Continuare a ripetere che da certi infortuni “si torna più forti che prima”, potrebbe indurre pensare che sussista un qualche tipo d’automatismo tra rompersi una gamba e diventare un cestista migliore, ma ovviamente le cose non stanno così.
Dal primo agosto 2014 (giorno del terribile incidente capitatogli durante uno scrimmage con Team USA), non c’è stato nulla di scontato per Paul George, se non il dolore e la ferma volontà di tornare in campo,senza farsi condizionare da quanto accaduto.
C’è un granello di verità in quell’auspicio dal sapore un po’ machista, perché una frattura –anche una devastante e graficamente shoccante, come quella patita da George– consente (se presa in carico da medici competenti, e accompagnata da tutta una serie di terapie) una completa riabilitazione fisica, senza conseguenze a lungo termine, restituendo così all’agonismo un atleta convinto di poter superare ogni avversità.
In effetti Paul George non è semplicemente tornato come prima; è diventato un giocatore di basket migliore, conscio del proprio valore, fiducioso dei propri mezzi atletici e tecnici.
Un tempo, dopo una giocata particolarmente plastica, PG tendeva ad avere una piccola esitazione, come se pensasse “mi è riuscito veramente?”. Oggi quel tipo di esitazione è quasi scomparso dal suo gioco.
Paul dice che “Ora vedo le cose diversamente, lascio che le cose succedano, sono diventato più paziente, e sono migliorato come tiratore; dopo l’infortunio, era l’unico aspetto del gioco che potevo allenare, e penso di essere migliorato in questo fondamentale”; il suo 41.2% dal campo non è un dato tanto entusiasmante, ma va letto e si spiega con i tanti –troppi?– jumper a bassa percentuale che PG ancora prende (sono il 29% del totale delle sue conclusioni, e spesso sono tiri nel traffico, con una mano in faccia).
(Questo invece, è Paul George al suo meglio: tiro da tre immediato, oppure tre passi, ed è schiacciata!)
Pur essendosi opposto all’idea di giocare da stretch-four, George si è adeguato in fretta alla nuova direzione tecnica di Indiana, fatta di tiri veloci e sprint. Ci auguriamo che Frank Vogel torni sull’argomento quando PG si sentirà più sicuro della propria tenuta fisica, perché quello di quattro “tattico” è un ruolo che potrebbe riuscirgli particolarmente congeniale, come ha dichiarato anche Larry Bird.
Nel frattempo, quando i Pacers schierano quattro piccoli, è C.J. Miles a marcare le ali forti avversarie, lasciando a Paul George il più pericoloso degli esterni “puri” o consentendogli di flottare in aiuto.
Nonostante Paul George militi in un mercato storicamente di nicchia come quello di Indianapolis, la sua maglia numero 13 è la dodicesima più venduta del Paese, ed è stato votato dal pubblico di tutto il mondo come titolare all’All Star Game di Toronto (trattasi della sua seconda partecipazione da titolare, la terza in assoluto su sei anni di carriera), grazie ad uno stile fatto di atletismo, eleganza e intensità, forte di 23.7 punti di media e 7.2 rimbalzi.
Complice l’addio di David West, Paul George si è trovato a gestire la leadership dello spogliatoio e ha risposto presente, dando l’esempio e mettendoci sempre la faccia (talvolta anche troppo: un mese fa è stato alleggerito di 35.000 verdoni per aver… detto la sua sugli arbitri, e più di recente si è fatto multare per un vivace alterco con Marcus Morris) e abbracciando il ruolo che aveva sempre sognato.
Inevitabilmente però, il combinato disposto del nuovo sistema di gioco e delle accresciute responsabilità (condite dal rientro da un lungo stop), ha comportato qualche passaggio a vuoto.
Sulla scia delle performance del suo leader, Indiana procede a strappi; al momento di scrivere è 23-21 (4-6 nelle ultime 10), ma ha anche piazzato una striscia da 11-2, durante la quale l’ala nativa di Palmdale, California, viaggiava a trenta punti e otto rimbalzi di media.
È un processo di crescita, come dice lo stesso Paul: “Sto vedendo un aspetto completamente nuovo del gioco, ed è una strada in salita; sto cercando di essere un buon studente di basket”. Le difese, inizialmente sorprese dalla sua aggressività, si sono pian piano adeguate, concentrandosi su di lui in situazione di pick-and-roll, mettendogli sempre un corpo addosso.
In fondo questa è la forma più autentica di rispetto: l’avversario che t’identifica come il pericolo numero uno e costruisce l’intero piano-gara difensivo in tua funzione, con il miglior difensore in marcatura, e l’aiuto pronto a piombarti addosso. Paul George deve ancora abituarsi del tutto all’idea che queste attenzioni siano il naturale e inevitabile corollario del suo status, che ormai è quello di superstar.
Che oggi si parli di George come uno dei cestisti più forti del mondo, è un monumento alla forza di volontà e all’etica lavorativa di un ragazzo che, a Knight High School come al college, non aveva mai destato grande interesse tra i Pro, finendo al decimo pick del Draft del 2010. In NBA ha fatto tanta gavetta, lavorando parimenti su difesa e attacco, imparando a essere utile alla causa come team-player di talento, anziché come solista, diventando un grande giocatore di pallacanestro, prima ancora che una stella.
Molti osservatori dubitavano che PG-13 fosse in grado di sostenere un ruolo da protagonista, ma dal 2011-12 (quando lo sfortunato Danny Granger s’infortunò, regalandogli più spazio) Paul non si è più voltato, sfiorando le Finali NBA, e poi continuando a migliorare individualmente, senza abdicare al lavoro sporco e alle piccole cose che tante star non si “abbassano” a fare. Con il già citato trasloco in Texas di David West, PG è indiscutibilmente il migliore elemento del roster, e, con George Hill, quello con più esperienza ad alto livello.
L’attenzione di media e avversari ha elevato la posta in gioco, obbligandolo a non prendersi mai pause mentali e a stare sempre sul pezzo. “Sono andato a sbattere contro un muro, e sto cercando di scalarlo, di essere più assertivo, aggressivo, e di lavorare da prospettive nuove; è stato come un giro sulle montagne russe, e penso di aver fatto tesoro dell’esperienza, ma è stata davvero dura”.
Le difficoltà hanno esposto chiaramente alcune lacune tecniche sulle quali Paul deve lavorare sodo, cioè il tiro, che resta ondivago e dalla tecnica perfettibile (potrebbe aiutarsi ricorrendo all’appoggio al tabellone, cosa che tra l’altro sa fare benissimo), e soprattutto il ball-handling. George è capace di ottime letture e sa eseguire splendidi passaggi, ma perde una valanga di palloni, tanto che assistenze e turnover si pareggiano a 3.8 di media.
Il dato si spiega con la disabitudine a giocare con tanto pace (in fondo, anche i Golden State Warriors sono soggetti a tante palle perse) e con un palleggio troppo alto, che espone la palla al difensore, e impedisce di avere completo controllo. Quando smista palloni a una mano dal palleggio, il rimbalzo è talmente alto che il passaggio rischia sempre di partire dalla spalla, o troppo lontano dal corpo, diventando facilmente intercettabile, o giungendo a destinazione fuori dalla “tasca” del tiratore.
Sono difetti sui quali un franchise-player deve assolutamente lavorare, ma non bisogna perdere di vista il quadro complessivo, sia perché parliamo dell’ottavo realizzatore NBA (ed è ottavo anche per tiri liberi tentati e segnati), sia perché il campo da basket misura 28 metri, e non solo 14, come lascia intendere lo star-system, sempre intento a magnificare le doti dei grandi attaccanti, come Russell Westbrook o James Harden, ignorandone le colossali lacune difensive (che purtroppo limano di molto il loro contributo alla causa).
Non v’è dubbio che PG-13 sia uno scorer meno continuo di altri, ma la cifra del suo gioco non concerne la capacità di fare quaranta punti a comando, quanto l’abilità nel giocare attacco-difesa ad altissimo livello, ed è opinione di chi scrive che sia molto più efficiente un giocatore totale rispetto a un grande attaccante che poi costringe i compagni agli straordinari in difesa.
Con Kawhi Leonard, Jimmy Butler, LeBron James e Klay Thompson, Paul George appartiene al rarefatto novero dei migliori esterni two-way della NBA; concede solo il 29% da tre al diretto avversario, e il 40% complessivo (contro il 44% tenuto di media dagli stessi avversari), ed è capace di dar filo da torcere ai playmaker come alle ali piccole, grazie ad una combinazione unica di velocità, braccia lunghe e centimetri (è 2.06).
Se i propositi del training camp (tre lettere: MVP) andranno momentaneamente accantonati –anche perché finché Stephen Curry sarà questo, servirebbe qualcosa di davvero speciale per batterlo-, il ritorno di Paul George ha comunque dato un’altra dimensione al gioco di Indiana, e il futuro sembra sorridere alla franchigia di Larry Legend.
PG-13 è sotto contratto fino al 2018 (con player option per l’anno successivo), e, nonostante dia la sensazione di giocare in NBA da un secolo, non ha ancora compiuto 26 anni; in più ci sono giovani che lasciano intravedere grande potenziale, come Joseph Young e soprattutto Myles Turner, catturato con la undicesima selezione del Draft ’15, e un nuovo stile di gioco che ha aperto scenari finora inesplorati.
Certo, ai Pacers servirebbe una volta tanto aver un po’ di fortuna, ma se c’è una persona che ha un credito con la buona sorte, è proprio Paul George!
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.
Ciao Francesco, Come stai?
Ottimo articolo! Spero che tu non sia arrabbiato con me per l’opinione di Paul vs Leonard degli ultimi playoffs! Ripeto la mia opinione: Leonard ha giocato un’ottima prestazione difensiva, ma Paul è stato altretatnto fenomenale in attacco!