Dopo aver intervistato ben 12 candidati alla loro panchina, gli Houston Rockets hanno individuato in Mike D’Antoni l’uomo giusto per rivitalizzare il progetto di Daryl Morey, che, dopo esordi assai promettenti, è naufragato nel corso dell’ultimo anno, arenandosi al primo turno di Playoffs dopo una Regular Season da 41 vittorie e altrettante sconfitte, e che ora cerca riscatto in una nuova direzione tecnica.

Tifosi e media locali hanno reagito con stupore quando hanno scoperto il nome del nuovo coach dei texani, e alcuni –delusi dagli insuccessi e giĂ  sul piede di guerra– sono subito passati ad aggredire la scelta, senza rendersi conto che, visto il tipo di personale e gli allenatori disponibili, Mike D’Antoni (triennale da circa 15 milioni, con opzione per un quarto anno) non è affatto una cattiva pesca.

Mike e Houston hanno interessi collimanti e qualità che si sposano discretamente bene; come sempre, solo il tempo ci dirà se quest’unione avrà fortuna, ma le premesse tecniche sono incoraggianti; la filosofia di gioco di D’Antoni (gradita dal proprietario Leslie Alexander) può funzionare con le idee sabermetriche di Daryl Morey, e fornisce una valida bussola tecnica per le scelte di mercato.

Al riguardo, abbiamo fatto un piccolo terzo grado al sempre disponibilissimo Gianluca Pascucci, che dei Rockets è Vicepresidente del Player Personnel, e ci ha detto che “Innanzitutto si cerca di identificare dei candidati che possano avere caratteristiche tali da renderli un buon “fit” per la squadra, dopodiché s’inizia il processo di intervistare/incontrare i candidati; sono meeting nei quali si toccano i temi più svariati, tra i quali ovviamente la filosofia di gioco, sia in attacco che in difesa”.

I dubbi dei media e del pubblico riguardano le prospettive di un progetto che dipende dalla sinergia tra due uomini dal carattere spigoloso come James Harden e l’ex-baffo italiano. La guardia californiana sa (o dovrebbe sapere) che D’Antoni rappresenta uno degli ultimi treni disponibili per entrare definitivamente nel gotha dei giocatori da Hall of Fame. Il modo in cui gestirà il rapporto con Mike, rivelerà se per lui è sufficiente essere un uomo-brand e un personaggio di culto, o viceversa ambisce a divenire una leggenda di questo sport, al pari di LeBron e Curry.

D'Antoni e Harden nella war room dei Rockets durante il draft 2016; sullo sfondo, Morey e Pascucci

D’Antoni e Harden nella war room dei Rockets durante il draft 2016

Specularmente, il sessantacinquenne nativo di Mullens, West Virginia, trova a Houston un’occasione d’oro per dimostrare agli scettici di saper trasporre le proprie idee in campo anche senza l’aiuto di Steve Nash, imponendosi come autentico stratega da lavagnetta e non come un antesignano visionario, le cui idee hanno conosciuto il successo solo per merito di Steve Kerr e Gregg Popovich.

Se negli USA D’Antoni è celebre quasi esclusivamente come allenatore, non è così per gli italiani, come Gianluca Pascucci: “Sono di Pesaro, e sono cresciuto vedendo le mitiche sfide tra l’Olimpia di Dan Peterson e D’Antoni e la Scavolini, poi quando lavoravo a Milano ho avuto l’onore di giocare contro i Knicks di D’Antoni e ora avrò la fortuna di collaborarci”.

“Crediamo che D’Antoni sia un ottimo allenatore, con il quale poter condividere la filosofia di gioco che da sempre fa parte della storia dei Rockets”, ha continuato il nostro, confermando quando affermato dall’owner, Les Alexander, in sede di presentazione: “Daryl e io abbiamo deciso assieme, ho sempre voluto giocare in questo modo”.

Per lo spazio di una stagione, i Rockets c’erano quasi riusciti; nel 2014-15, con 56 vittorie, un Harden formato-MVP, e un gruppo coeso, Houston era riuscita a conquistare le Western Conference Finals e addirittura spaventare i Golden State Warriors, giocando di squadra, con il coltello tra i denti, difendendo con aggressività, cercando la transizione e costruendo tiri da tre punti.

Come abbiamo scoperto in seguito però, quelli non erano i primi vagiti di una squadra pronta per il titolo, quanto piuttosto l’exploit di un gruppo talentuoso in stato di grazia. Una volta andati in frantumi i fragili equilibri tra Dwight Howard e James Harden, è calata l’intensità e i Rockets si sono sgonfiati di colpo, trasformandosi in un gruppo il cui linguaggio del corpo trasudava nervosismo e forse anche insofferenza reciproca.

Il primo a pagare le conseguenze di questa situazione è stato coach Kevin McHale, rimosso dopo appena 11 partite di stagione regolare (4-7 il record). Il suo successore J.B. Bickerstaff si è trovato a convivere con gli stessi identici problemi dell’ex Celtic, senza riuscire a trovare il bandolo della matassa o l’appiglio giusto per una svolta, amministrando con l’aria di chi sa di camminare sulle uova.

La Houston 2015-16 è stata una squadra legata alle iniziative di James Harden, tremendamente discontinua e con un chiaro problema di spogliatoio, e nulla sono valsi i tentativi portati avanti da front-office e coaching-staff di rimettere la barra a diritta (e si è provato di tutto, incluso invitare un Navy Seal per raccontare come si costruisce fiducia reciproca in un team).

La mappa di tiro dei Rockets 2015-16

La mappa di tiro dei Rockets 2015-16

I successi della passata stagione avevano contribuito a sopire gli attriti, riesplosi però al training camp di settembre. Non essendo nello spogliatoio del Toyota Center, non conosciamo l’esatto evolvere della situazione, ma nel giro di una off-season (trascorsa senza sconvolgimenti del roster), i Rockets hanno cambiato radicalmente atteggiamento e linguaggio del corpo.

In campo abbiamo visto Harden giocare spesso da solo; non è un problema legato al numero di tiri, quanto piuttosto all’assenza di circolazione di palla. A giudicare da quanto scrivono i media locali, il Barba si è gradualmente alienato il resto dello spogliatoio, non frequentando nessuno, e anzi, facendo addirittura la strada dall’albergo al palazzetto su mezzi privati. In tutto questo, lo scarso feeling tra lui e Dwight Howard è degradato prima in indifferenza, e poi in malcelato fastidio.

Nonostante queste complicazioni, i Rockets sono riusciti a tornare ai Playoffs, facendosi eliminare 4-1 in un modo che fotografa perfettamente la situazione: due partite afasiche, con così poca tensione da far dire al linguacciuto Andre Iguodala che “sembrava una partita di prestagione”, salvo poi vincere Gara 3, con tanto di canestro della vittoria firmato Harden (salutato con distacco dalla panchina), e poi altre due partite piuttosto disfunzionali.

La tendenza mediatica è sempre quella di privilegiare l’attualità a discapito del contesto, il che spesso si traduce in posizioni eccessive e poco meditate, mentre Owner e Management hanno il dovere di ragionare in modo più complesso, senza farsi travolgere dall’emozione del momento.

Anche così però, la natura bipolare delle ultime stagioni resta difficile da conciliare: quali sono i veri Rockets? Quelli che hanno lottato con resilienza, facendo preoccupare gli Splash Brothers, o la versione svigorita e nervosa di quest’anno?

A Houston si dice che la scelta di D’Antoni provenga più dal campo di Alexander che da quello di Morey, ma indipendentemente da chi abbia spinto per Mike (posto che in qualsiasi club c’è sempre qualcuno che propone e qualcuno che si adegua), Daryl avrà finalmente un allenatore dalle idee forti, capace di dettare la linea tecnica in off-season, e quando GM e allenatore dialogano proficuamente, tutta la franchigia si arricchisce del confronto.

Leslie Alexander, dal canto suo, ha parlato apertamente dell’utilità di D’Antoni nel reclutare giocatori, che con lui al timone, avranno la possibilità di “gonfiare” le proprie cifre e quindi di lucrare contratti più alti (a noi sembra che l’importante sia trovare giocatori funzionali a un progetto e intenzionati, semmai, a sacrificarle, le cifre, ma anche questo fa parte del business NBA e sarebbe da ingenui sostenere il contrario).

Nell’estate del 2012 Mike D’Antoni era stato uno dei motivi dell’addio di Dwight Howard ai Los Angeles Lakers; Howard era free-agent, e chiese il licenziamento di D’Antoni come prerequisito a una sua permanenza in California. Jim Buss e Mitch Kupchak risposero picche, aprendo al suo approdo in Texas, che ora, per ironia della sorte, potrebbe concludersi proprio a causa dell’ex playmaker di Milano.

In sede di presentazione, Mike ha detto d’aver parlato con i giocatori, incluso James Harden, ma non con Dwight, e ha proseguito indicando di voler esplorare la possibilità di adoperare Clint Capela da titolare. D’Antoni ha sostenuto d’essere aperto alla possibilità di allenare nuovamente il centro nativo di Atlanta; a queste condizioni però, era scontato che Howard esercitasse la clausola che gli consente di anticipare di una stagione la fine del proprio contratto.

Da mesi Superman è indicato come probabile partente, e la firma di un allenatore poco amato lascia intendere come forse anche i Rockets non abbiano poi tutta questa voglia di trattenerlo; senza Howard si libereranno infatti una quarantina di milioni in spazio salariale, utili per cogliere qualche opportunità e rimodellare la squadra in base alle esigenze tecniche di D’Antoni.

Data per scontata la perdita di Dwight, Mike porta in dote tutto il know-how offensivo visto in campo ai tempi dei Phoenix Suns di Steve Nash, Boris Diaw, Shawn Marion e Stoudemire. Mutatis mutandis, sono principi che potrebbero applicarsi a un altro virtuoso della palla a spicchi, quel James Harden giunto –come detto– ad un bivio importante della propria carriera.

La mappa di tiro dei Suns, edizione 2006-07

La mappa di tiro dei Suns, edizione 2006-07

Un anno fa l’irsuto James aveva stretto un paio di viti in difesa, esprimendosi a livelli da MVP, ma negli ultimi dodici mesi, tra fidanzate ingombranti e bizzarrie assortite, è tornato a difendere contemplativamente, e anche in attacco ha fatto passi indietro, giocando più per le statistiche che per il punteggio (questa è la sensazione, basata soprattutto sulla tendenza a passarla solo quando c’è da fare l’assist).

D’Antoni può essere l’allenatore giusto per prendere quel che c’è di buono nel gioco di Harden (cioè molto!) e limarne i difetti, “vendendogli” una pallacanestro di squadra che ne magnificherà l’individualità; Mike è al suo meglio quando ha a disposizione un solista abile nel creare dal palleggio per sé e per gli altri, e il Barba può essere questo tipo di ball-handler, ma chiaramente c’è anche altro su cui lavorare in termini di disponibilità al sacrificio e leadership.

“Credo che il rapporto tra Harden e D’Antoni sia estremamente importante” ci ha detto Pascucci “come d’altronde avviene sempre, in ogni dinamica di squadra tra il tuo allenatore e il giocatore di riferimento; la cosa importante è che ovunque abbia allenato, Mike D’Antoni ha sempre avuto grandi relazioni con i giocatori, come ricordiamo bene anche noi in Italia, in seguito ai suoi trascorsi con Milano e Treviso”.

Parlandone con Jason Terry durante il suo nuovo programma radiofonico su Sirius XM (intitolato The Runaway with Jason “The Jet” Terry), Harden si è detto eccitato dalla prospettiva d’essere allenato da Mike: “Ho sentito grandi cose sul suo conto, e su quello che porta alla nostra squadra (…) è un nuovo inizio, ed è una prospettiva eccitante”.

Indipendentemente dai proclami estivi, se allenatore e uomo-franchigia riusciranno a costruire un’intesa fruttuosa, allora s’innescherà un meccanismo virtuoso per tutta Houston; viceversa, tra qualche mese ci ritroveremo qui a parlare ancora una volta dei limiti difensivi di Harden e dei brontolii dello spogliatoio, mentre i Rockets continueranno a galleggiare senza costrutto.

A proposito di difesa, D’Antoni avrà come assistenti Roy Rogers (ex assistent-coach dei Wizards) e Jeff Bzdelik, che ha già allenato in NBA a Denver, ha lavorato con Riley a Miami, e dal 2014 ad oggi è stato assistente coi Grizzlies, mentre non arriverà Rex Kalamian, che ha scelto di restare a Toronto. D’Antoni troverà una NBA ormai definitivamente aperta alle sue idee (grazie ai titoli vinti da Spurs e Warriors), nella quale la difesa verrà giudicata in base ai points-per-possession e al differenziale con l’attacco, anziché in base ai punti concessi.

Sarà cruciale recuperare giocatori “di sistema” come Trevor Ariza e Corey Brewer, che possono rifiorire in un basket improntato su corsa e tiri ad alta percentuale, e che daranno una grossa mano in difesa, mentre non è affatto scontato il resto della composizione del roster da presentare al training camp, anche se, secondo Pascucci ”I roster della NBA sono sempre in continua evoluzione, ma noi crediamo che i giocatori a disposizione in questo momento abbiano caratteristiche adatte al sistema di gioco che coach D’Antoni vuole implementare”.

Pat Beverley è amatissimo dal pubblico per la sua durezza e l’intensità difensiva, ma non è un playmaker nel senso dantoniano del termine; potrebbe prendersi in carico la marcatura dei playmaker avversari per poi attaccare da guardia pura, delegando completamente i compiti di gestione-palla a James Harden, oppure potrebbe riciclarsi da sesto uomo di rottura.

Terrence Jones e Donatas Motiejunas sono ambedue free agent, e quindi il loro destino dipenderà dagli incastri del mercato e non solo dalla volontà di trattenerli, posto che, per una questione di mobilità, Mike ha sempre preferito ali piccole riadattate allo spot di ala forte (Shawn Marion su tutti) anzichÊ veri e propri stretch-four, cioè big-men dotati di tiro.
In questo senso, potrebbe ricavarsi un ruolo Montrezl Harrell, cosĂŹ come Michael Beasley (team option per il 2017), che sembra aver tratto grande giovamento dalla cura cinese.

In attesa di capire cosa farà il trentottenne Jason Terry (vorrebbe giocare altri due anni), si attende di capire se avranno spazio J.K. McDaniels, la guardia proveniente da Philadelphia transitata per i Vipers della D-League, così come Sam Dekker, l’ex Wisconsin che, dopo un anno di apprendistato, potrebbe finalmente trovare un po’ di spazio, o essere scambiato.

Con Dwight Howard in uscita, si apriranno scenari interessantissimi, soprattutto per un GM spregiudicato e abile sul mercato come Morey, anche se Kevin Durant è piÚ un sogno che un obiettivo concreto: OKC ha dimostrato in modo inequivocabile di potersela giocare per il titolo, rendendo assai improbabile una fuga di KD verso altri lidi.

Altri nomi suggestivi sono quelli di Hassan Whiteside e Al Horford, che colmerebbero la lacuna lasciata da Howard, ma la vera priorità sarà trovare un ball-handler da affiancare a Harden, le cui numerose palle perse discendono anche dall’essere l’unico creatore di gioco dei Rockets. Non bisogna dimenticare che ai Suns D’Antoni aveva Steve Nash, certo, ma affianco al genietto canadese evoluivano giocatori in grado di mettersi in proprio e creare canestri, come Boris Diaw, Joe Johnson e Barbosa.

Non ci stupiremmo dunque se Houston dovesse concentrare le proprie risorse su una guardia, investendoci risorse che l’anno scorso (quando tentarono la carta Ty Lawson) non erano disponibili; il profilo perfetto è quello di Mike Conley dei Memphis Grizzlies, oppure di Jeremy Lin, che ha vissuto la parte migliore della sua carriera al Madison Square Garden, proprio agli ordini di D’Antoni, ma allo stato delle cose, è impossibile pronosticare quale giocatore si accaserà con quale squadra.

L’alternativa sarebbe dotarsi di un’ala capace di svolgere compiti da point-forward, come Nicolas Batum, reduce da un grande anno in North Carolina, oppure un’ala che apra il campo, come Chris Copeland o Jared Dudley. Dal Draft sono arrivati tre nomi, due scelti direttamente da Houston, e un terzo, Gary Payton II, firmato da undrafted con un triennale.

Alla 37, Morey ha chiamato il centro Chinanu Onuaku, da Luisville, che fa un po’ scopa con Harrell e Capela, mentre con la 43 i Rockets hanno selezionato Zhou Qi, cinesone che presumibilmente rimarrà in patria ancora per qualche tempo (è un classe 1996). La scelta più interessante è quella di Payton, non solo per gli augusti natali (il padre, ovviamente, è il Guanto che evoluiva in maglia Supersonics), quanto per il ruolo: Gary è una guardia eminentemente difensiva, senza grande tiro, resiliente e tosta, abbastanza simile a Beverley.

Capitolo a parte per Alessandro Gentile, al momento impegnato in Nazionale, sul quale esistono poche certezze. SbarcherĂ  in America, e se lo farĂ , sarĂ  con la maglia dei Rockets, che ne detengono i diritti, o con una delle tante interessate (ultimamente, Toronto e Denver)?

È impossibile sapere fin d’ora quali saranno le reali opportunità di mercato per gli Houston Rockets, o se la scelta di Mike D’Antoni pagherà dividendi in termini di titolo NBA (che è l’ambizione dichiarata della proprietà), ma questa è in ogni caso una scelta vincente, capace di sottrarre i texani all’impasse nella quale si erano cacciati, e di restituire alla franchigia una direzione precisa, moderna e aggressiva.

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