I Thunder salgono sulla macchina del tempo, schiacciano il pulsante e balzano 48 ore nel passato, quello che basta per ripetere l’impeccabile prestazione di gara 3 e spingere i Warriors sull’orlo del precipizio.
If it ain’t broke don’t fix it, dicono oltreoceano, se non è rotto lascialo stare, e Billy Donovan non ha alcuna intenzione di alterare gli ingredienti della sua formula vincente. Mantenere lo stesso ritmo forsennato, però, la stessa pressione, non è facile come a dirsi.
Infatti i Thunder di gara 4 tirano peggio (Durant incappa in un gramo 33.3%, pur godendo della solita libertà sul perimetro) e si addormentano due volte, alla fine del primo quarto e all’inizio del terzo.
Costruiscono un altro impressionante vantaggio all’intervallo, 72-53 – i Warriors non inseguivano di 15 punti per due partite consecutive dal 2013 -, ma un Klay Thompson in modalità lanciafiamme guida il gruppone degli inseguitori fino al -7.
Merito di Golden State che affronta la sfida con più energia e un po’ dell’umiltà che li aveva rimessi in corsa in gara 2 ma alla fine la scalata la vince comunque Oklahoma City; per lo scatto decisivo è solo questione di tempo, arriva in vista del traguardo con Russell Westbrook in piedi sui pedali.
Come nelle leggende medievali, i Thunder hanno mangiato il cuore del rivale. Non si tratta tuttavia di un oscuro dono d’amore; l’hanno strappato a forza dal petto di Draymond Green, l’anima mancante a questi Warriors che hanno perso il sorriso.
La possibile squalifica – quella scampata per il colpo basso a Steven Adams e quella che rischia al prossimo flagrant foul – è una spada di Damocle che gli pende sopra la testa. Ai microfoni nega: non giocherò mai careful, devo essere me stesso. In realtà il lungo da Michigan State è un animale in gabbia. 1/7 al tiro, 6 palle perse a fronte di soli 3 assist, un plus/minus di -30 che fa il paio col demoralizzante -43 di gara 3.
Billy Donovan ha un’altra intuizione delle sue e sacrifica Kevin Durant sulle sue tracce. Lui lo spinge fuori dal pitturato, gli oscura la visuale quando si sistema in punta a dirigere il traffico e ne intercetta i passaggi coi trampoli di cui dispone. Green non mostra nemmeno quella reazione di rabbia che, probabilmente, sta tenendo in serbo per le partite in casa.
Ma gara 4 è anche, e soprattutto, il ritorno fra i terrestri di Steph Curry.
6/20 dal campo, 2/10 dalla distanza, persino due inconsueti errori ai liberi e altrettanto rari layup che s’incastrano sul ferro. L’impressione è che il ginocchio e il gomito malandati lo infastidiscano più di quanto ammetta; la pressione difensiva a cui è sottoposto, azzannato da Westbrook ad ogni azione, fa il resto. Billy Donovan è cinico come uno squalo e nel secondo parziale i suoi stringono la morsa.
Quando ha palla cambiano costantemente marcatura, persino fuori dai pick and roll, quando tenta di liberarsi negli spazi gli mettono le mani addosso e lo trascinano negli ingorghi del pitturato. I Warriors arrembanti che tentano la rimonta del terzo quarto si affidano al fratellino Klay Thompson anziché all’MVP.
I Thunder hanno una tale fiducia nei propri mezzi da concedersi anche un paio di lussi. Il primo è un po’ di meritato riposo per Steven Adams, 24 minuti in campo (nei quali si immedesima in Magic Johnson) e i restanti in panchina a fare il conto degli infortuni – l’ultimo della collezione è una distorsione alla caviglia. Il secondo è il quintetto piccolo con Ibaka unico lungo che sfida a viso aperto la death lineup di Golden State e piazza i due parziali decisivi. Col meno villoso degli Stache Brothers accantonato nelle rotazioni, la duttilità del congolese torna prepotentemente in auge.
“This team is outplaying us right now and we’ve got to come up with some answers”: questo il vaticinio di Steve Kerr nelle interviste di rito, ma a quali soluzioni può ricorrere una squadra in aperta crisi d’identità?
Persino Klay Thompson pare aver speso tutto l’orgoglio in campo, quando nel post-partita si ammette sorpreso dall’andamento della serie. Se i tuoi colpi migliori mancano il bersaglio le certezze crollano e le idee si fanno confuse; Curry torna in marcatura su Westbrook come nella partita d’esordio, le rotazioni prima si allungano poi si accorciano, Livingstone ha la missione di arma tattica ma il suo apporto è intangibile.
L’unica costante è la ricerca del ritmo perduto, quel contropiede su cui si insiste ossessivamente ma con fortune alterne: 18 punti in campo aperto stanotte, ma OKC ci ha messo del suo nei momenti di distrazione. C’è un’immagine più eloquente delle altre: Klay Thompson s’invola in solitaria, trova un compagno per un tiro smarcato dall’arco, ma nel frattempo 5 uomini in maglia bianca convergono già a rimbalzo.
Se Durant si è reso utile per applicazione in difesa anche in una serata da polveri bagnate, è toccato a Russell Westbrook recitare la parte del leone. 36 punti, 11 rimbalzi e 11 assist alla sirena, attimi di autentico terrore per la difesa Warriors e una stat line che lo iscrive nella cerchia dei grandi.
La sua reazione di carattere dopo la scialba gara 2 è stata d’esempio per i compagni; sarà anche troppo lunatico per essere un leader, ma il confronto diretto con l’MVP finora è suo. Scusate se è poco.
L’attesa è trepidante per il prossimo atto di una serie tutt’altro che conclusa. A meno di un clamoroso crollo mentale Golden State difenderà il parquet di casa con le unghie e con i denti.
I Thunder giocano sul filo del rasoio, prendere un’imbarcata è questione di minuti contro un attacco dal così alto potenziale.
Draymond Green, Stephen Curry, Steve Kerr: tutti hanno già la loro risposta sigillata nella busta, ma almeno una delle tre dev’essere quella corretta. California, here we come.
Scrittore e giornalista in erba – nel senso che la mia carriera è fumosa -, seguo la NBA dall’ultimo All Star Game di Michael Jordan. Ci ho messo lo stesso tempo a imparare metà delle regole del football.