È da almeno un paio di mesi, da quando si è cominciato a capire che i Warriors avevano preso sul serio questa faccenda della stagione da 70 vittorie, che ogni appassionato di NBA che si rispetti rivolge ogni sera, nel suo lettino, una preghiera agli dei della pallacanestro; che un avversario alla loro altezza si separi dalla mischia e gli metta i bastoni fra le ruote, perché la vera grandezza di un eroe si misura solo al confronto con un antagonista del suo calibro.

Sarebbe un peccato se una stagione così sensazionale scivolasse verso un finale pigro e scontato, per manifesta superiorità.

Gli Spurs sono pronti a interpretare questo ruolo? Le cifre da snocciolare nell’attesa dello scontro diretto di lunedì notte suggerivano di sì.

Mai due squadre con un record complessivo così alto (78-10, entrambe imbattute in casa da mesi) si erano affrontate. Golden State primeggia in attacco con 112.7 punti per 100 possessi, 10 netti in più della media della lega – non si è visto niente di meglio negli ultimi 39 anni. San Antonio non è da meno in difesa: 93.5 punti concessi ogni 100 possessi, 9.2 in meno della media delle avversarie.

Manco a dirlo, i posti 1 e 2 nella classifica della migliore differenza punti degli ultimi 30 anni appartengono a loro; dietro, tanto per gradire, due edizioni dei Bulls di Jordan.

In questo universo contorto, però, capita che talvolta la realtà si riveli differente da quanto anticipato dalle cifre. Ieri notte alla Oracle Arena è stata partita vera per almeno due quarti. Coach Popovich, notoriamente restio a svelare la propria mano negli scontri di regular season, si è limitato a tenere a riposo l’acciaccato Duncan e a tirare i remi in barca qualche minuto prima dell’inevitabile tracollo.

Per il resto i suoi giocatori hanno portato in campo la testa e il cuore, entrambi ben saldi al loro posto, soltanto che non sono bastati. L’impressione è stata quella di due squadre di categorie differenti; una delle due gioca bene, fin troppo, ma l’altra è in stato di grazia ed è capace di scavare subito un solco e non guardarsi più indietro.

Ci si aspettava di più da questa finale anticipata. Sempre che i pronostici vengano rispettati, s’intende; ma con buona pace di Clippers, Thunder e il resto dell’agguerrita compagnia, dopo essercela fatta scippare lo scorso maggio stavolta la resa dei conti tra queste due meteore in rotta di collisione deve consumarsi.

Nell’attesa, oltre a giungere le mani e pregare, possiamo valutare l’antipasto che ci è stato offerto.

La tremenda verità di questo inizio di stagione è una e una soltanto: i Warriors sono più forti dell’anno scorso. Ma lo stesso assunto è valido per gli Spurs, con mosse di mercato importanti e al contempo curiose.

Mentre tutti si scioglievano in adorazione dello small ball e di Draymond Green che giocava da 5 pur non arrivando ai 2 metri, Buford e Popovich pensavano bene di accaparrarsi i servizi di LaMarcus Aldridge e David West, a completare una batteria di lunghi oltremodo ricca.

A stagione in corso si è assistito poi all’investitura di Kawhi Leonard come leader della squadra, con un pizzico di ritardo sui tempi naturali della sua evoluzione, e le sue cifre sono lì a confermare il salto di qualità: segna 20 punti a allacciata di scarpe, tira col 50% da 2 e con un emozionante 48% da 3.

Ma anche in questo caso, le statistiche non dicono tutto. Basta guardare gli Spurs in campo per capire che la squadra appartiene a lui, su entrambi i lati del parquet. Anche il nuovo arrivato Aldridge l’ha chiamata così: la squadra di Kawhi.

Imporre il proprio gioco sotto le plance con un backcourt consolidato in una nuova gerarchia, questa la ricetta che i neroargento avevano messo a punto in estate, ma lunedì notte gli ingredienti non si sono amalgamati.

LaMarcus Aldridge ha i centimetri e il talento per dominare in single coverage qualsiasi difensore più basso di lui, ma Draymond Green gli ha riservato le proprie attenzioni per l’intera serata costringendolo a lottare per ogni minimo spicchio di parquet.

Nel frattempo i suoi compagni ostruivano le linee di passaggio e molestavano i portatori di palla, rallentando gli approvvigionamenti e impedendo gli alto-basso con West e Diaw. Aldridge si ritrovava su un’isola, lontano da canestro, a giocare una hero ball che è nelle sue corde – e che in un’ipotetica serie finale gli frutterà un paio di prestazioni da 25 punti – ma non è quello di cui la squadra ha bisogno.

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(Uno dei rari casi in cui Aldridge può gestire palla in post-alto con più di 10 secondi sul cronometro. L’azione però si perderà nel nulla; Green non cede spazio e gli altri Warriors anticipano correttamente ogni taglio rimanendo vicini all’attaccante).

La difesa dei Golden StateWarriors è uno strano animale. In tanti si sono scervellati per capire come può una squadra che tira spesso e gioca in velocità difendere in maniera così efficiente, e altrettanti brancolano ancora nel buio. Come spesso accade le risposte arrivano quando meno te lo aspetti.

Una si palesò lo scorso giugno; privi di Love, Irving e con uno Shumpert a mezzo servizio i Cavs dovevano scegliere se affidare responsabilità di playmaking alle mani spigolose di Dellavedova o consegnare l’arancia a Lebron nella speranza di ritrovarla depositata in fondo al canestro senza che passasse di proprietario nel corso dell’azione.

Si andò per la seconda opzione. Brutta da vedere, dissero in tanti; eppure, efficace. Prima di fondere il motore in gara 5 e 6 i Cavs trascinarono Golden State nella fanghiglia di una pallacanestro lenta e muscolosa, che disinnescava alcune delle micce predisposte da Coach Kerr. Non a caso, un’operazione simile a quella che compiono regolarmente i Grizzlies col loro grit and grind, gli unici a ovest in grado di impensierire Golden State negli scorsi playoff.

San Antonio gioca in maniera opposta. Un’armoniosa sinfonia di alto-basso, dentro-fuori, penetra e scarica, con cui però la difesa dei Warriors sembra sposarsi a meraviglia. La loro versatilità risponde a un motto: play big, gioca più grande del tuo ruolo, per cambiare marcature senza creare mismatch, reggere sui lunghi e aggredire i piccoli.

Draymond Green potrebbe tenere corsi universitari sull’argomento. Thompson sa farlo, Iguodala, Barnes, Rush, Speights portano un costante afflusso di energia e velocità. Gli Spurs perdono 8 palloni nel solo primo quarto e subiscono punti in contropiede. Parker e Danny Green sono fuori dalla partita e i contatti tra le due torri risultano interrotti.

Sul finire del periodo Popovich firma il patto col diavolo e abbassa il quintetto, portando dentro la manovalanza. Patty Mills e soprattutto il carneade Jonathon Simmons sono i suoi uomini del play big, poche chiacchiere e palla in post per l’isolamento di Leonard, così non si rischia di perderla.

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(Leonard in 1vs1 con Thompson, i compagni gli lasciano un quarto di campo per lavorare. La chiave per spezzare il ritmo della difesa Warriors?)

Sono esperimenti, schermaglie di un allenatore che la sa sempre più lunga di quanto lasci intendere, ma questo sbilanciarsi è già un segno della tensione. “Meno male che non c’era il GM negli spogliatoi o rischiavo il licenziamento” sdrammatizzerà a fine partita, scoccando una freccia che sibila a metà strada tra David Griffin e LeBron James.

I risultati tardano a arrivare e nel terzo quarto la partita si spegne. Iguodala, interrogato alla vigilia dai giornalisti, aveva evidenziato un tema tattico fra i tanti: la panchina Spurs non ha il loro stesso firepower, e più passano i minuti alla Oracle Arena più le sue parole acquistano valore profetico.

In attacco Golden State è indomabile, con Thompson e Livingston che sfrecciano senza palla tra i due lunghi, facendo il pendolo sulla linea di fondo come a scuola di basket. Nonostante Bogut stazioni nel pitturato con la presenza di uno spaventapasseri, gli esterni ricevono sempre nel momento giusto del taglio; con Duncan, questo è poco ma sicuro, non godranno di altrettanta libertà.

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(Sia Aldridge che Diaw seguono il taglio di Iguodala disinteressandosi completamente di Bogut, mentre Curry costringe Leonard lontano da canestro e non partecipa all’azione. I lunghi Spurs non sono però abbastanza rapidi da chiudere Draymond Green, che concluderà con un facile appoggio).

Steph Curry è un capitolo a parte; in questa fase della sua carriera, probabilmente pratica uno sport a parte. La chiude lui, con un parziale nel terzo quarto. Fino a quel momento Leonard l’aveva difeso egregiamente (2 punti in 16 possessi) e altri si erano cimentati per fargli riprendere fiato (Parker e Mills, 15 in 17 possessi). Ma l’impressione è che il Curry annata 2016 possieda la rara capacità di plasmare la pallacanestro secondo il suo gusto.

Ha la faccia sorridente di un bambino che domina il suo videogioco preferito in modalità facile, e non capisce perché i suoi amichetti si ostinino a giocare a modalità All Star. Lo stesso sorriso di Cam Newton che proprio il giorno precedente, nel condurre i suoi Carolina Panthers al Superbowl da favoriti, rivelava la sua filosofia: divertirsi.

Buoni tutti a farlo quando vinci, ma dietro quei successi apparentemente privi di sforzo c’è la disciplina mentale di un campione che conosce le proprie possibilità e non accetta la sconfitta. Si somigliano i due e sono buoni amici, di quelli che si sfidano ai videogames e si sfottono anche un po’, accomunati dall’affetto di Curry per la franchigia NFL della città che lo ha cresciuto. Sono i due volti più solari dello sport a stelle e strisce e sembra che nulla possa impensierirli.

Servirebbero forse delle Curry Rules, per arginarlo con le cattive quando le buone non bastano, ma difficilmente saranno gli Spurs a architettarle.

Ci vorrebbe una dose da elefante di quel nasty che Popovich chiedeva a gran voce nel 2012, ma chi tra gli Spurs di quattro anni dopo sarà in grado di mettere via il fioretto e impugnare la sciabola?

3 thoughts on “Focus: le chance degli Spurs contro i Warriors

  1. Io credo che a parte quest’anno i Warriors ed i Cleveland Cavaliers siano squadre più futuribili degli Spurs, mi spiego meglio: credo che per San Antonio sarà molto ma molto difficile ricostruire una volta che tra non molto il suo gruppo storico se ne sarà andato.

  2. La difesa dei GSW per me è molto forte, anzi probabilmente è il loro punto forte. Di squadre che segnano tanto ne abbiamo già viste parecchie, ma i Warriors pur non facendo niente di eccezionale sono perfettamente bilanciati in difesa, ottengono il massimo col minimo sforzo. In questo senso Thompson, Green e Bogut sono giocatori più intelligenti della media.
    Sul discorso futuribilità difficile valutare, sicuramente gli Spurs si sono mossi bene per il post-Big Three ma i giovani che hanno al momento probabilmente non sono all’altezza, escluso ovviamente Leonard. Aldridge poi non sarà mai il riferimento difensivo che è Duncan, quindi Pop dovrà regolarsi di conseguenza.

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