Hassan Niam Whiteside è un atleta indecifrabile; il figlio di Hasson Arbubakrr (defensive end in NFL nei primi anni ottanta) è spuntato dal nulla dopo un anno di college a Marshall e due anni incolori a Sacramento, la D-League –e fin qui va bene– ma poi anche la serie A libanese, Tripoli (dove la security del club usava gli AK47) e il Jin Qiang Sichaun (Repubblica Popolare Cinese).
Non è il classico percorso del pivot che riscrive i record di franchigia per stoppate e rimbalzi, e per questo motivo Pat Riley osserva con apprensione ogni sua mossa e frase, cercando di capire se avrà senso svenarsi per ri-firmarlo nel corso della free-agency estiva.
A 981.348 dollari, tutto quel che Hassan fa di buono è un regalo piovuto dal cielo; quando però sarà destinatario d’ingenti investimenti, la percezione di certi difetti s’ingigantirà, così come le attese nei suoi confronti.
Uno scout NBA di lungo corso ci disse una volta che firmare il primo contratto ad alte cifre è sempre un salto nel vuoto; a volte cambia i giocatori in modi inattesi, e che per questo, va ponderato il più possibile.
A dispetto del modo di fare fanciullesco, Hassan WHiteside possiede innegabili qualità; la sfida è stabilire –oggi– che giocatore diventerà quando non scenderà più in campo al minimo salariale, ma a cifre che si aggireranno attorno ai 20 milioni a stagione. Diventerà un professionista più rigoroso, rinfrancato dalla fiducia nei suoi confronti, o diverrà ingestibile?
Rispetto ad altri eventuali corteggiatori, Miami vede Hassan in azione ogni giorno (affiancato Juwan Howard come tutor), e quindi Riley ha un enorme vantaggio informativo rispetto ai GM concorrenti; il problema è che quasi certamente, con tanti soldi da spendere e pochissimi grandi nomi, Whiteside troverà qualcuno disposto a strapagarlo al buio.
Dopo un infortunio patito lo scorso mese, Erik Spoelstra gli ha momentaneamente tolto il quintetto promuovendo Amar’e Stoudemire, che, in realtà, gioca solo una manciata di minuti. Il messaggio è chiaramente diretto a Whiteside: certi atteggiamenti alla corte di Spoelstra e Wade non passano; ci vuole più modestia, specialmente quando c’è in gioco l’accesso ai Playoffs.
I risultati non hanno tardato ad arrivare: contro i Wizards Hassan ha piazzato una partita da 20-20 uscendo dal pino (l’unico altro giocatore in attività a esserci riuscito, è Kevin Love), ma il problema è sempre il solito, come rileva Spoelstra: “Questo allora vuol dire che dovrà fare 20 e 20 anche nella prossima partita? No, non è questo che ci serve, non sono le statistiche, quanto l’approccio”.
In NBA il foglio delle statistiche è l’inseparabile compagno dei giocatori NBA; è la prima valutazione delle prestazioni, e in base alla stat-line ci si guadagna minuti, visibilità e contratti, ma questo genera una distorsione che premia gli atleti più per le cifre che per il basket vero e proprio, e in questo aiutano le statistiche avanzate, che rivelano qualche limite nel gioco del centro nativo di Gastonia.
La “linea statistica” parla sempre a favore di Whiteside (oddio… quasi sempre: assiste appena l’1.9% dei canestri dei compagni!), tanto che, dalla retrocessione in panca, la sua efficienza è aumentata. Otto partite non sono un campione indicativo, ma pur vedendo meno il campo, ha numeri addirittura migliori: più punti, rimbalzi, e addirittura anche più stoppate, sfruttando qualche minuto in più contro la second-unit avversaria.
Il record di squadra è un 4-4 che non consente di trarre conclusioni (manca Bosh, che potrebbe aver chiuso qui la stagione), perché le sconfitte sono arrivate contro le blasonate Warriors, Spurs e Clippers (oltre che contro i Boston Celtics, fuggiti nel quarto periodo) a fronte di vittorie contro Charlotte, Indiana, Dallas e Washington.
Hassan (12.8 punti, 11.4 rimbalzi e 3.9 stoppate ad allacciata, in appena 28.6 minuti d’impiego) è coordinato, veloce, non ha problemi fisici e ha discrete mani, ma la scelta del coaching staff di alternare bastone e carota non dice nulla di buono sulla sua capacità di autogestirsi o di capire quando si può fare spettacolo, mostrare i muscoli o andare sopra le righe, e quando invece è il momento di restare concentrati.
In fondo, può apparire strano farsi tutti questi problemi per uno che ha la seconda miglior percentuale dal campo della NBA (e un repertorio di soluzioni molto più vasto di DeAndre Jordan, Dwight Howard o Andre Drummond), che intimidisce i penetratori, e interrompe tonnellate di possessi avversari grazie ai rimbalzi che agguanta, ma ricordate cosa dicevamo all’inizio?
Firmare il contrattone cambia tante prospettive, e con esse, l’atteggiamento di alcuni atleti. Il dilemma di Miami è tutto qui, ed è determinato dal modo di fare un po’ da bamboccione di Hassan Whiteside, e da una nomea da “jackass” (testuale, secondo le dichiarazioni di varie “league sources”) che pare lo segua da qualche tempo, cioè di una persona non particolarmente astuta, per giunta munita di un senso dell’ego alquanto inflato.
Hassan ha dovuto toccare il fondo con le sue esperienze in Medioriente e Maghreb, per rendersi conto di quanta distanza ci fosse tra l’opinione che aveva sul proprio valore e la realtà. Realizzato l’errore, Whiteside ha lavorato duramente per rientrare nel giro NBA, e da allora non si è più fermato, ma cosa succederà quando otterrà un contratto? Continuerà a lavorare, o deciderà (anche inconsciamente) d’essere arrivato?
E poi ci sono il pubblico e i media; con lo stipendio attuale nessuno si sogna di criticarlo più di tanto: è retribuito pochissimo (per i canoni NBA, ça va san dire), ed è un beniamino del pubblico, una manna insperata per una squadra che dopo l’addio di LBJ aveva bisogno di ripartire in fretta. Questa però è una prospettiva destinata a cambiare rapidamente quando Hassan diventerà uno dei giocatori più pagati della squadra, se non il più pagato in assoluto.
Come reagirà alle critiche che inevitabilmente gli pioveranno addosso quando i giornalisti e il pubblico dell’American Airlines pretenderanno da lui un approccio da leader, e non da irriverente mascotte?
Difficilmente Hassan imploderà, come Eric Dampier, perché non è un miracolato dal sistema o il classico atleta che si spreme in contract-year, tantomeno ci sembra un Larry Sanders, che ha preferito lasciare sul tavolo 27 milioni e farla finita con la celebrità imposta dal proscenio della National Basketball Association, e non è neppure un Michael Olowokandi, al quale il basket interessava il giusto, avendo mille altri interessi.
Siamo abbastanza fiduciosi che l’impatto di Whiteside rimarrà costante, ma questo tipo di produzione è sufficiente a giustificare un max contract, non tanto dal punto di vista del marketing e delle logiche di business, quanto dall’unica prospettiva che interessa Riley, e cioé, costruire da titolo?
Pat Riley ha molto su cui riflettere, a partire dalle condizioni fisiche di Chris Bosh, ma la nostra sensazione è che Miami potrebbe puntare rapidamente a Kevin Durant, nel tentativo di formare una nuova versione dei big three, e se la sortita con KD non avrà immediatamente successo, offrire tutto l’oro del mondo ad Hassan Whiteside.
Comunque vada a finire, sarà l’ennesima estate calda a South Beach, un’estate che potrebbe riconsegnarci dei Miami Heat in prima fila per il Larry O’Brien Trophy!
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.