Abbarbicato com’è nell’estremo North West americano, l’Oregon vive il proprio isolamento come un’opportunità: fuori mano rispetto alle classiche rotte turistiche e industriali, privo di grande esposizione mediatica, lo Stato che “vola con le proprie ali” costituisce un ecosistema indipendente e anticonformista rispetto al resto dell’Unione.
Per secoli ci abitarono indisturbati i pellirosse Chinook, ma ad inizio ‘800, l’apertura dell’Oregon Trail popolò di visi pallidi la Willamette Valley. I primi occidentali a stabilirsi lì furono i cacciatori di pellicce (i famosi trappers), poi arrivarono le carovane e l’Oregon si “civilizzò”, mentre i nativi venivano cacciati o morivano per le epidemie.
I nuovi arrivati costruirono una stazione di transito a metà strada tra Fort Vancouver e Oregon City, e, senza sforzarsi troppo, presero a chiamarla “la radura“. La terra apparteneva a due signori con il pallino degli affari e la passione per l’avventura: Mr. Pettygrove, nativo di Boston, Massachusetts e Mr. Lovejoy, che invece era venuto al mondo a Portland, Maine.
Sia Pettygrove che Lovejoy desideravano ribattezzare il borgo come le rispettive città natali, e, non riuscendo a mettersi d’accordo, risolsero la faccenda lanciando una moneta (tuttora conservata della Oregon Historical Society). A prevalere fu il signor Francis W. Pettygrove: la radura diventò Portland.
Come avevano previsto i due investitori, Portland crebbe rapidamente, sfruttando la propria posizione, incastonata tra le fertili valli alle sue spalle e l’affaccio sull’oceano Pacifico.
Come tante città portuali, anche la città delle rose non tardò a farsi una nomea poco raccomandabile, rifugio di gente che si nascondeva dalla legge, cercatori d’oro e spiantati assortiti. Dopo la seconda guerra mondiale, Portland triplicò le proprie dimensioni, e negli anni ’50, era diventata famosa per il contrabbando e la criminalità organizzata.
Le cose però presero una piega inaspettata negli anni ’60, quando in città arrivarono gli Hippie e la losca, sonnolenta Portland diventò una capitale della controcultura. In tempi più recenti, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, Rip City ha conosciuto un nuovo boom, sulla scorta del settore informatico, oltre a quello delle calzature sportive (le due principali firme mondiali hanno qui la loro sede USA).
Portland è la seconda città d’America per livello d’istruzione dei suoi residenti, un covo di alternativi bianchi che tengono all’ambiente, girano in bicicletta (sarà un caso se sono gemellati con Bologna?) e, come dice uno slogan cittadino, contribuiscono a “mantenere strana Portland”.
La controcultura ha attecchito anche in campo artistico: Portland è una fucina di talenti musicali: dai Kingsmen all’indimenticabile Elliot Smith, fino alla jazzista Esperanza Spalding (vista di recente anche in Italia).
Da bravi anticonformisti, i residenti hanno scoraggiato le manovre di MLB, NHL e NFL (tutte interessate ad aprir bottega in Oregon) facendole puntualmente arenare contro il proverbiale referendum popolare sulla tassa per costruire l’impianto sportivo (in America si fa quasi sempre così: il palazzetto viene in parte finanziato dai contribuenti, che giustamente hanno diritto di decidere come vengono spesi i loro dollari).
L’unica eccezione sono gli amatissimi Trail Blazers, campioni NBA nel 1977, che giocano in una delle arene più calde di tutta la lega: il Moda Center (ma ci piace ricordare il bellissimo nome con il quale era conosciuta un tempo: Rose Garden).
Quella dei Blazers (il nome evoca proprio le carovane e gli esploratori di cui parlavamo) è la storia di una grande passione sportiva vessata dagli infortuni; dagli acciacchi che dimezzarono la carriera dell’indiscussa bandiera della franchigia, Bill Walton, fino ai più recenti, patiti da Greg Oden e Brandon Roy, e senza dimenticare Sam Bowie, l’uomo scelto con la seconda chiamata del draft ’84, subito prima di una guardia da North Carolina, tale Mike Jordan.
Nonostante la fortuna non abbia mai avuto riguardi per la franchigia di Paul Allen (co-fondatore di Microsoft) i Trail Blazers vantano comunque un ruolino di tutto rispetto, come dimostrano il numero di Postseason conquistate dal 1970 a oggi (solo Lakers e Spurs hanno fatto meglio), i 4 Rookie of the Year, un MVP, sei Hall of Famer, e due Coach of The Year.
La tendenza si era invertita sulla scorta del binomio Aldridge-Lillard, ma gli infortuni dell’anno scorso e la frustrazione per l’ennesima stagione promettente finita su un binario morto, hanno contribuito a convincere LaMarcus ad accasarsi in Texas, riportando i Blazers all’età della pietra.
O almeno, così sembrava.
Con un roster spolpato all’osso dalle partenze di Aldridge, Wes Matthews, Robin Lopez (che, complici zazzera e atteggiamento, tanto piaceva al pubblico) e Arron Afflalo, il GM Neil Olshey ha scelto la linea giovane, ripartendo da giocatori poco costosi, con cui provare a impostare un nuovo ciclo.
Salutato anche Nicolas Batum (in cambio, Olshey ha ottenuto Noah Vonleh), i Blazers si sono presentati con un nugolo di giocatori poco conosciuti a far da contorno al go-to-guy, Damian Lillard, che i più immaginavano nel ruolo di unica nota lieta in una stagione a base di sconfitte.
In realtà i vari McCollum, Aminu, Crabbe, Ed Davis, Plumlee, si sono dimostrati molto più pronti e combattivi del previsto, magnificando il sistema di coach Terry Stotts, un impianto offensivo che premia il movimento di palla e l’altruismo, e che è molto meno legato al talento degli interpreti rispetto al normale playbook di una squadra NBA.
Portland non è altrettanto raffinata in difesa (e in questo, da il cattivo esempio proprio Lillard), ma viste le premesse, per il momento ci si può accontentare di una squadra che esegue bene, e che ha dimostrato carattere, anziché limitarsi a barcamenare in qualche modo fino ad aprile.
Mentre scrivo, i Blazers sono 33-31 e hanno una lunghezza e mezza di vantaggio sull’ottava piazza a ovest, occupata da Houston, ed è facile intravedere tutte le contraddizioni del basket e della NBA nel microcosmo composto da queste due squadre.
I Rockets hanno iniziato la stagione immaginandosi in competizione con Warriors, Spurs e Cavs; hanno due stelle, un cast di supporto talentuoso, e sono reduci dalle Finali di Conference. La chimica di squadra però fa tutta la differenza del mondo; così Portland e Houston, che al training camp sembravano distantissime, si trovano a battagliare spalla a spalla con Utah e Dallas per due posti nella griglia Playoffs, una da overachiever, l’altra, da clamorosa delusione.
Posto che sia Damian Lillard che James Harden difendono sui talloni (il lavoro di Dame con il suo concittadino Gary Payton fin qui non ha sortito effetti visibili), la differenza la fa la qualità dell’esecuzione, l’esser “tutti sulla stessa pagina”, e la comunione d’intenti verso un traguardo comune, cose che l’anno scorso Houston aveva, e quest’anno non più.
Olshey ha fornito all’eccellente Terry Stotts (e al suo assistente David Vanterpool) una masnada di ragazzi in cerca di rivalsa, da Gerald Henderson a Mo Harkless; per mezzo del sistema di gioco, ha consentito loro di incanalare la voglia di riscatto in un progetto collettivo, innescando un circuito virtuoso.
Tutto questo non sarebbe stato forse possibile senza un leader d’eccezione come l’ex Weber State, uno che sin dal primo giorno si è preso le proprie responsabilità senza rubar spazio a LaMarcus Aldridge, e anzi, consentendogli di collocarsi sulla Guida Michelin delle PF a cinque stelle.
Lillard non è il genere di giocatore che conteggia i propri “tocchi” –lo ricorda anche il suo allenatore a Ogden, Randy Rahe– ed è per questo motivo che i Trail Blazers l’hanno scelto come pietra angolare dell’intero edificio tecnico che stanno costruendo.
Con 25.8 punti, 4.2 rimbalzi e 6.9 assist (career high), Lillard guida il gruppo, prende 4 tiri in più rispetto alla scorsa stagione, ma non tiene in scatto tecnico lo staff e i compagni, privilegiando un approccio coinvolgente che sta pagando dividendi in termini di risultati.
“Dame” assiste solo il 33% dei canestri dei compagni (contro il 47% di Chris Paul, il 46% di Westbrook e il 44% di John Wall); in altri tempi, avremmo parlato di numeri insufficienti per un playmaker, ma ci sembra che, ai giorni nostri, certe cifre siano dopate dal penetra-e-scarica delle combo-guard, il che si traduce in tanti assist con pochi passaggi, e quindi attacchi che anziché tendere all’entropia, risultano prevedibili nella loro meccanica ripetitività.
Lillard è più realizzatore che passatore (appena 2.16 la proporzione assist/turnover, e ben 3.2 palle perse ad allacciata), e quindi cavalcarlo eccessivamente in questa veste equivarrebbe a gonfiare la sua linea statistica, senza reali benefici al gioco della squadra, che invece gioca con la grinta del gruppo in cui tutti sanno di essere importanti.
Non è arrivata la chiamata all’All Star Game (“altra legna per il fuoco”, il suo laconico commento, e non sono chiacchiere: dopo la pausa sta viaggiando a 33.6 punti di media), ma in compenso Mike Krzyzewski l’ha aggiunto alla rosa di papabili per le Olimpiadi, e lo stile di gioco inclusivo ha consentito a C.J. McCollum di esplodere sfruttando gli spazi che il suo compagno di reparto gli spalanca.
Al terzo anno di professionismo, l’uomo da Lehigh è passato dal disputare 3 partite come starter in due stagioni, ad essere un titolare inamovibile, e i suoi numeri si sono impennati: da 1.5 a 3.5 rimbalzi, da 1.0 assist a 4.2, migliorando leggermente le percentuali al tiro (44.5% e 41.0% da tre).
Quando si passa da 15 minuti d’impiego a 35 è scontato incrementare il fatturato, ma fare il salto da 6.8 punti di media a 20.9, migliorando al contempo le proprie percentuali, non è affatto automatico, e non è risultato figlio solo del minutaggio, quanto di serio e oscuro lavoro con gli allenatori.
C.J. McCollum ha approfittato di due anni d’apprendistato alle spalle di un maestro come Wesley Matthews (e per pochi mesi anche Afflalo), arrivando pronto all’appuntamento con le luci della ribalta, trasformandosi nell’uomo-barometro dei Blazers: quando vincono, lui tira con il 47% dal campo, e quando perdono, con il 40%.
Per stazza (6’4’’ McCollum, 6’3’’ il californiano), velocità, età e caratteristiche, Portland ha trovato la giusta chimica nel settore guardie, confortati anche dalla presenza di un cambio come Allen Crabbe, che in 26 minuti d’impiego, completa il reparto e, a 10.5 punti di media, è il terzo realizzatore del roster.
Portland è lungi dalla perfezione, e anche se il nucleo è molto giovane, ci sono dei difetti che non scompariranno con l’aumentare dell’esperienza; ci riferiamo, ovviamente, alla difesa e alla dipendenza dagli esterni (in questo senso, forse Anderson Varejao è stato tagliato con troppa fretta).
Di recente i Celtics di Brad Stevens li hanno esposti impietosamente, correndo il più possibile a ogni rimbalzo catturato, e bagnando le polveri alle guardie con una difesa asfissiante, che si è tradotta in palle perse, brutti tiri, e, in ultima istanza, in una sconfitta.
Quest’estate, complici le scadenze di Henderson, Kaman, Meyers Leonard, Harkless, Brian Roberts, e Crabbe, e nonostante lo scattare del nuovo contratto di Lillard (21 milioni al primo anno), Neil Olshey avrà margine per operare, ma è meglio non fare voli pindarici.
Portland è costantemente nella top-10 delle città in cui gli americani vorrebbero vivere, ma non è una destinazione ambita a livello NBA, perché la base di fans è forte, però è quasi solo locale, e l’Oregon non è certo la California o il Texas; quindi difficilmente arriverà un giocatore di grande nome.
Con un salary cap che dovrebbe aggirarsi attorno agli 89 milioni, Portland si trova in una buona situazione economica, avendo un monte salariale ridotto a 56 milioni (dati Basketball Reference). Ri-firmeranno Crabbe, e, secondo quanto risulta, anche Harkless e Leonard, ma Olshey avrà ugualmente margine sufficiente per mettere a contratto il pezzo del puzzle che ancora manca.
Scartando immediatamente le carte più nobili del mazzo (Durant, DeRozan, Rondo, Whiteside, Conley, Pau Gasol, Horford), rimangono molti buoni giocatori di sistema che potrebbero far fare il salto di qualità a questa franchigia. Da un possibile cavallo di ritorno come Nicolas Batum, a Ryan Anderson, senza dimenticare Noah, Turner, Bazemore, Courtney Lee, i nomi e le opportunità non mancheranno, l’importante è avere le idee chiare.
Certo, capita di fermarsi un istante, e ricordare quant’era plastico il rilascio di LMA dal gomito, o come sarebbe andata se Oden e Roy non si fossero rotti, ma i Blazers, tenendo fede al proprio nome, guardano a nuovi orizzonti, confortati da 18 vittorie nelle ultime 25 partite.
Che arrivino i Playoffs oppure no, i Trail Blazers hanno trovato la loro strada.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.