Non siamo la stessa squadra dello scorso anno”.
Pat Beverley e Jason Terry l’hanno ripetuto in coro ai giornalisti che cercavano lumi al termine dell’ennesima prestazione sconcertante di un gruppo che sette mesi fa conquistava la Finale della Western Conference (la prima dal lontano 1997), e che ora sbanda vistosamente.

Qualcosa è cambiato, è chiaro. Non è tanto una questione di schemi (che, a ogni buon conto, sono saltati) ma di linguaggio del corpo. Una volta calata l’intensità, è emersa l’approssimazione difensiva di coach Kevin McHale, e i limiti di un modo di assemblare il roster che presta poca attenzione all’effettiva compatibilità dei giocatori.

La scorsa primavera avevamo lasciato i Rockets auspicando che il grande 2014-15 del Barba fossero solo l’inizio del percorso verso la piena maturità cestistica: il salto di qualità sarebbe coinciso con più difesa, e meno ricerca ossessiva del fallo in ogni occasione. Meno giochetti, e più hustle plays.

Al training camp però, il ventiseienne Harden si è dimostrato assai più preoccupato per l’MVP sfumato (“Pensate che non possa far meglio? Vedrete”) che per l’eliminazione inferta da Golden State. Si è presentato in ottime condizioni atletiche, ma, per ragioni ignote, è tornato ad omettere completamente la fase difensiva.

Attenzione: non parliamo di un cattivo difensore come Steve Nash, che pur impegnandosi, non riusciva a fermare nessuno, ma di un ragazzo che, pur avendo tutto per poter difendere bene, sembra aver stabilito scientemente di non essere interessato a quell’aspetto del gioco, e questo sorprende, visto che James è tutt’altro che uno sciocco.

Di fronte all’atteggiamento sconcertante di Harden, il gruppo si disuniva, il nuovo arrivato Ty Lawson (com’era prevedibile) assommava i propri problemi personali e difensivi a quelli della squadra, mentre Kevin McHale provava in qualche modo a tappare le falle, attribuendo le difficoltà del club alla mancanza di ritmo offensivo.

Col passare delle settimane però, la situazione è rimasta invariata; i giocatori hanno tenuto un incontro riservato dal quale è emerso un certo fastidio verso l’atteggiamento di Harden, definito distante, distaccato (“aloof”). Per tutta risposta, è stato licenziato McHale, che aveva appena invitato il barbuto californiano a difendere un po’ meglio.

La squadra non rispondeva più a coach Kevin McHale”, ha spiegato Morey, “e quindi ci siamo dovuti prendere la responsabilità di una scelta difficile”, rimpiazzandolo con John-Blair Bickerstaff, figlio di Bernie, e architetto della difesa di Houston, alla prima esperienza da head-coach.

Con il giovane Bickerstaff il record è migliorato, certo, ma i problemi dei Rockets sono ancora tutti lì da risolvere: Houston è discontinua, ha una circolazione della palla –quando c’è!– perimetrale, un solo giocatore con personalità e capacità di creare gioco, e una difesa che alterna con disinvoltura prove eccellenti e prestazioni inguardabili.

Hoston è la penultima squadra NBA per km percorsi nella metà campo offensiva, e solo sei squadre fanno meno passaggi di loro, tuttavia i Rockets sono 18esimi per percentuale di assist a partita (21.3); questo significa che Houston non costruisce tiri muovendo la palla e gli uomini, ma continuando ad affidarsi all’uno contro uno di James Harden, che batte il difensore, attira il raddoppio, e pesca il compagno libero.

La shot chart dei Rockets quest'anno...

La shot chart dei Rockets quest’anno…

La squadra NBA che fa meno passaggi in assoluto è OKC (dove Harden ha ricevuto, non a caso, il proprio imprinting cestistico), pur vantando un buon numero di assist, costruiti secondo il medesimo schema dei Rockets: palla a Westbrook (o Durant) e pedalare. Per questo motivo a giugno Sam Presti ha licenziato coach Scottie Brooks, ma anche il suo successore, Billy Donovan, sta trovando difficoltà nel costruire un attacco meno monocorde.

Kevin McHale era stato abile nel “vendere il sistema” di Daryl Morey, mediando tra le tendenze di Harden e la sabermetrica, ammorbidendo Dwight Howard –che era arrivato in Texas per fare il lungo di post basso– e, in generale, gestendo un gruppo assemblato con indubbia bravura nello scovare affari, ma senza troppa attenzione alla chimica cestistica.

Daryl Morey è uno dei migliori GM della NBA: nel giro di due anni ha catturato James Harden e Dwight Howard, ha scoperto e poi perso sulla free-agency Chandler Parsons, sostituendolo con Trevor Ariza. Ha scovato Clint Capela, Terrence Jones, Patrick Beverley, e la lista potrebbe andare avanti; però ha riempito Houston di giocatori psicologicamente particolari (come le due stelle) o fatto scelte bizzarre: d’accordo munire la squadra di un secondo creatore di gioco, ma siamo sicuri che sia una buona idea affiancare due pessimi difensori negli spot di guardia?

Di James Edward Harden jr abbiamo già scritto: se statisticamente sembra ancora un candidato MVP (l’ex Arizona State segna 28 punti a serata, conditi con oltre 6 rimbalzi e 6 assist), il discorso cambia radicalmente guardandolo giocare. Sarà forse distratto dal nuovo contrattone con Adidas, o dal fidanzamento con la temibile Khloe Kardashian, ma è chiaro che c’è qualcosa che non va.

Non segue i tagli, buca l’assignement, si distrae, e questo si riflette nelle cifre: se i suoi avversari tirano abitualmente con il 44% dal campo, contro di lui hanno il 47%. In ogni singola zona del campo, con Harden in marcatura, le percentuali degli avversari s’impennano.

Non parliamo poi della difesa in aiuto, che, non dovrebbe essere un optional:

Nella scorsa stagione, con il Barba finalmente coinvolto anche nella propria metà campo, la gang dei panchinari era pronta a giocare col cuore e a provocare parziali, ma appena Harden è tornato a fare la sagoma di cartone, i Rockets sono passati da sesti al ventinovesimi per defensive efficiency. Coincidenza?

L’altra stella della squadra, Dwight Howard (che pare abbia difeso McHale fino all’ultimo), anziché aiutare in nuovo allenatore e il gruppo a uscire dal pantano, scalpita per cambiare aria, e intanto continua come sempre ad alternare giocate spaziali

e pause mentali inspiegabili, che in parte giustificano il suo scarsissimo coinvolgimento offensivo.

In singola partita i Rockets possono ugualmente battere i Thunder o i Clippers, o persino gli Spurs, ma non hanno la continuità delle grandi squadre: subito dopo aver sconfitto Duncan con una gran prestazione, si sono fatti superare dalla non irresistibile New Orleans. Parlando con i giornalisti dopo la sconfitta, Bickerstaff non ha fatto nomi: “Devo fare un lavoro migliore nel mandare in campo solo chi ha ben chiaro quali siano le priorità”.

Il nostro problema” ha continuato Bickerstaff, “è che dovremmo fare le cose per bene, perché è così che vanno fatte, non perché ne ricaverò un canestro, oppure ne uscirò con un tiro o con la gloria”. Sono ragionamenti correttissimi, ma forse qualcuno dovrebbe rivolgerli direttamente all’autoproclamato miglior giocatore della NBA.

Già, ma chi? L’ultimo ad averci provato è McHale, e sappiamo com’è andata a finire. Per il momento Morey ha scelto di ignorare l’elefante nella stanza, giocato la più scontata tra le carte a sua disposizione: licenziare il coach. Tuttavia cambiare allenatore può pagare dividendi solo fino ad un certo punto.

La seconda possibilità sul tavolo di Morey è ricorrere ad una trade che faccia un po’ di pulizia nello spogliatoio, e negli States sono già circolate diverse ipotesi, che però non ci sembrano risolutive, perché per riportare l’armonia al Toyota Center non basterà certo allontanare Terrence Jones, Donatas Motiejunas, o Cory Brewer.

Si sta parlando molto di Markieff Morris, PF dal carattere non facilissimo, separato in casa con i Suns: Morris è un giocatore di buon talento, ma non aggiungerebbe nulla al roster di Houston, già colmo di stretch-four, e che non sente il bisogno di un ennesimo giocatore dal comportamento men che esemplare.

Il giornalista Chris Sheridan ha anche parlato di uno scambio tra Miami e Houston che coinvolgerebbe Hassan Whiteside e Dwight Howard, che a luglio saranno free agent, ma ci sembra fantascienza, perché gli Heat non avrebbero veramente nulla da guadagnarci, e lo stesso vale per Brook Lopez e i Nets.

Ryan Anderson potrebbe essere molto più abbordabile, ma, anche qui, stiamo parlando dell’ennesimo buon giocatore che non cambia certo l’orizzonte tecnico dei Rockets. Qualcuno ha menzionato anche di Al Horford, ma il figlio di Tito è al centro del progetto di Mike Budenholzer, che sarebbe intenzionato a offrirgli un cospicuo prolungamento.

Ci sembra che, a dispetto dell’etichetta di maestro dell’analytics, Morey abbia scelto di percorrere le solite tappe del GM che le prova tutte (il licenziamento del coach, qualche trade), vittima delle circostanze che ha contribuito a creare. In questo momento sarà importante tenere i nervi saldi e analizzare con oggettività cosa non è funzionato, per evitare di ripetere gli stessi errori in futuro, e di prendere decisioni avventate.

Dal canto suo, James Harden è dinnanzi ad un bivio importante e ineludibile: da un lato, può continuare come sta facendo, ed essere ricordato come un personaggio di culto, ma non certo come un vincente. Se invece farà ordine tra le proprie priorità, accettando di guidare il gruppo non solo con i tiri, ma con l’esempio e il sacrificio, allora per lui si spalancheranno le porte della vera grandezza.

2 thoughts on “I problemi dei Rockets, tra James Harden e sabermetrica

  1. Quando Houston prese Howard mi capitò di predire ad una tifosa dei Rockets che con il centrone non avrebbero mai vinto il titolo. DH è fortissimo intendiamoci, ma non è leader, non è un campione, non ti vincerà mai da solo una serie di p.o importante, però vuole soldi e venir considerato uno dei primi 5-6 della Lega. Se Houston riesce a sbolognarlo ci guadagnerà solamente. Harden invece potrebbe essere uno su cui costruire una squadra da titolo, certo difende zero, ma in NBA non sarebbe la prima stella a farlo, però ecco al momento Houston non mi sembra vicina al titolo mancano troppi pezzi, partendo dalla cessione di DH e trovarne uno o simile o che possa garantire però punti, rimbalzi e difesa perchè se per vincere ti ci vuole una stella vera(Harden), ci vuole però anche un secondo violino(+ 2,3 elementi molto forti)di peso.

  2. Penso che sia veramente difficile trovare un pollo disposto a prendersi Dwight Howard, e il problema è che con lui in squadra non vinci. Può sembrare un’affermazione esagerata, ma è una star NBA senza essere un giocatore di basket, e ormai, anche il suo status di stella è in discussione, quindi cosa resta? Qualche giocata sopra al ferro, le stoppate, ma anche tanti, troppi passaggi a vuoto, l’incapacità di lavorare seriamente su qualcosa di diverso dal suo fisico.

    James Harden è diverso, e ai tempi di OKC pensavo (senza avere il coraggio di dar voce alla mia idea) che tra lui, Westbrook e Durant, il più forte fosse il barba, che usciva dalla panca, è vero, ma era il miglior “giocatore di basket” del trio, tecnico, potente, veloce, completo.
    A Houston è sbocciato come attaccante, ma ho anche visto un lato di lui che mi ha fatto passare la poesia, e parlo della continua (a volte demenziale) ricerca del fallo, e un atteggiamento difensivo che va ben oltre il classico “risparmiarsi” della stella.

    Ora, non tutte le squadre possono giocare per vincere il titolo, e va bene così, a penso che Houston dovrà rivedere molte cose, da qui all’estate.

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