Gara 4 del primo turno playoff al Moda Center di Portland, 6 minuti e 32 secondi sul cronometro del terzo quarto. Chris Paul tenta di rubare palla a Gerald Henderson e si frattura il terzo metacarpo della mano destra.
Con un potente zoom della telecamera si potrebbe individuare il fotogramma esatto in cui, all’unisono, si spezzano anche i cuori dei tifosi Clippers; un po’ come accade al povero Ralph Winchester scaricato da Lisa in una puntata di San Valentino dei Simpson che chiunque sia cresciuto negli anni ’90 ricorderà.
Pochi minuti dopo Blake Griffin va a raggiungerlo in infermeria, colpa del riaggravarsi di un problema al quadricipite che non gli ha dato pace per tutta la stagione.
La stagione dei Clippers finisce così, senza nemmeno un canto del cigno. Le lacrime sul volto tumefatto di Austin Rivers, coi punti chiusi al volo negli spogliatoi, sono l’immagine di una filosofia più che di una semplice annata storta.
È la Clippers’ curse, la maledizione Clippers. Certe volte è la sfortuna di Paperino, certe altre te la vai a cercare. Come quando con la prima scelta di un draft 1998 da cui usciranno Vince Carter, Dirk Nowitzki e Paul Pierce selezioni Michael “The Kandi Man” Olowokandi. Sì, il soprannome era la sua dote migliore.
O come quando, poco meno di un anno fa, dopo la vittoria della vita contro gli Spurs ti fai rimontare dai pigri Houston Rockets e ti fai scippare la chance di affrontare i Warriors in finale.
Ci sono poi quei casi in cui sei schiavo della tua stessa condanna, e quest’ultima ha un nome e un cognome. Donald Sterling, i cui pregiudizi razziali erano ben noti già prima che esplodesse lo scandalo che portò la lega a defenestrarlo – se ne lamentarono, tra gli altri, Sam Cassell, Elton Brand e persino Elgin Baylor.
Viene da pensare che i Clippers stiano scontando il pessimo karma accumulato nei 34 anni in cui Sterling era seduto dietro la scrivania; l’entusiasmo e le magliette a righe di Steve Ballmer non bastano ad appianare la bilancia.
Dati alla mano, i Clippers sono una delle squadre più forti degli ultimi anni. Hanno ogni ingrediente della ricetta per il successo.
Una superstar e due più che degni comprimari – compreso un DeAndre Jordan riconfermato con una campagna mediatica senza precedenti e, si spera, senza seguiti. Un allenatore tra i più stimati in circolazione che è anche President of Basketball Operations.
Una panchina lunghissima col giusto mix di giovani e veterani, spesso rinforzata in corso d’opera per ovviare a esperimenti malriusciti – Lance “Born Ready” Stehpenson, stiamo parlando di te, un altro il cui soprannome rischia di lasciare ricordi più durevoli della sua condotta in campo.
Eppure non è abbastanza per competere seriamente al titolo, e mai come quest’anno si ha l’impressione di essere arrivati alla fine di un ciclo, che si sia già toccato l’apice.
C’è una domanda esistenziale che aleggia sulla faccenda, un dilemma ontologico: se i Clippers vincessero, sarebbero ancora i Clippers?
Se lo doveva stare chiedendo anche Federico Buffa quando irrideva le previsioni ottimistiche del collega Davide Pessina in una delle sue battute più condivise dal web. “Sì, ma c’è scritto Clippers sulla maglia”.
Poco importa che quel pronostico Buffa lo sbagliò e la scommessa dovette ripagarla con un buon vino – questa, come direbbe lui o chi lo imita, è un’altra storia. L’identità dei Clippers è quella di perdenti.
Se diventano la prima franchigia di Los Angeles e raggiungono i playoff ogni stagione, li chiameranno perdenti di successo. Ma tutti sanno che i Lakers sono a una prima scelta del draft di distanza dal riprendersi le luci del palcoscenico e accampare diritti di priorità sullo Staples Center.
Loro a bordo campo hanno Jack Nicholson, quegli altri hanno Billy Crystal. Dal drama al comedy, per l’appunto. Come lo stesso Billy Crystal ebbe a dire, “the world’s a tuxedo, and we’re a pair of brown shoes”.
Dove vanno i Clippers da qui in avanti? In mancanza di talenti futuribili, con Griffin e Jordan che stanno esprimendo il massimo del loro potenziale e un Chris Paul che ha scollinato i 30, tra i tifosi si fa largo un’idea. Blow it up, smantellare il trio e cambiare faccia, non per una ricostruzione a lungo termine ma per vincere subito.
Non è un caso che queste voci si andassero intensificando intorno al periodo dell’All Star Game, quando in assenza di Blake – alle prese col già citato infortunio al quadricipite e col vizio del cazzotto facile – la squadra otteneva un’impressionante striscia di vittorie e trovava un’insospettata alchimia.
La qualità del giocatore, discussa con fervore fino a un paio di anni fa, dovrebbe essere ormai appurata; non altrettanto il suo impatto sul quintetto e la sua sinergia con DeAndre Jordan. L’intesa tra i due è ottima, ma in un attacco NBA che cerca il tiro da 3 punti il cameratismo da college non basta e l’abbinamento di due lunghi prettamente interni è un’idea pericolosa.
Se aggiungiamo gli screzi con lo staff e la stagione costellata di infortuni, si finisce per credere all’idea che Griffin sia davvero con le valigie in mano.
È troppo presto persino per valutare, i Clippers sono ancora intenti a leccarsi le ferite, ma una trade di grande spessore sarebbe l’unica via per muoversi in un mercato affollato, arricchito dall’incremento del salary cap e con un unico nome nella testa di tutti: Kevin Durant.
Doc Rivers e il fidato Dave Wohl non hanno spazio né abbastanza soldi per le mani. Coi contrattoni già bloccati, dei 116 milioni a disposizione ne rimarrebbero soltanto 28, qualcosa in più se Paul Pierce decidesse di appendere le sneakers al chiodo, da suddividere tra una Mid-Level Exception (per riconfermare un buon Cole Aldrich o chi per lui) e le opzioni su Austin Rivers, Jamal Crawford e Jeff Green.
Se anche decidessero di destinare tutte le risorse per un free agent, con quella cifra potresti permetterti al massimo uno specialista come Kent Bazemore, che si ipotizza strapperà uno stipendio sui 15 milioni con l’aumento del salary cap.
L’unico modo di mettere le mani su Kevin Durant è un sign and trade, ma perché poi dovrebbe scegliere i Clippers? Chris Paul l’ha fatto e ha legato il suo nome alla maledizione.
È commovente pensare che il numero 3 da Wake Forest abbia già consolidato lo status di perdente di lusso. Quelli che vorresti vedere con un anello al dito prima o poi, perché giocano troppo bene, perché se lo meritano. Hanno avuto soltanto sfortuna e incontrato avversari più forti.
Se lo augurava non più tardi di ieri Sir Charles Barkley sugli schermi della TNT. Arrivati a quella fase della carriera è quasi una condanna, come per Stockton e Malone, o per Steve Nash. Pochi ne vengono fuori con una zampata, vedi il furto con scasso di Nowitzki e Jason Kidd nelle Finals 2011.
In fin dei conti, Chris Paul ha il physique du rôle per una sceneggiatura originale sull’arte della sconfitta. Innanzitutto, indossa una canotta con su scritto Clippers. Ha già la sua epopea, le sue leggende; quella dei 61 punti segnati ai tempi dell’high school in memoria del nonno assassinato farà venire i lucciconi per generazioni a venire.
È uno degli ultimi poeti della pallacanestro nell’epoca del tramonto delle vere point guard. Oggi i suoi pari ruolo sono supereroi come Curry e Westbrook; Chris ha dalla sua il genio ma al confronto è umano, troppo umano.
I Clippers affrontano l’off-season ai bordi di un crocevia, tre sliding doors per altrettanti mondi paralleli. Nel primo Blake Griffin è spedito in confezione regalo al miglior offerente in cambio di un pezzo altrettanto pregiato, possibilmente un esterno, che risollevi i sogni di una franchigia ferita; c’è anche Jimmy Butler sul mercato degli scontenti.
Nel secondo Rivers e Wohl si lambiccano il cervello e aggiustano la squadra nei dettagli, come fatto finora, scribacchiando sulla lavagna le equazioni per la formula perfetta.
Nel terzo, tutto rimane così com’è. È il destino che cambia, l’asse terrestre che inizia a girare nel verso opposto. Niente infortuni, niente scandali fuori dal campo, niente crisi di panico, Steve Ballmer si scatena a bordo campo e i Clippers se la giocano a armi pari con i migliori. Il karma ha deciso che hanno pagato abbastanza e ha smesso di trattarli come una donna di malaffare.
A voi la scelta della porta che preferite. Ma chissà se, senza la maledizione, sarebbero ancora i Clippers che amiamo.
Scrittore e giornalista in erba – nel senso che la mia carriera è fumosa -, seguo la NBA dall’ultimo All Star Game di Michael Jordan. Ci ho messo lo stesso tempo a imparare metà delle regole del football.
Sì, potrebbe essere proprio così la maledizione dei Clippers, una gestione partygiana(nel senso di clima da party, di festa continua)di Sterling unità a idea “spendiamo poco, facciamo soldi e non preoccupiamoci del titolo”per tanti anni potrebbe aver precluso le possibilità di vittoria della LA minore. Ma questa è una visione un po’ romantica e un po’ comica della realtà. I Clippers hanno tutto per essere ancora al top nella Western. Ma sono piuttosto lontani dal vincere. Senza una seconda vera stella da aggiungere a CP3, difficile pensare al titolo. Ma panchina, giovani, soldi, profondità di elementi ci sono, quindi perché non nutrire speranze? Secondo me con Griffin non si vince, cioè non che lui non sia forte, ma non è un secondo violino di razza che ti porta in fondo. Jordan? dai non scherziamo…forte per rimbalzi e stoppate, ma nei finali deve stare in panchina…Comunque, ripeto, i Clips possono anche puntare al titolo, ma necessariamente dovranno fare almeno un paio di scelte forti relative al roster.