Gary Vitti è un viso familiare per tantissimi appassionati di basket in giro per il mondo; è Athletic Trainer dei Los Angeles Lakers da trentadue anni (Regular Season 1984-85; Gary ha passato con i Lakers più di metà della sua vita, vincendo ben otto anelli, e prendendo parte a dodici Finals NBA), lavorando gomito a gomito con Pat Riley e Phil Jackson, Kobe Bryant, Magic Johnson, Shaquille O’Neal e Kareem Abdul-Jabbar.
Gary, restare in sella così a lungo in NBA è cosa rara; com’è iniziata quest’avventura? Come sei passato da insegnante (presso le università di Utah e Portland) agli Utah Jazz, e poi ai Lakers?
Nel 1979 I New Orleans Jazz si spostarono a Salt Lake City. All’epoca, io stavo facendo la specializzazione presso l’università di Utah, e i Jazz, che erano in cerca di un aiuto part-time, chiamarono l’Università, che mi raccomandò loro. A quel punto il mio nome iniziò a circolare in giro per la Lega, e così, nel 1984, quando si liberò un posto con i Lakers, l’assistente Bill Bertka mi caldeggiò, e sono rimasto qui in California sin da allora.
Sei stato coinvolto attivamente nello sviluppo della nuova struttura di allenamento della franchigia, che aprirà I battenti in un paio d’anni. Cosa ci puoi anticipare, al riguardo?
Posso dirti fin d’ora che sarà una struttura allo stato dell’arte, con tutte le ultime novità tecnologiche, e ti dirò di più, non è una “facility” progettata solo per le risorse attualmente disponibili, ma con lo sguardo già rivolto agli sviluppi futuri della scienza medica, così da essere non solo competitiva con le migliori strutture di altre squadre, ma all’avanguardia.
La tecnologia è ormai parte del bagaglio di un Athletic Trainer, ma, nello specifico, a cosa è rivolta la tecnologia che adoperate nel vostro mestiere?
In questo periodo, la grande novità sono i modelli 3D; usiamo questo tipo di strumenti, uniti a sensori tecnologici per “mappare” i giocatori, così da poter identificare fattori che predispongono i nostri giocatori al rischio d’infortuni.
Sembra quasi che ogni generazione di giocatori sia più veloce e atletica di quella che l’ha preceduta. Come succede? C’entra qualcosa l’allenamento, i miglioramenti nelle scienze della nutrizione, o entrambi I fattori combinati?
E’ un insieme di cose che va dalla tipologia di allenamento, al modo in cui i giocatori si alimentano, e in più, aggiungo io, c’è un fattore genetico.
Anche i corpi dei giocatori NBA hanno dei limiti. Il gioco odierno impone loro di andare “a tutta” e poi fermarsi all’improvviso (per evitare il fallo oppure per evitare lo sfondamento), sottoponendo il loro corpo ad immenso stress. C’è un legame tra questo modo di giocare e il numero e tipo d’infortuni cui assistiamo? O forse vanno ricollegati a troppo basket AAU?
La NBA sta faticando molto per trovare una risposta alla domanda che mi poni, e ci potrebbero volere degli studi più longitudinali, che prendano in considerazione un campione ragguardevole d’individui per un intervallo più lungo, per capire veramente chi s’infortuna e per quali motivi.
Da un punto di vista clinico, penso che questa situazione sia parzialmente dovuta alla velocità del gioco, unita al fatto che sappiamo ormai con certezza che i movimenti ridondanti causano una compensazione, che la compensazione causa disfunzionalità.
Quando un atleta si stanca, torna alla propria posizione “standard”, e questo lo rende suscettibile agli infortuni.
Molti giocatori NBA restano in campo a dispetto degli infortuni, e tu, negli ultimi vent’anni, hai lavorato con il più celebrato campione del “play on” (Kobe, ovviamente). Cosa ne pensi? Qual è il confine tra essere “duri” ed essere sciocchi?
Tutto quel che facciamo ruota attorno al rapporto tra rischi e benefici. Se il rischio di peggiorare la situazione dell’infortunio supera il beneficio di giocarci sopra, ma scendi in campo ugualmente, allora ti stai comportando scioccamente.
Hai allenato gente come Kobe, A.C. Green, Michael Cooper, Kareem (che faceva yoga anche quando non era di gran moda). Qual è il giocatore più dedito all’allenamento che tu abbia mai avuto?
Sicuramente Kobe Bryant.
Pat Riley è un’icona degli anni ’80, ed è famoso per la tempra, oltre che per uno stile d’allenamento assai severo. Phil Jackson, al contrario, ha coltivato un’immagine molto zen. Com’erano, visti da vicino?
Sia Riley che Jackson erano allenatori dediti anima e corpo a lavorare duramente, oltre ad essere due persone dotate di grande disciplina e intelligenza.
Ogni titolo NBA è speciale, ma ne hai uno prediletto?
Sì, uno è più speciale degli altri, quello del 1987, perché è l’anno in cui mia nacque mia figlia maggiore, Rachel.
Nel suo anno come assistente di Mike Brown ai Lakers, Ettore Messina si sorprese di scoprire che Mitch Kupchack sapesse quel che succedeva in spogliatoio, nonostante tenesse le distanze, ma non è un segreto che tu abbia sempre svolto un ruolo di raccordo tra gli uffici di El Segundo e i giocatori. Come hai fatto a gestire così bene questo doppio ruolo?
Metto sempre l’interesse della squadra, del gruppo, al primo posto, e in questo modo, sono sempre stato nella posizione di poter dar voce alla mia opinione senza prendere le parti di qualcuno contro qualcun altro, ma solo in funzione del bene comune dei Lakers.
A fine stagione, farai un passo indietro, e diverrai consulente per i Lakers, per poi ritirarti tra due anni. Che piani hai per il futuro, oltre passare più tempo in Italia?
Ho intenzione di continuare a lavorare per sviluppare nuove tecnologie nel campo della medicina dello sport, e poi sono sempre a disposizione della squadra, in qualunque cosa possa servire alla franchigia, per aiutarla a vincere!
Julius Randle si è ripreso alla grande dall’infortunio dello scorso anno, mentre D’Angelo Russell non sembra ancora (da un punto di vista atletico) al livello di altre guardie NBA. Oltre a loro, L.A. vanta tutta una nuova generazione di talenti, come Anthony Brown, Larry Nance jr e Jordan Clarkson. Il futuro a Lakersland è luminoso?
Sì, penso proprio che il futuro della squadra sia roseo, e non soltanto perché abbiamo giovani giocatori di grande talento, ma perché abbiamo in Byron Scott un allenatore disposto a fare quello che occorre per insegnare loro l’etica del lavoro, la disciplina che occorre per avere successo in NBA, e il valore del retaggio dei Lakers, infischiandosene delle critiche che gli piovono addosso ogni giorno.
Ringraziamo moltissimo Gary Vitti per la grande gentilezza con la quale ci ha risposto!
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.