We’re one superstar era il motto scelto dai Celtics per questi playoff, a sottolineare l’assenza di primedonne e la mentalità operaia di cui Boston si fa vanto.
Alla fine della fiera, però, la frase si attaglia con più precisione agli Hawks. Con la sola eccezione dei 45 punti di Paul Millsap nella sconfitta di gara 4, l’attacco di Atlanta è stato quanto di più bilanciato un coach possa chiedere; stanotte sei uomini in doppia cifra e nessuno sopra i 17 punti.
I verdi invece, come recita il titolo accusatorio del Boston Globe di stamani, hanno finito per appoggiarsi più del dovuto sulle spalle di Isaiah Thomas smarrendo la loro identità. Quanto di questo sia merito di Atlanta o demerito dei Celtics, è la domanda da un milione di dollari.
La partita offre pochi spunti rispetto a gara 5. Dopo 12 minuti di studio gli Hawks entrano in ritmo e prendono il comando. Allungheranno fino al +21 senza guardarsi mai indietro. Budenholzer insiste con il quintetto piccolo, Mike Scott da 4 e Paul Millsap da 5, e trova punti facili grazie a un ottimo Jeff Teague che batte il proprio uomo dal palleggio e arma la mano dei compagni, stando attento a non trascurare nessuno.
Le percentuali confermano il miglioramento della partita precedente, 51% rispetto al 41% della serie, con Korver che non sbaglia un tiro. Gli assist salgono da 30 a 31, simbolo della qualità dell’attacco.
Ma è la difesa, ancora una volta, a fare la differenza. Budenholzer gira le ultime viti e la sua creatura assomiglia al delitto perfetto.
Pochissime opportunità concesse in contropiede, le uniche su cui i Celtics si sono accesi nella serie. Soliti raddoppi su Thomas, col lungo che sale in punta a oscurargli il pitturato sulla mano destra e l’esterno dal lato debole che lo affianca per impedirgli di arrivare a canestro girandogli intorno.
Il numero 4 di Boston è generoso, 24 punti (ma con 25 tiri) e 10 assist alla sirena, la palla però si blocca spesso nelle sue mani. Ha difficoltà a trovare il tempismo giusto per gli scarichi, nella selva di mani in cui si trova intrappolato, e quando ci riesce i compagni sbagliano dozzine di tiri aperti.
La scelta del coaching staff è chiara; sanno che Boston non eccelle dall’arco e Crowder, Turner e Jerebko possono mandare per aria quello che vogliono.
Brad Stevens le prova tutte per mettere in ritmo i suoi e sgravare i compiti del suo leader. Cede qualcosa in difesa pur di buttare nella mischia tiratori più pericolosi – RJ Hunter, Olynyk, Sullinger -, sposta Crowder dall’angolo e gli fa fare il pendolo sulla linea di fondo per ricevere sul taglio. “Shoot your jump shot” esorta i suoi nei time out. “Trust it!”; nulla da fare, per i Celtics è una serata da ciapa no, come direbbe il sempreverde Dan Peterson. 7/32 dalla distanza, un dato che premia a pieni voti la strategia di Budenholzer.
Al di là di quel che raccontano le nude statistiche, Atlanta ha mostrato più energia e concentrazione; più voglia di portare a casa la partita, di strappare rimbalzi e conquistare palle vaganti, di sfoderare la malizia quando necessario.
Gli uomini in verde, che in tutta la stagione si sono fatti vanto di saper recuperare da svantaggi considerevoli, sono apparsi sfiduciati; per la prima volta nelle 6 partite, si guardavano l’un l’altro con la consapevolezza di non avere più niente da inventarsi. Una superiorità che è emersa alla distanza ma che non per questo è meno schiacciante, e che segna un solco tra due squadre simili sotto molti aspetti.
Di fronte alla prova del nove, Boston è messa a nudo coi suoi difetti. Non è ancora la squadra che, per certi tratti di stagione, credeva di poter diventare. L’infortunio di Avery Bradley ha complicato le cose ma quando devi affidarti al pur volenteroso Jonas Jerebko e all’acerbo Terry Rozier, significa che il roster non è adatto alla pallacanestro esigente dei playoff e le solide basi non bastano.
Isaiah Thomas non è un fenomeno che può vincere una serie da solo, ma potrebbe brillare a fianco di un altro attaccante di spessore. Gli altri Celtics, di fronte alla difficoltà del loro leader, non sono stati in grado di elevare il proprio gioco quando la palla pesava; eccetto Marcus Smart, che ha la stoffa dell’animale da playoff.
Anche coach Stevens è rimandato a settembre; poco il materiale su cui lavorare, ma dopo i tempestivi aggiustamenti in corsa dei primi match ci ha messo forse un attimo di troppo a realizzare la gravità della situazione e la serie è finita prima che lui potesse tentare una mossa, anche disperata, o risvegliare l’orgoglio sopito dei suoi.
Atlanta è una squadra più matura e con qualità da vendere. I suoi punti di riferimento giocano in fiducia e non gli è richiesto di strafare, i suoi specialisti possono attenersi al loro compito; tutto quel che portano in più è fieno da mettere in cascina, come le ottime prestazioni che ha inanellato Kent Bazemore.
Dopo una partenza in sordina gli Hawks sembrano caldi a sufficienza per impensierire i Cavs nelle semifinali; l’anno scorso li affrontarono col motore in panne al termine di una stagione stellare, stavolta vantano un curriculum più modesto ma una forma invidiabile.
Scrittore e giornalista in erba – nel senso che la mia carriera è fumosa -, seguo la NBA dall’ultimo All Star Game di Michael Jordan. Ci ho messo lo stesso tempo a imparare metà delle regole del football.