56 punti. Sono quelli realizzati da DeMarcus Cousins nella sconfitta di settimana scorsa contro gli Hornets, nessuno meglio di lui in stagione e nessuno meglio di lui tra i lunghi attualmente in attività.
In una NBA che tende sempre più – inesorabilmente? – al tiro da 3 e al gioco perimetrale, per riportare alla memoria simili prestazioni monstre da parte di un big man bisogna scomodare gli O’Neal, i Robinson, gli Olajuwon.
Il paragone, va da sé, non regge, non tanto per le cifre quanto perché nella sua finora giovane carriera il buon Boogie non ha mai portato la sua squadra nemmeno nelle vicinanze di un record positivo. Ma quest’anno il vento sembra essere cambiato e i Kings lambiscono la zona playoff.
Cousins ha segnato la sua posizione sulla mappa della NBA che conta e osservarlo in azione è diventata un’attività irrinunciabile per chi si diletta a prevedere gli sviluppi del gioco con la palla a spicchi.
C’è ancora spazio per un lungo col suo fisico e col suo bagaglio tecnico nella NBA odierna? Può un big man vecchio stampo condurre la propria squadra ad alti livelli come accadeva un tempo?
Ma soprattutto, stiamo parlando dell’ultimo esemplare di una specie in via di estinzione o del primo di una nuova progenie?
Sulla lista della spesa di ogni GM c’è ormai da qualche tempo un identikit ben preciso; il rim protector che salta, stoppa, prende rimbalzi, è abbastanza agile per contenere gli esterni nel pick and roll e abbastanza piazzato per marcare i lunghi. Se possiede una vaga idea di come muoversi nelle rotazioni difensive tanto meglio, ma non è un requisito indispensabile.
Quel che conta è che non domandi la palla in attacco, non si metta in mezzo alle penetrazioni dei piccoli e apra spazio per le triple dello stretch four. Non serve nemmeno che sappia tirare i liberi, aggiungerebbero come corollario DeAndre Jordan e Andre Drummond mentre fanno frusciare i loro dollaroni.
DeMarcus Cousins non è tutto questo, ma al tempo stesso è molto di più. Un osservatore disattento potrebbe paragonarlo a uno di quei lunghi statici e dalle mani buone, ectoplasmici però in difesa, reperti di un’altra epoca che vivacchiano in squadre senza pretese come un Al Jefferson o un Brook Lopez, o quel che si teme diventi Jahlil Okafor.
Boogie non è nemmeno questo, perché al talento unisce una presenza fisica e una capacità di dominare lo spazio che gli consentono, unico tra i pari ruolo attuali, di fare la parte del leone nel pitturato; un terreno di caccia a uso quasi esclusivo di quella iena famelica e ipertrofica che è divenuta l’esterno standard di una squadra NBA.
Dwight Howard degli anni d’oro di Orlando potrebbe assomigliargli, ma il suo exploit era frutto di una prestanza fisica esuberante e un filo sospetta; una volta che ha fatto crac la schiena, ha fatto crac anche tutto il resto.
Cousins, diversamente, preferisce fare a spallate e tirare in sottomano piuttosto che saltare sopra il ferro; una strategia che sembra garantire tutt’altra longevità.
C’è anche un altro fattore che ce lo fa amare, che ci fa seguire le sue peripezie con un certo affetto, ed è quello emozionale.
Chi ha amato l’NBA degli anni ’90 non può non sentire la mancanza delle sue grandi rivalità e dei personaggi sanguigni che l’animavano, oggi che il gioco si è fatto più controllato, le risse meno tollerate e gli avversari, anziché insultarsi sul parquet, si spoilerano le serie tv preferite su Whatsapp.
Boogie non è un atleta perfetto né un cittadino modello. È un bambinone che si arrabbia con tutto e tutti se le cose non vanno come vuole lui. C’è chi lo ha paragonato a Rasheed Wallace, per la facilità con cui sembra riuscirgli il gioco della pallacanestro e per la temperatura sopra la media della sua testa calda.
Nostalgia canaglia; Rasheed è unico e inimitabile, ma DeMarcus ha tutto quel che serve per farci emozionare.
Ma in definitiva, come gioca Cousins? Sentiamo l’opinione delle cifre.
In attacco le sue stat lines sono consolidate da tre anni e rasentano l’eccellenza, con un progressivo aumento nei punti per partita (27.27 mentre scriviamo).
Le percentuali non sono da stropicciarsi gli occhi, non lo sono mai state. Cattiva scelta di tiri, forzature, poco aiuto da parte dei compagni; questi i sospettati principali, ma il suo 58% nel pitturato (52% entro gli 8 piedi dal canestro) è un evidente segnale di quanto si sia fatta dura la vita per un centro che ha il suo habitat naturale vicino al ferro, con frotte di esterni pronte a intasare l’area, negargli la ricezione e contestargli il tiro.
Il 70% abbondante che vantano James e Durant nello stesso genere di conclusioni dimostra che è più redditizio arrivare alla retina in corsa, con la palla in mano.
Cousins è un big man vero, scaglia il 61% dei suoi tiri entro gli 8 piedi dal canestro. Se facciamo un paragone con un’ala grande fatta e finita, Anthony Davis, che nei quintetti piccoli si ritrova però spesso e volentieri a giocare da 5, troviamo una distribuzione differente; solo il 44% dei suoi tiri avviene nei pressi del ferro, poi il 20% tra gli 8 e i 16 piedi e il 25% tra i 16 e i 24, oltre al 9% da fuori l’arco.
Cousins, nella stagione in corso, ha ottimizzato il suo gioco offensivo estremizzando la propria posizione sul parquet. Tira molti meno midrange jumper rispetto al passato, soltanto il 21% dei suoi tiri arriva tra gli 8 e i 24 piedi, mentre 16 tiri su 100 sono triple. Le manda a bersaglio col 35%, un dato sufficiente per minacciare il difensore di turno.
È l’ennesima freccia nella faretra di un giocatore le cui doti tecniche si spingono al di là di quanto mostrano le mere cifre.
Gli occhi degli spettatori sono testimoni più fedeli e parlano di conclusioni in sottomano dopo serie di finte, ganci nel traffico, coast to coast, partenze in palleggio dal perimetro, passaggi smarcanti per i compagni.
Le percentuali hanno un senso solo se interpretate e quelle relative alla sua efficienza al tiro non brillano per un motivo apparentemente banale; i tiri che Cousins seleziona sono difficili, ma li prende perché ha nei polpastrelli le capacità per segnarli. Soprattutto, è la sua squadra che gli chiede di farlo.
Lo spot di 5 è quello che gestisce il minor numero di palloni nella NBA attuale ma i Kings sono in totale controtendenza: Cousins è primo assoluto per percentuale di possessi a disposizione col 35.8%. Sta davanti persino al più famigerato dei ball hog, Russell Westbrook, col 33.1%.
Se avesse meno responsabilità offensive e un supporto migliore alle spalle parleremmo con tutta probabilità di cifre differenti; non è un caso se i canestri segnati su assist sono schizzati dal 51% al 61% in soli tre mesi dall’arrivo di Rondo a gestire lo show dei Kings.
Il GM della squadra media NBA, però, indugia con lo sguardo sulla sua lista della spesa e aggrotta la fronte. Non è ancora convinto.
Va bene il tiro da 3, dice, va bene l’arsenale offensivo variegato, ma io volevo regalarmi un rim protector e Cousins ha la poco raccomandabile nomea di lasciar passare gli attaccanti in arrivo come l’asticella del telepass.
Succede, quando spendi così tanto nella metà offensiva del parquet e giochi una squadra con un record perdente, e se i tuoi compagni non tengono l’uomo dal palleggio per un lungo di quella stazza diventa tutto più difficile.
Non si può dare torto al nostro GM medio; l’impegno in difesa è quello che è, l’espressione imbronciata quando deve stare basso sulle gambe e scivolare non è confortante, ma le cifre invitano ad aspettare prima di formulare un giudizio definitivo. Nella stagione in corso Boogie concede il 45% agli avversari nelle immediate vicinanze del ferro, in netto miglioramento dal 51% di due anni fa e dal 48% della stagione scorsa. Siamo sullo stesso piano di DeAndre Jordan e Hassan Whiteside, meglio di lui soltanto Anthony Davis e Rudy Gobert.
Anche le prestazioni a rimbalzo difensivo sono in linea con i primi della classe: il 27,8% dei rimbalzi contesi finisce nelle sue mani, così come il 65% dei rimbalzi totali disponibili.
Rispetto a tutti i suoi pari ruolo, però, Cousins segna molto di più. I centri con più spiccata propensione offensiva, come Jonas Valanciunas, Nicola Vucevic e Brook Lopez, non hanno la sua stessa efficacia in difesa e a rimbalzo. L’unica eccezione, manco a dirlo, è Anthony Davis, che produce statistiche da lustrarsi gli occhi nonostante la stagione tormentata che sta attraversando.
L’anno scorso l’attenzione nei suoi confronti s’impennò, quando condusse ai playoff i suoi Pelicans dalle poche pretese; che la stessa sorte stia per toccare a Cousins? Solo il tempo potrà dire se sarà in grado di fungere da àncora di una squadra con ambizioni di vittoria.
Intanto, l’esperimento di affiancargli un lungo dinamico come Cauley-Stein sta dando i primi frutti. I Kings sono una squadra piena di problemi, ma in crescita. Una crescita che rischia di interrompersi bruscamente tra i continui avvicendamenti sulla panchina e negli uffici dei dirigenti, in verità, e che ha prospettive più ristrette di quel che si augurerebbero in California.
C’è l’equilibrio precario che unisce George Karl e Cousins, prima di tutto; un filo sottile, e non si capisce chi tra i due abbia le forbici in mano. Poi c’è un quintetto sbilanciato con poco margine per aggiustarlo.
Nonostante il buon lavoro svolto in estate con gli innesti di Belinelli e Koufos, l’impressione rimane quella di una banda di diligenti role player senza lo spessore necessario per far parte di un quintetto NBA.
Ora che la pazienza verso Ben McLemore si sta per esaurire, l’unico prospetto con un upside degno di nota è proprio Willie Cauley-Stein. C’è poi la questione del contratto di Rondo, a scadenza più ravvicinata del latte fresco, e il suo carattere notoriamente problematico. Nondimeno, è una crescita.
Il clima più fiducioso ha il pregio di allontanare le voci di trade che si rincorrono da anni come un ritornello orecchiabile tra i corridoi della Sleep Train Arena; quelle che coinvolgono Boogie, quantomeno, considerati i recenti rumors intorno al destino di Rudy Gay. Cousins ha un contratto blindato fino al 2018, non il più facile da scambiare, e al momento tutto lascia intendere che rimarrà in California almeno fino alla sua scadenza.
La follia a cui ci hanno abituati i Kings può però riservare sorprese dietro ogni angolo, e se c’è una franchigia col dito pronto sul grilletto per portarsi a casa un centro di peso su cui impostare il proprio progetto, sono i Boston Celtics.
Con tutto il materiale umano di cui Danny Ainge dispone, tra giocatori sacrificabili e scelte al draft ammonticchiate come chips sul tavolo verde, i Kings troverebbero pure il modo di non uscirne in mutande.
È vero, anche Boston vuole il rim protector come tutte le altre, non a caso in estate ha tentato disperatamente la trade up per accaparrarsi Willie Cauley-Stein al draft, ma il sistema egualitario di coach Brad Stevens sarebbe forse l’ideale per esaltare Cousins su entrambi i lati del campo, con tanti soldatini pronti a svolgere il loro compito.
Era un contesto diverso, ma per certi versi simile; estate 2014, mondiali in Spagna, Boogie che padroneggia il pitturato in una squadra di stelle impressionando più di un Anthony Davis troppo leggero per il ruolo. Come un big man d’altri tempi.
Scrittore e giornalista in erba – nel senso che la mia carriera è fumosa -, seguo la NBA dall’ultimo All Star Game di Michael Jordan. Ci ho messo lo stesso tempo a imparare metà delle regole del football.