Se una decina d’anni fa qualcuno avesse suggerito che il principale problema dei Los Angeles Clippers sarebbe diventato competere per il titolo NBA, ci saremmo forse fatti una risata, o avremmo preso per matto il nostro lungimirante interlocutore, abituati come eravamo a considerarli, senza mezzi termini, una barzelletta.
Basta tornare per un attimo con la memoria ai tempi non lontanissimi di Donald Sterling – squadre senza capo né coda, talenti lasciati fuggire perché, oibò, pretendevano dei rinnovi contrattuali– per mettere in prospettiva le difficoltà che oggi adombrano il viso del rubicondo Steve Ballmer.
Che una squadra con quel pedigree sia oggi nella posizione di dar sostanzialmente per scontato l’accesso ai Playoffs, o che elimini i campioni in carica, è un monumento al lavoro svolto nel corso degli anni da Doc Rivers, in parte da Elgin Baylor e soprattutto, da Chris Paul, l’uomo che, con la famosa trade voluta da David Stern, ha cambiato le sorti della franchigia.
Già, Chris Paul. Si tende a sottovalutarlo, perché non ha mai portato una sua squadra in Finale di Conference o per i tanti infortuni che in passato l’hanno limitato, ma parliamo di un campione vero, un uomo spigoloso, certo, ma che vale oro, perché al talento unisce mentalità e resilienza. L’ex Wake Forrest può vincere o perdere (come tutti), ma difficilmente alza le mani dal manubrio prima dell’arrivo. È stato così a New Orleans, ed è così anche a Los Angeles.
Steph Curry gli ha tolto il titolo di miglior playmaker della NBA, ma CP3 resta il miglior difensore nel ruolo. Naturalmente Paul ha anche dei difetti: è un giocatore molto cerebrale, e, innamorato com’è dei propri compiti di playmaking, non è sempre aggressivo come dovrebbe viste le sue qualità balistiche (il suo jumper dal palleggio è compattissimo) e le doti in entrata.
Nonostante Chris Paul, nonostante la Finale di Conference sfumata dopo essere stati avanti 3-1 contro Houston, e nonostante un mercato estivo intelligente (al netto dell’esperimento fallito con Josh Smith), l’atmosfera a Playa Vista (dove ha sede lo splendido centro d’allenamento della squadra) non è serena come ci si potrebbe attendere, e qui il pensiero corre inevitabilmente alla mano rotta del ventiseienne Blake Griffin.
Dopo un inizio di stagione orrido (partiti con un 4-0, si sono trovati 7-8), la Regular Season dei velieri stava lentamente riprendendo quota, quando, a Natale, Blake è finito in infermeria con un quadricipite lesionato; doveva ritornare dopo un mese esatto, ma il 23 gennaio, in un ristorante di Toronto, si è fratturato la mano nel corso di un alterco, prolungano la sua assenza di un altro mese e mezzo.
Griffin era a tavola con DeAndre Jordan, Joe Resendez (responsabile delle trasferte) e Matias Testi, un magazziniere della squadra, nonché suo amico; Griffn e Testi, a quanto risulta, erano soliti scambiarsi frecciatine e battute, ma le cose sono trascese, e una serata iniziata all’insegna del divertimento è finita con Blake che si rompeva la mano prendendo ripetutamente a pugni l’amico (?).
Com’è comprensibile, i Clippers non l’hanno presa benissimo, anche se Doc Rivers sta cercando di agire da paciere, spargendo qua e là le solite frasi: “Blake si sente malissimo a proposito di tutta questa faccenda, e ovviamente anche per noi è lo stesso; è un bravo ragazzo, ha solo passato un brutto momento, cose che capitano, e bisogna farci i conti”.
In effetti, è inutile fare di questa vicenda una tragedia; i fatti si sono svolti durante il tempo libero di Griffin e Testi, e quest’ultimo non ha sporto denuncia. Lungi da noi giustificare chi alza le mani sul prossimo (per definizione, un comportamento da imbecilli), ma si è trattato di un alterco tra due uomini adulti, che sembrano i primi a volersi mettere tutto questo alle spalle.
Griffin è uno di quei giocatori che polarizzano simpatie e antipatie tra i colleghi come tra i tifosi. Arrivato in NBA come schiacciatore, è migliorato in modo esponenziale; ha aggiunto un affidabile (ma non impeccabile stilisticamente) jumper dai sei metri, si è costruito un arsenale di movimenti in post basso, palleggia e passa la palla molto bene, difende decentemente.
L’impressione però, è che la sua crescita abbia raggiunto un plateau, e che per fare un successivo salto di qualità, non occorrano miglioramenti tecnici, quanto un lavoro sull’interpretazione del gioco e delle partite. Blake tende, come tanti giocatori costruiti –e non vogliamo con questo sminuirlo: i giocatori costruiti sono lavoratori indefessi, e questo va a loro esclusivo merito– a fermare la palla, e poi decidere cosa fare.
In una NBA tutta predicata sulla circolazione della sfera e con difese ormai fulminee nel portare un aiuto, ogni rallentamento dell’attacco, ogni secondo perso per strada senza attaccare attivamente è un favore ai difensori. Considerato il fisico del quale Blake dispone e la coordinazione con la quale lo porta a spasso, Griffin dovrebbe diventare un giocatore da ricezione dinamica, che anticipa la giocata, e quando riceve ha già preso vantaggio sul marcatore. Era vero per Shaquille O’Neal quindici anni fa, è stato vero per LeBron James nell’ultimo biennio ai Miami Heat, può esserlo altrettanto per il ragazzone dell’Oklahoma.
In questo senso, la pausa forzata indotta dalla rottura della mano può portar consiglio: in sua assenza, i Los Angeles Clippers hanno fatto di necessità virtù, passando a quattro esterni, aprendo il campo, e diventando, inevitabilmente, una formazione più fluida, con un giocatore in meno a fermare la circolazione di palla.
Los Angeles, che al momento dell’infortunio era 17-13, da lì in poi ha messo a segno un parziale di 18-5. Ovviamente, mancando uno dei più importanti terminali offensivi, è peggiorata la percentuale di canestri assistiti (dal 60% con Blake Griffin, al 57% attuale), tuttavia è interessante notare che se nelle prime 30 gare di Regular Season L.A. tirava con il 45.6% dal campo e il 34.3% da tre, senza Griffin ha preso a tirare con il 47.1% dal campo e il 38.1% da tre, perdendo oltretutto meno palloni e con un plus minus di +7.1, contro il +1.5 delle prime trenta gare.
I possessi sono diventati un po’ meno statici e le spaziature sono migliorate, complice la definitiva maturazione di J.J. Redick, che non è più solo un tiratore sugli scarichi, ma un giocatore che “usa” la propria pericolosità al tiro per creare opportunità, generando tiri più qualitativi, tanti tiri liberi, ma anche buone occasioni per i compagni di squadra.
Insegnano i Warriors e gli Spurs (edizione Finals ’14) che per avere buone percentuali da tre occorre saper penetrare e muovere la difesa, cosa che non può avvenire se ci sono contemporaneamente in campo due lunghi che non costituiscono una minaccia dalla lunga distanza (Jordan e Griffin). Tolto uno dei due, Doc Rivers può usare Jordan come bloccante (situazione nella quale, ovviamente, non si apre per il tiro ma “scivola” verso canestro, e tra l’altro è bravissimo a non abbassare la palla)
oppure sulla linea di fondo, pronto a pescare il difensore distratto, indeciso tra la marcatura e l’aiuto.
Con più spazio sotto canestro, Crawford, Stephenson, Rivers, Paul e persino Redick “vanno dentro” con la moto, trovando canestri ad alta percentuale, oppure falli, o, ancora, la possibilità di riaprire per un compagno libero o per un tagliante.
Tutto questo è diventato possibile anche grazie a una panchina indubbiamente assai più profonda rispetto agli anni passati, quando, ai Playoffs, le rotazioni si stringevano fino a ridursi a tenere in campo fino allo sfinimento i titolari.
La sterilità della panchina dei Clippers è costata, di fatto, l’accesso alle Western Conference Finals 2015, quando i vari Austin Rivers, Glen Davis e compagnia vennero fatti a fette dagli Houston Rockets. L’iniezione di talento effettuata quest’estate ha cambiato le carte in tavola, trattenendo all’ultimo secondo DeAndre Jordan, e riempiendo alcune caselle dello scacchiere rimaste a lungo vuote.
Oggi coach Rivers dispone di una second-unit rispettabile, occasionalmente capace di divenire protagonista. A Jamal Crawford si sono aggiunte qualità preziose, dalla difesa di Luc Mbah a Moute, al talento e l’imprevedibilità di Lance Stephenson, il contributo di Wes Johnson e l’esperienza di Pablo Prigioni, senza dimenticare Cole Aldrich, che, pian piano, è diventato il centro che Doc Rivers cercava per dare qualche minuto di riposo a DeAndre Jordan.
In più, Paul Pierce, pretoriano di Doc Rivers dai tempi di Boston, colma quella che, da tanti anni, era la principale lacuna del quintetto, cioè lo spot di ala piccola, occupato fino alla passata stagione dal mercuriale (e poco preciso al tiro) Matt Barnes, trasferitosi ora a Memphis.
Pierce non è più in grado di esprimersi a livelli da MVP, ma resta un giocatore intelligente, un leader che, in un ruolo meno impegnativo, può ancora dare un grande contributo, soprattutto in una formazione come i Clips, non sempre distintasi in passato per maturità e concentrazione, priva oltretutto di esperienza ad altissimo livello.
La corsa alla Finale di Conference (traguardo che i Clips non hanno mai raggiunto nella loro storia) sembra un affare privato tra Golden State e San Antonio; alle loro spalle, Oklahoma City e Los Angeles non possono essere scartate a priori, perché sono formazioni complete, pronte ad approfittare di un eventuale passaggio a vuoto delle corazzate, ma è davvero difficile immaginare che una tra Thunder e Clippers possa battere sia gli Spurs che i Warriors.
Fin qui, il bilancio W/L di Los Angeles contro Cleveland, Golden State, OKC e San Antonio, recita 5 sconfitte e nessuna vittoria, e anche questo dato invita alla massima cautela quando si mettono nella stessa frase “titolo NBA” e “Los Angeles Clippers”.
Detto questo, le serie vanno poi effettivamente giocate, e tante belle teorie costruite in Regular Season sono finite fuori dalla finestra a maggio; gli stessi Rockets che hanno eliminato Los Angeles l’anno scorso, non erano certo i favoriti della vigilia. I Clips si sono tolti l’etichetta di perdenti cronici, hanno ridato spolvero a un brand (la Lob City originale era Seattle), hanno consolidato la loro posizione tra le migliori squadre della NBA. Il prossimo passo è vincere, ed è spesso il più difficile.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.
Ottimo articolo Francesco, però Blake fu comunque un elemento importantissimo nella vittoria contro gli Spurs, non credi?
Bello l’articolo, complimenti. Il discorso Griffin a questo punto mi sembra abbastanza delineato: lui è fortissimo(tira anche meglio, passa meglio, anche se perde qualche pallone di troppo), ma il problema è l’atteggiamento e la determinazione a vincere. E’ un top player che ti può far vincere? secondo me no, ma chiama palloni in attacco e impone un certo gioco. Senza i Clips mi sembrano più equilibrati, CP3 può comandare la squadra a piacimento senza freni, la squadra difende meglio(la difesa mi pare vero problema di LA in chiave p.o.)e ha profondità, talento, allenatore, quindi tutto per essere da finale pur nella fortissima Ovest.
Questo anno a mio avviso stravolgere le cose mi sembra inutile. SA e GSW sono troppo forti per tutti, ma next season i Clippers secondo me farebbero bene a cedere Griffin e prendere un altro talento più affidabile per puntare definitivamente al titolo.
Ringrazio entrambi per le belle parole!
Blake Griffin: è stato indubbiamente importantissimo l’anno scorso, lo è e continuerà ad esserlo, perché è un giocatore molto forte. Come si chiede Tarpley42, però, può consentirti di vincere? Sono sempre stato un suo sponsor, ma qualche dubbio inizio ad averlo. In questo senso, il resto della stagione può essere usato come test per valutare come comportarsi in off-season.