L’evoluzione moderna del basket ha cambiato radicalmente il gioco più bello del mondo, e a farne le spese, è stato uno degli elementi più caratterizzanti della pallacanestro, cioè la compartimentazione dei ruoli secondo caratteristiche tecniche, e soprattutto fisiche.

In fondo, i cinque ruoli classici, sono numerati per altezza e stazza: dal più smilzo in posizione “1”, fino al più alto e potente, il “5”. Per decenni, il basket è stato uno sport di accoppiamenti, nel quale vinceva la squadra con il maggior numero di miss-match favorevoli, in una logica di duelli individuali.

La rivoluzione incarnata da Steph Curry e soci si è palesata quasi all’improvviso, ma i presupposti che l’hanno resa possibile affondano le radici venti o trent’anni fa.

Il tiro da tre (stagione 1979-80), i miglioramenti atletici dei giocatori (un crescendo che affonda le radici dalla metà degli anni ottanta), l’hand-checking (2004) e infine, l’introduzione a livello NBA della zone-defense (2001-02).

La minore staticità del gioco ha tolto importanza alla difesa in single-coverage, privilegiando il dinamismo sulla stazza, rendendo obsoleti i lunghi classici (alla Roy Hibbert, per intenderci) e incoraggiando l’uso di rim-protectors dotati di grande mobilità e capaci di finire il pick-and-roll, come DeAndre Jordan.

Quest’evoluzione rappresenta certamente una perdita, perché si è smarrita una scuola di basket, ma ogni cambiamento reca un’opportunità, e ci consente di assistere a un basket molto più corale rispetto a tre lustri orsono, quando bastava isolare Jerry Stackhouse o Latrell Sprewell su un quarto di campo, et voilà, ecco confezionato un “attacco NBA”.

Siamo tornati a vedere una pallacanestro più simile a quella degli anni ottanta, quando si fermava meno il pallone, ma questa volta in versione molto più dinamica, e con qualità balistiche che nei ruggenti eighties pochi si potevano sognare, tranne qualche raro precursore, tipo Norm Nixon.

Nel basket odierno, i ruoli hanno perso importanza a vantaggio della velocità d’esecuzione, e così può capitare che un Giannis Antetokounmpo sia il playmaker de facto di Milwaukee, o che il rimbalzista più aggressivo di Oklahoma City risponda al nome di Russell Westbrook, dal basso dei suoi non irresistibili 191 centimetri.

È questione d’approccio; negli anni novanta, ci si sarebbe fatti mille problemi su come etichettare Antetokounmpo, mentre oggi, i Bucks gli chiedono di fare quel che sa, e basta, proprio come succede a Oakland con Draymond Green, che si è impadronito dello spot di “4” combinando velocità e potenza.

Trent’anni fa Pat Riley sfruttava le doti di Magic Johnson per alzare il quintetto, schierandolo da playmaker, mentre oggi probabilmente si andrebbe nella direzione opposta, usandolo come (sublime) regista in attacco, e da ala piccola o addirittura da power forward in difesa, per aggiungere al backcourt un tiratore o comunque un giocatore rapido.

Se un tempo i ‘tweener erano visti con sospetto, oggi mixare caratteristiche di due ruoli è un vantaggio, e i combo-players diventano un valore aggiunto anziché un limite, come si riteneva ancora 15 anni fa, quando l’etichetta di “guardia sottodimensionata”, poteva tranquillamente costare una ventina di posizioni al draft, e ci si domandava se Robert Horry avesse abbastanza muscoli per giocare da “4”.

Chauncey Billups languì per anni in panchina prima di incontrare Rick Carlisle e Joe Dumars, che gli consegnarono le chiavi dei Detroit Pistons, aprendo la strada alle combo-guard odierne, da John Wall a Kyle Lowry, su su fino al migliore di tutti, Steph Curry, che ha certamente letture e trattamento di palla da playmaker, ma è innegabilmente dotato di istinti da attaccante puro.

Billups diventò MVP delle Finals 2004 facendo a pezzi Gary Payton e segnando un cambio culturale per certi versi era stato anticipato da Mike Bibby a Sacramento.

Le buone spaziature offensive dipendono in larga parte dal numero di tiratori schierati, e così l’evoluzione della specie ha incoraggiato i giovani playmaker ad apprendere e perfezionare la lezione di Chauncey, oppure quella di Steve Nash: entrambi erano capaci di dirigere le operazioni, sì, ma anche di essere costantemente pericolosi al tiro.

I compiti di costruzione del gioco sono diventati corali, e in questo è stato un precursore Phil Jackson, che, tolto B.J. Armstrong, non ha mai voluto o avuto bisogno di un “regista” da affiancare a Michael Jordan prima, e a Kobe Bryant poi, delegando loro (oppure ai vari Lamar Odom e Scottie Pippen) il compito di far girare l’attacco triangolo, che richiede cinque teste pensanti, e non quattro specialisti e una stella.

Giocare con un passatore e un tiratore designato non è mai stata una grande idea, ma oggi è diventato del tutto impossibile: tutti devono, in qualche misura, saper fare tutto, e così capita che sia J.J. Redick a costruire il tiro per Chris Paul, anziché sempre e solo il contrario. Lo specialista puro ha ancora cittadinanza, ma è relegato ai margini, con minutaggio comunemente ridotto ai minimi termini.

Non è solo questione di tiro: oggi paga di più attirare il raddoppio andando dentro con la moto e poi scaricare, come fa John Wall, che non trattare la palla sul perimetro, come faceva Mark Jackson, e palleggiare per sei secondi chiamando un attacco “Horn”. Sono cambiate le regole e i fisici dei giocatori, e ciò che funzionava in regime di “illegal defense” oggi non sortisce i medesimi effetti.

Nel 2011, J.J. Barea aprì in due la difesa dei Lakers campioni in carica giocando esattamente questo tipo di basket in uscita dalla panchina, e Derrick Rose, ad un livello decisamente più alto, vinse un MVP con un basket concettualmente simile (ovviamente con più qualità), fatto di giocate di rottura in penetra-e-scarica.

La point-guard moderna è un realizzatore dinamico, che costruisce opportunità per i compagni andando in penetrazione, muovendo la difesa, e pescando l’uomo libero sul perimetro (o il roller/popper in situazione di pick-and-roll), e per questo motivo, è stato possibile ri-adattare al ruolo guardie sottodimensionate come Monta Ellis, Reggie Jackson o Patty Mills.

Ricky Rubio e Rajon Rondo, che non sono realizzatori naturali e palleggiano molto, non riescono a essere condizionanti per le difese avversarie. Eppure sono eccellenti playmaker, di sicuro superiori a Kemba Walker o Westbrook, che però hanno più impatto, perché contribuiscono a muovere le difese aggredendole in velocità.

Il vero grande innovatore è stato ovviamente Steve Nash, immerso in quel sistema dantoniano dal quale Kerr, Popovich e Budenholzer hanno attinto a piene mani. Dalla fine dell’hand-checking legale sul perimetro (2004) la fisicità si è abbassata, e Nash ne ha beneficiato più di chiunque altro, conquistando due titoli di MVP.

Il suo gioco, fatto di passaggi dal palleggio (come faceva John Stockton), e pick-and-roll, è diventato il tema al quale si sono ispirati in tanti, a partire da Steph Curry, che ha elevato un’arte che pareva già perfetta a nuovi orizzonti di grandezza. Anche giocatori più “normali”, come Jeff Teague, imitano le mosse di Nash, e star di livello assoluto, come Chris Paul, l’hanno studiato a lungo in videotape.

L’NBA è diventata una “point-guard’s league”, ciascuna con le proprie peculiarità, chi più tiratore (Lillard) chi più regista classico (Paul), ma in ogni caso, capace di spostare le difese, di costringerle a chiudersi e ed aprirsi più volte, fino a trovare un varco o un uomo libero, e per far questo, serve essere sempre pericolosi e mai battezzabili.

Così, da Brandon Jennins a Dennis Schroder, da Isaiah Thomas a Mike Conley, ci sono tanti modi di interpretare il ruolo di point-guard in senso moderno, per non parlare di quelle star che non sono registi in senso proprio (ricordate Kobe e MJ?) ma che svolgono un ruolo equivalente, come LeBron James oppure James Harden.

Proprio il Barba ci consente di estendere la nostra disamina ad un altro aspetto interessante: indipendentemente da come gioca un regista, non si può avere una sola fonte di gioco in campo. Morey ha costruito Houston in modo unidirezionale, cioè con Harden che inizia l’azione, e costruisce le conclusioni dei vari Brewer (quest’anno disastroso), Ariza e compagnia.

In questo modo, basta contenere Harden (impresa non facilissima, ma nemmeno impossibile) per battere i Rockets, e lo stesso discorso si può fare, a livello più alto, per altre squadre compartimentate tra “tiratori” e “passatori”, come OKC (che dipendono in tutto e per tutto da Westbrook e Durant) e Cleveland (dove LBJ ha impostato un discorso tecnico molto più rozzo rispetto a quello, eccezionale, che lo vide protagonista in Florida).

Warriors, Spurs – e in fondo anche Clippers – cercano invece di diversificare il proprio gioco, pur avendo a disposizione tre eccellenti trattatori di palla come Tony Parker (mai in carriera è stato efficiente come quest’anno), Curry e Paul, e anche gli Utah Jazz, vent’anni fa, vivevano del dialogo tra John Stockton, Karl Malone e Jeff Hornacek.

Torniamo così al nostro tema originario: oggi il ruolo di regista classico va necessariamente integrato con altre qualità, su tutte tiro e atletismo, ma soprattutto, non si deve incorrere nell’errore –speculare a quello degli allenatori che si adagiavano sugli attacchi ISO – di consegnar palla ad un playmaker e costruire un sistema senza alternative.

Se il gioco NBA ha una costante, è che vincono le squadre complete, capaci di adattarsi alle circostanze. Durante le scorse Finals, Matthew Della Vedova fu eroico su Curry e Klay Thompson non giocò bene, ma i Warriors vinsero ugualmente perché tolte due fonti di gioco, avevano comunque in campo tante teste pensanti (Iguodala, Livingston, Green) e non solo specialisti.

Insomma, è vero, playmaker e point-guard non sono più sinonimi, ma oggi assistiamo ad un basket orientato verso squadre con cinque atleti capaci di prendere la decisione giusta per arrivare al tiro “ottimo”, come dice Alvin Gentry, il che, di fatto, significa che tutti i giocatori dovranno diventare un po’ registi.

Senza voler essere blasfemi, è qualcosa di simile a quanto avvenuto nel calcio degli anni ’70, quando l’Olanda del recentemente scomparso Johan Crujiff si inventò il calcio totale.

È molto probabile che il basket del futuro andrà in direzione di una ancor minore specializzazione, così da avere in campo non gente che sa fare una o due cose benissimo, ma “giocatori totali”, capaci di fare tutto discretamente.

4 thoughts on “Point Guard e Playmaker: è ancora la stessa cosa?

  1. bel articolo Francesco!
    Peccato solo per la conclusione. Oggi assistiamo proprio al contrario: giocatori che sanno fare tante cose in maniera eccellente.
    Prendi GS:
    – Curry: ball-handling, passaggio e tiro da tre stupefacenti.
    – Thompson: tiro da tre e catch and shoot tra i migliori di sempre, ottimo difensore.
    – Green: eccellente difensore e passatore, buon tiratore da tre.

  2. Ti ringrazio!
    Diciamo però che negli anni ’60, non tutti i play erano Bob Cousy, e non tutte le guardie Jerry West. Allo stesso modo, il trio di Golden State è la miglior declinazione del basket odierno, e non quella media, tutto qui!

  3. Bellissimo articolo! Penso a quanto siano stati precursori Stockton e Hornacek e quanto potevano essere più forti con la regola sull’hand-checking..

  4. ottimo articolo. fotografato l’evoluzione che sta investendo la lega della palla a spicchi.
    i Warriors hanno creato un nuovo modo di intendere il basket come a sua tempo fecero altre franchige, tipo i lakers di Magic e Jabbar e il fantastico swohtime

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