oltre l’arco ma ha ridefinito completamente il suo gioco offensivo, incrementando il numero di tentativi da tre punti (da 0.8 a 3.2) ma eliminando quasi del tutto i tiri dal mid-range; così come nell’efficacia sotto canestro, passando dal 53.8% su meno di ottanta tentativi al 60% su oltre quattrocento della stagione appena conclusa. Un altro giocatore.
Frutto del sistema di Steve Kerr e del lavoro svolto con Luke Walton, Green è diventato senza mezzi termini un giocatore straordinariamente completo, eccellente in ogni fase del gioco. Un viaggio in prima classe nella modernità del basket contemporaneo.
Da quest’anno tutti si sono accorti di quanto Draymond Green sia un giocatore speciale e di quanto sia una parte fondamentale di questa straordinaria rivoluzione. Ed è questa la grande forza della franchigia californiana: una franchigia che dal prossimo anno annovererà nel roster due dei giocatori più forti della NBA contemporanea e non solo, ma che va molto oltre alla collezione di nomi prestigiosi.
Gli Warriors stanno dipingendo una tela molto più ampia delle considerazioni superficiali che spesso tendiamo ad attribuire ad un risultato, qualsiasi esso sia. Non correte il rischio di perdervi il grande foglio bianco del cambiamento culturale che Golden State sta compiendo per inseguire la macchiolina nera di una partita storta o di una sconfitta, qualsiasi essa sia. Il basket, come la vita, è continuo cambiamento. Il successo sta nel vivere appieno ogni suo passaggio, senza pregiudizi o imparzialità.
Niccolo’ Scarpelli nasce a Firenze (1990) ma appartiene al Deserto del Sonora. Da piccolo soffrivo di insonnia, tipo Al Pacino. Poi ho scoperto gli sport americani e sono peggiorato, proprio come Al Pacino.
Articolo spettacolare..commento solo ora perchè ho appena scoperto questo sito..complimenti e continuate cosí.