L’addio di pezzo da novanta come Lebron sarebbe stata una mazzata difficile da metabolizzare per tante franchigie NBA, ma i Miami Heat hanno accettato il ritorno in Ohio del prodigio di Akron con una naturalezza sconosciuta in tante altre capitali del basket a stelle e strisce, e si sono rimboccati le maniche senza cedere alla tentazione di una ricostruzione da zero (leggasi tanking).

Perso LBJ nel luglio del 2014, Riley e Erik Spoelstra sono ripartiti da Chris Bosh (rifirmato con un quinquennale da 118 milioni), e Dwyane Wade, il nativo di Chicago che, con tre titoli NBA, un MVP delle Finals 2006 e 13 stagioni tutte in maglia rosso-nera, ha tolto ad Alonzo Mourning lo status di giocatore più rappresentativo della franchigia, esempio vivente della competenza che ha consentito ad una realtà cestisticamente piccola di trattenere per tanti anni una stella di livello assoluto, attirandone altre, da Shaq a James, senza dimenticare i vari Ray Allen, Mike Miller o Gary Payton.

Al momento di scrivere gli Heat sono 22-16, secondi nella Southeast Division dietro ad Atlanta, e mixano giovani di buone prospettive con veterani di altissimo livello che hanno ancora qualche freccia in faretra.

In questi due anni Riles ha avvicendato gradualmente il nucleo storico delle quattro finali, scambiando i vari Norris Cole e Mario Chalmers per aggiungere Goran Dragic, Luol Deng, Hassan Whiteside, Tyler Johnson, e soprattutto il gioiellino diciannovenne da Duke, Justise Winslow, che ha la possibilità di lavorare e imparare ogni giorno da stelle e campioni NBA come Flash o CB4.

Spoelstra e Riley sono tra i pochi dirigenti e allenatori NBA a potersi permettere di alzare lo sguardo dalla quotidianità per abbracciare un orizzonte di medio e lungo periodo: il proprietario, Micky Arison, ha sempre tenuto un profilo basso, fedele a un concetto di “progetto” fondato su una strategia che non cambia per una stagione storta o per le mode del momento.

Non tutto è rose e fiori però, perché, nonostante cinque apparizioni alle Finals e tre titoli in nove anni, gli Heat continuano a faticare per consolidare uno zoccolo duro di appassionati; Miami non ha grande tradizione cestistica locale, e per di più, è una metropoli d’immigrati, che portano spesso con sé il tifo per la franchigia della città d’origine.

Miami (che prende il nome dalla tribù indiana dei Mayaimi) è il risultato di contaminazioni culturali (com’è normale per una città fiorita attorno al proprio porto); si sono succeduti bahamiani in cerca di lavoro (è la storia dei genitori di Sidney Poitier), poi creoli, afroamericani (che qui conobbero il peggio del Ku Klux Klan), vacanzieri e pensionati WASP del nord-est, e dal 1959, gli esuli cubani in fuga da Fidel Castro, che l’hanno definitivamente trasformata in una capitale dell’America latina (pulitissima e ordinata, contrariamente agli stereotipi), a volte conflittuale, e traboccante vitalità.

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Il clima fantastico, Biscayne Bay, i tantissimi parchi cittadini, le attrattive cultural-sociali (come Miami Art Basel, che si tiene a dicembre, o l’Ultra Music Festival, per chi ama l’elettronica) e artistiche (l’Adrienne Arsht Center for the Performing Arts), complicano ulteriormente le cose per chi vorrebbe fidelizzare una Heat-Nation, problema peraltro condiviso anche dai Marlins dell’MLB e dai Panthers dell’NHL (l’unica realtà sportiva davvero radicata è quella dei Miami Dolphins NFL).

Pat Riley e Micky Arison sbarcarono assieme agli Heat nel 1995 (in questo caso “sbarcare” è proprio il verbo giusto: il buon Micky è proprietario della maggiore compagnia di crociere al mondo, la Carnival), intenzionati a forgiare un club nato solo sette anni prima, dandogli credibilità e prestigio, grazie ad Alonzo Mourning e Tim Hardaway prima, e poi all’accoppiata Flash-Shaq, che nel 2006 portò il primo titolo NBA in Florida.

Oggi, dopo lo splendido ciclo dei Big Three, Miami è cambiata senza soluzione di continuità; Erik Spoelstra –l’ex video-coordinator impostosi come uno dei migliori allenatori NBA in circolazione– è passato con disinvoltura dai quattro esterni a una struttura più adatta alla contemporanea presenza sotto le plance di Hassan Whiteside e del mancino texano, continuando però a predicare difesa (sono quinti per DefRtg) e movimento di palla (che non funziona ancora così bene, visto che solo il 48% dei loro canestri è assistito).

Miami fa buon uso delle qualità in post alto di Chris Bosh (bloccante, passatore, roller e tiratore), degli isolamenti in ala di D-Wade, e della potenza in post basso di Whiteside, il centrone raccolto dal marciapiede della NBDL (dopo tappe a Nanchino, in Libia e Libano), fiorito in un big man da doppia-doppia di media (12.1 e 11.1) che guida la NBA per stoppate (3.8 ad allacciata), chiaramente destinato a batter cassa durante la free-agency dell’estate 2016.

Non che Whiteside possa considerarsi un grande difensore, o un giocatore fatto e finito; Bosh (che rimane il cardine difensivo di Miami) di recente gli ha fatto i complimenti per aver giocato infortunato, ma ha subito aggiunto che non basta, e l’ha esortato a fare meglio: “Dare lo stesso apporto alla squadra, anche quando sta male”.

Il grande interrogativo è che tipo di giocatore sia veramente Hassan: uno destinato a rientrare nei ranghi quando avrà messo in cassaforte il contrattone, o, come ci sentiamo di presumere, un professionista maturato tardi, che sta recuperando il tempo perduto a tappe forzate?

Per diventare un giocatore che sposta in una formazione vincente, Whiteside deve migliorare la qualità del suo outlet pass dal post basso, e difendere con più continuità sul diretto avversario e in aiuto, privilegiando la sostanza alle cifre, evitando di andare sempre a cercare la stoppata, o perdendosi il diretto avversario per cacciare il rimbalzo.

(qui c’è tutto Whiteside: prima si perde Zeller sul taglio, poi gli rifila una stoppata tonitruante -per quanto fallosa)

Salvo clamorose sorprese, Miami non è una candidata a vincere il titolo, ma anche questa fase di transizione è diventata preziosa per coltivare giovani giocatori destinati a un ruolo da protagonisti tra un paio di stagioni, e per cogliere opportunità di mercato (come Deng, Green e Dragic), utili a evitare sbracamenti à-la-Sixiérs, che potrebbero disaffezionare la già fragile fan-base dell’American Airlines.

Intanto Bosh, che è nel pieno della propria maturità cestistica e giustamente pensa al presente, si augura che le 14 trasferte (su 16 partite complessive) che Miami affronterà da qui al 5 febbraio, servano come corso intensivo per far gruppo e imparare cosa vuol dire giocare in un ambiente ostile, fattore che spesso aiuta le squadre a cementarsi e creare unità d’intenti (l’esempio più celebre è il mitico “rodeo trip” degli Spurs).

tutta la completezza offensiva del lungo moderno nella shooting chart di Chris Bosh

Tutta la completezza offensiva del lungo moderno nella shooting chart di Chris Bosh

Accanto a Bosh e Whiteside, Luol Deng completa la frontline degli Heat; con la sua duttilità e l’attitudine a giocare minuti da stretch-four, l’ex di Bulls e Cavs consente a Miami di adattarsi alle squadre che corrono, ma l’anima di questa Miami è chiaramente difensiva.

Gli Heat vivono di ritmi bassi (sono terzultimi per possessi su 48 minuti), anche perché le diverse lingue cestistiche parlate da Deng, Bosh, Whiteside, Wade e Dragic, ostacolano soluzioni d’istinto, e la relativa novità del gruppo (prima di questo training camp, Dragic e Bosh non erano mai scesi in campo assieme) impedisce di giocare con familiarità, quindi alzare i ritmi rischierebbe solo di danneggiare la difesa, senza portare nessun autentico beneficio offensivo.

Infine, c’è una panchina di nomi intriganti, divisi tra giocatori verdissimi, come Johnson e Winslow (che già da ora si è dimostrato pronto a ricoprire un ruolo in modo affidabile in 26.7 minuti d’impiego), e veterani pronti a dare un contributo d’esperienza e capaci di azzeccare qua e là una gran partita, come Stoudemire, Haslem, Gerald Green e Beno Udrich.

Per quanto nessuno voglia caricarlo di pressioni, è chiaro che gli occhi di tutti sono puntati su Winslow, l’ala nativa di Houston che può diventare un grande giocatore two-way, sulla scia di Kawhi Leonard o Paul George (rispetto ai quali è più potente ma molto meno raffinato sotto il profilo tecnico). I presupposti ci sono: viene da una sana famiglia di sportivi, ha la testa sulle spalle, fa volontariato, e ha già dimostrato di saper lavorare in un gruppo vincente al college, dove, senza rubare spazio a Tyus Jones, Cook e Jahlil Okafor, ha portato parecchia legna alla causa dei Blue Devils.

Ma se di Justise Winslow sappiamo quasi tutto (complice il torneo NCAA, la partecipazione al McDonald’s All American 2014 e le presenze nella Nazionale USA giovanile) non è così per Tyler Johnson, il tosto playmaker proveniente da Fresno State, che non è ancora diventato un nome familiare al grande pubblico, ma ha convinto Spoelstra e Riley a cedere Chalmers per dargli più minuti.

È l’epitome del giocatore che viene ad allenarsi ogni giorno per affinarsi” dice di lui coach Spoelstra, “ed è così che è migliorato, non dalla sera alla mattina, ma nel corso di un anno di lavoro costante, che gli ha fatto guadagnare il rispetto del coaching staff, e soprattutto, dei suoi compagni”.

Ventitre anni, il look e l’attitudine aggressiva da duro (è cresciuto tra una base dell’Air Force e l’altra, al seguito della mamma, Jennifer Johnson, militare di carriera), Tyler, quattro anni da leader con i Bulldogs e undrafted nel ’14, si è guadagnato la NBA passando per la D-League, attraverso la trafila dei contratti decadali, sino a siglare un biennale nello scorso inverno.

Di sé, Johnson dice: “Non entro in campo per segnare, abbiamo altri giocatori che lo sanno fare; sto in campo per difendere, fornire una scintilla, far succedere cose”, ed è probabilmente la miglior descrizione possibile per una guardia che non disdegna il piazzato, ma muove le difese con il suo dinamismo.

Davanti a lui, partono in quintetto lo sloveno Goran Dragic e Dwyane Wade, che ha scoperto la formula per ritornare in grandi condizioni atletiche (chiusa la decennale sinergia con Tim Grover, si è affidato al trainer Dave Alexander, è dimagrito e ha moltiplicato le ore d’allenamento) tanto da sembrare più in salute a 33 anni (ne farà 34 domenica) rispetto a due o tre stagioni fa.

La sua linea statistica (18.5 punti di media, 4.1 rimbalzi e 4.6 assist, con il 45% dal campo e un usage del 31.2%) continua a declinare, ma è chiaro che, slump al tiro o meno, l’ex-Marquette sta meglio rispetto a quando ginocchia e problemi assortiti lo costringevano a saltare almeno 20 partite l’anno. Nelle parole di Flash, il risultato è che: “Non ho giocato sempre e solo buone gare, ma me le sono godute tutte, perché stavo bene, e sono fisicamente in grado di fare quel che voglio”.

 

Al suo fianco, c’è Dragic, play ventinovenne cresciuto all’ombra di Steve Nash, sul quale Riley ha scommesso con convinzione (contrattone da 85 milioni in 5 anni), e che sta ancora metabolizzando un basket nel quale non ha sempre palla in mano. Sul talento dello sloveno però non si discute, tanto che Spoelstra l’ha definito (esagerando un poco): “Un motore incredibile di energia, velocità ed entusiasmo”.

La situazione salariale di Miami non è rosea (sono ventun milioni oltre il Salary Cap), ed è opinione diffusa che Riley stia cercando di alleggerire la luxury tax scaricando i 5 milioni di Chris Andersen, costoso e senza spazio in un roster che punta su Amar’e Stoudemire e Udonis Haslem per fornire esperienza e talento (rispettivamente offensivo e difensivo).

Che questa stagione si finisca con una cavalcata esaltante (non parliamo necessariamente di anello) o con un mesto calando, l’estate prossima gli Heat avranno sotto contratto solo Bosh, Winslow, Stokes, Richardson, Dragic e McRoberts, mentre il Salary Cap farà un balzo da 70 a 89 milioni circa, garantendo a Miami 41 milioni di spazio per rifirmare Whiteside, Johnson (e ovviamente Wade, che l’estate scorsa paventato l’addio, prima di rifirmare e far tirare un sospiro di sollievo alla città, che lo ha ringraziato calorosamente), lasciando il margine di manovra sufficiente per aggiungere altri “pezzi”.

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L’unico free agent che sposterebbe veramente gli equilibri è Kevin Durant, che, essendo in altre faccende affaccendato –leggi: vincere con i Thunder-, non parla del futuro (posto che gli aruspici suggeriscono una tra OKC, Lakers e Washington, dov’è nato). In fondo però, anche nell’estate del 2010 i Miami Heat arrivarono alla free-agency a fanali spenti, e sappiamo com’è andata a finire; chissà che a sei anni di distanza, la storia non si ripeta…

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