Signori, abbiamo una serie. Questo il responso di gara 3, la prima da dentro o fuori per i Celtics che rispondono all’appello difendendo il parquet amico con orgoglio e, soprattutto, idee fresche. Il copione della partita è del tutto simile, ma speculare, a quello di gara 1.
Boston parte forte, Atlanta rincorre e mette la testa avanti nel terzo quarto, poi nel finale la spunta la squadra di casa. Dicevamo che ci sarebbe stato bisogno di una prestazione superlativa di Isaiah Thomas; se in gara 2 si era accordato alle note di How to disappear completely dei Radiohead, in gara 3 suona la carica con 42 punti, massimo in carriera in quella che è, finora, la sua partita più importante.
Merito di una ritrovata precisione al tiro e di un attacco studiato a puntino, costruito intorno a lui come la banca che ci tedia nelle pubblicità. Evan Turner e Marcus Smart lo sgravano spesso e volentieri dal compito di portare palla, muovono la difesa quel tanto che basta ad aprirgli un metro di spazio e Thomas entra subito in fiducia.
Segna in tutti i modi; in penetrazione dal palleggio, su tagli a canestro dalla media, in uscita dai blocchi, persino un paio delle sue conclusioni sfacciate che muovono la retina dall’arco. Per supportare il suo top scorer coach Stevens rivoluziona il quintetto col già citato Turner e Jonas Jerebko a sostituire Sullinger dal primo minuto.
Lo svedese incarna la massima oraziana del carpe diem e parte in quarta con una tripla e un recupero in difesa; non ha la velocità di piedi di Amir Johnson per inseguire i piccoli sul perimetro, ma è molto più attento di Sullinger nell’ostruire il gioco alto-basso tra Millsap e Horford. Smart subentra dalla panchina, il ruolo che gli è più naturale, e si alterna con Crowder a fare da ombra a Kyle Korver (buona la partita del prodotto di Oklahoma State, eccezion fatta per questo flop che spopola sul web).
Atlanta parte dai blocchi con la pigrizia di chi sa di essere più forte, con la solita difesa incentrata sul pitturato, ma Brad Stevens ha piani criminosi per scardinarla. I suoi muovono la palla come contro la zona, e tra giochi di sponda costruiscono tiri facili. Le percentuali, per la prima volta nella serie, s’impennano: 4-7 dall’arco nei primi 4 minuti. Solo allora gli Hawks si sintonizzano sulla partita e stringono le maglie della catena. Sale anche l’intensità e scattano scintille tra Thomas e Schroeder.
Il tedesco, innervosito, farà del resto del match una questione personale tra lui e il canestro. 20 punti alla sirena, ma anche un paio di palle perse e tante scelte rivedibili. A inizio secondo quarto monopolizza la sfera bloccando sul nascere il ritrovato smalto di Korver e Horford, ben imbeccati da un paio di giocate disegnate dal coach all’intervallo. Coach Budenholzer lo tiene comunque in campo per premiare la sua aggressività in difesa e Atlanta limita il parziale sul -12.
Dopo il riposo la musica cambia. Atlanta scivola a -20, poi si arrampica veloce a -7 sulle ali di Jeff Teague. Paul Millsap non si è ancora iscritto alla serie ma la sua sagacia tattica è fondamentale; funge da esca e negli spazi che libera Korver e Horford segnano canestri importanti. Il dominicano però collide una seconda volta con un ottimo Amir Johnson che lo limita a 8 punti e lo fa faticare dall’altro lato del campo in un duello acceso.
La partita si accende, si fa spigolosa, ma non abbastanza perché gli Hawks cedano l’inerzia appena guadagnata. I grigi perdono un po’ il polso della situazione ma loro non si curano delle chiamate dubbie – tre flagrant one affibbiati per banali e casuali scappellotti mentre l’intervento più pericoloso, quello di Jeff Teague che spingeva Crowder a mezz’aria, rimane impunito – e impattano sul 78.
È Boston la prima a perdere il ritmo e farsi innervosire; la palla non si muove, Isaiah Thomas è lasciato solo nella sua isola e persino Brad Stevens si assopisce con le rotazioni. Terry Rozier e RJ Hunter tengono botta, Sullinger invece, finiti i minuti di autonomia, stende il tappeto rosso per le entrate di Schroeder e Teague.
I verdi hanno il merito di rimettere la testa a posto in tempo per il finale. Atlanta è sulle gambe dopo la rimonta e i Celtics tornano a aggredire prima che gli avversari recuperino il fiato. La palla gira come nel primo quarto e i tiri entrano, con freddezza, mentre gli ospiti insistono su penetrazioni frettolose e prevedibili. Boston ha più forza nelle gambe e più voglia di vincere questa partita.
L’immagine dell’ultimo quarto è una sola, due gli eroi: Marcus Smart e Isaiah Thomas che da un lato stoppano i lunghi in maglia Hawks, dall’altro sono baciati dagli dei del basket con triple spericolate. È la fortuna che aiuta gli audaci e aiuta anche noi, regalandoci almeno altre due partite di una serie che, finalmente, è entrata nel vivo.
Budenholzer sarà severo coi suoi in vista di domenica, ma ha di che leccarsi i baffi. Un Jeff Teague sugli scudi e un Kent Bazemore in fiducia, che se chiamato in causa offre il suo contributo in attacco. Una difesa che continua a non mostrare punti deboli, ma che dovrà aggiornarsi e limitare i cali di tensione. L’apatia di Paul Millsap inizia tuttavia a preoccupare e coach Bud dovrà anche ricordare ai suoi esterni di rifornire più spesso Al Horford; metterlo in ritmo, come si è visto in gara 1 e 2, è essenziale.
In casa Boston, il tema principale sarà mantenere alta la concentrazione per il prossimo match. Compito non facile, vista la quantità di energie spese la notte scorsa.
Brad Stevens ha fatto le ore piccole sulla lavagnetta con risultati apprezzabili, anche nei dettagli (tantissime le finte di tiro, ad esempio, per sbilanciare la difesa in ogni modo possibile), ma l’impressione rimane quella che gli Hawks siano talmente forti fisicamente, esperti e ben organizzati da uscire vincitori anche quando non giocano al meglio. Un lusso che Boston non sembra potersi concedere.
L’equilibrio si regge su una linea sottile; gara 3, intanto, è stata la più bella della serie e una delle più avvincenti degli attuali playoff per qualità di gioco, con un paio di scontri old school a scaldare gli animi.
Scrittore e giornalista in erba – nel senso che la mia carriera è fumosa -, seguo la NBA dall’ultimo All Star Game di Michael Jordan. Ci ho messo lo stesso tempo a imparare metà delle regole del football.