L’esito delle ultime due Finali NBA, marchiate dal dominio dei quattro – o addirittura dei cinque – esterni, ha convinto molti allenatori e GM a guadare il Rubicone, e prepararsi a “andare small”.
Mentre tante squadre s’attrezzano per giocare in velocità (l’esempio più eclatante è quello dei Pacers di Larry Bird e Frank Vogel, che sono passati da un estremo a quello opposto), i San Antonio Spurs hanno invece deciso di marciare in una direzione differente rispetto alla tendenza che loro stessi hanno contribuito a creare.
Dopo aver visto Golden State vincere l’anello con Draymond Green schierato da centro, e dato uno sguardo ai free-agent disponibili, Pop ha optato per un cambio d’assetto, munendosi di lunghi balisticamente pericolosi, coniugando così centimetri (che in questo sport non hanno mai fatto male) e capacità di spaziare il campo mediante il tiro.
Uno “spacing” efficiente non dipende infatti dai centimetri degli interpreti, quanto dalla pericolosità al tiro, che impedisce alla difesa di battezzare un giocatore e così di flottare in aiuto.
Alla stessa stregua, un buon attacco non produce necessariamente conclusioni veloci o da tre punti, quanto piuttosto tiri che siano qualitativi e in ritmo (il “tiro eccellente”, nel gergo di Alvin Gentry), e questo si può fare anche con due lunghi in campo, se hanno le caratteristiche giuste.
Ecco allora il nuovo roster degli speroni: i partenti (Baynes, il rimpiantissimo Marco Belinelli, Cory Joseph e Tiago Splitter) sono stati sostituiti da David West, LaMarcus Aldridge, Rasual Butler e, in subordine, Boban Marjanovic, ennesima presa europea di una formazione che ha un occhio di riguardo per il vecchio continente.
I rapporti di forza interni al roster si sono spostati in favore della front-line, mai così ricca e profonda, ma lo spirito è rimasto intatto, e fa rima con flessibilità.
La squadra a geometria variabile degli scorsi anni (che poteva indifferentemente giocare con Boris Diaw da cinque, oppure proporre il ticket Duncan-Splitter sotto le plance) è cambiata negli interpreti, ma non nella filosofia, ossia la capacità di cambiare pelle secondo le esigenze tattiche.
Al momento di scrivere, il quintetto più usato da Pop è quello con Aldridge e Duncan, Leonard, Green e Parker, che cattura 15 rimbalzi di media in 14 minuti abbondanti, quasi il doppio del secondo miglior five (con West al posto di LMA). Dietro ad esso, ci sono ben nove quintetti compresi tra i 6 e i 4 minuti di impiego, ad ennesima conferma della grande varietà di soluzioni a disposizione dell’ex agente della CIA.
Naturalmente le poche gare trascorse dal Tip-Off 2015-16 non costituiscono un campione statistico indicativo, e dunque l’avvertenza è di non dare troppo peso alle cifre, concentrandoci sulle sensazioni del campo e rimandando ogni conclusione, se non proprio al termine della Regular Season, almeno alla pausa dell’All Star Game.
Anziché usare lo spazio salariale per rafforzare un poco tutti i reparti, gli Spurs hanno preferito corazzarne uno soltanto, nella speranza di cogliere impreparate delle difese ormai disabituate alla presenza di due lunghi, togliendo pressione dal settore esterni, che vanta giocatori nel pieno delle forze, come Patty Mills, lo strepitoso Leonard, e Danny Green, ma deve fare i conti con l’inevitabile declino atletico di Tony Parker e di Manu Ginobili.
È nata così una nuova versione dei nero-argento, che per certi versi costituisce la sintesi ideale tra le origini (quando San Antonio era sinonimo di gioco interno e “torri gemelle”) e le ultime evoluzioni: questa è una formazione congegnata per mischiare le carte e sfruttare l’abilità dei lunghi, tutti ottimi tiratori e splendidi passatori dal gomito.
David West ha firmato con i nero-argento lasciando sul piatto parecchi dollaroni, sacrificati per inseguire il titolo NBA che non è riuscito a conquistare a New Orleans e Indianapolis. Di fatto, rimpiazza Baynes, rispetto al quale, con tutto il rispetto, non c’è paragone: giocatore di durezza tutta “old-school”, West è una PF capace di spostare il pianoforte e di suonarlo, legge le situazioni di gioco, blocca e passa la palla in modo più che competente, pur senza essere uno Stravinskij della palla a spicchi.
Il discorso è più complesso per quanto concerne LaMarcus Aldridge, l’ala forte voluta a tutti i costi da Gregg Popovich. LMA è il giocatore che garantirà continuità ai texani anche dopo il ritiro di Tim Duncan, Parker e Ginobili (lo scorso 1 novembre hanno superato Parish, McHale e Bird come trio più vincente di tutti i tempi) ma arriva da una realtà e da un tipo di cultura sportiva troppo diversa da quella degli Spurs per non soffrire la transizione.
Se le caratteristiche tecniche di LaMarcus ne fanno un giocatore tagliato dal sarto per lo stile di San Antonio, non si può dire lo stesso per le abitudini maturate in tanti anni a Portland; il sistema di coach Stotts gli ha consentito di accedere definitivamente all’Olimpo degli All Star, ma è altresì corretto notare che lo ha assuefatto a ragionare e comportarsi da Go-To-Guy.
Tradotto, difendeva a corrente alternata, e tendeva a favorire le proprie conclusioni (con un Usage Rate che l’anno passato ha raggiunto il 30%) dai propri spot prediletti rispetto alle letture, anche a costo d’esser assai prevedibile: basta dare un’occhiata alla sua heat-map.
Sono problemi dei quali R.C. Buford e Popovich erano ben consci al momento della firma, e infatti nessuno si sta preoccupando più di tanto se Aldridge non sta avendo un rendimento da MVP. In fondo, il sistema degli speroni vive di familiarità, e questa si acquisisce solo con il tempo e il lavoro.
Il primo a rendersi conto di doversi adeguare al sistema è Aldridge, che già lo scorso anno tirava con un eccellente 51% dal campo quando i suoi possessi duravano meno di due secondi, e solo con il 42% quando invece prolungava oltre le proprie ricezioni: per quanto possa essere un tiratore sensazionale, neppure lui può permettersi conclusioni senza ritmo, o limitarsi al compitino difensivo.
In questa prima fase, Aldridge si sta sforzando di prendere decisioni istantanee (il 62% delle sue conclusioni ha luogo dopo meno di 2 secondi dalla ricezione) ma sta tirando maluccio (43.9%, con un misero 32.4% in catch-and-shoot) nonostante non gli mettano quasi mai una mano in faccia, mentre, per assurdo, sono cresciute le sue percentuali nei tiri presi tra i due e i sei secondi (50%), perché sono conclusioni per lui automatiche, e le prende senza essere marcatissimo come ai tempi dei Trail Blazers.
In difesa, sta concedendo appena il 39.1% ai diretti avversari (contro una media del 45.5%), ed esce anche sul tiro da tre, ma non è mai stato l’assignement il suo problema, quanto la difesa in aiuto, in prima e soprattutto in seconda rotazione, ed è su questo che il coaching staff sta lavorando.
Qualcuno aveva rievocato un altro innesto poco riuscito nel sistema degli Spurs, quello di Richard Jefferson, che all’ombra dell’Alamo non trovò mai il proprio ritmo; non ci sembra un confronto calzante, vuoi per la superiore statura tecnica dell’ex Blazer, vuoi per la perfetta compatibilità tecnica di LMA con le soluzioni di gioco di Pop e del suo vice Messina, ad esempio rispolverando i vecchi alto-basso:
Il suo tiro, mortifero e scoccato da altezze vertiginose, è perfetto per spaziare il campo;
In più, sa pescare i compagni vicino a canestro
Oppure in taglio, e questo è un aspetto che porterà benefici ai vecchi marpioni come Tony Parker (con il quale gioca molto in pick-and-roll) e Manu, che non hanno più l’esplosività per entrare con la moto dal palleggio, ma possono vivere di astuzie e rubacchiare dei tiri facili giocando il back-door o tagliando.
L’alchimia giusta consiste nell’imparare a fare affidamento sulle qualità individuali di Aldridge senza stravolgere un sistema che fa del collettivo la propria forza: molto facile a dirsi, assai meno a farsi, senza, con questo, voler presumere di sapere come andrà a finire il film dopo aver visto i titoli di testa.
Volgendo ora l’attenzione agli esterni, gli infortuni di Tony Parker (che viene da un 2014-15 non positivo, ma ha detto di voler arrivare a 20 anni in maglia nero-argento) preoccupano il pubblico dell’AT&T Center, perché Patty Mills è più fresco atleticamente, porta una preziosa scintilla dalla panchina, ma non è in grado di prendersi le stesse responsabilità del francese.
Parker, che da anni convive con gli infortuni, non da più l’impressione di poter sempre e comunque finire al ferro, caratteristica che l’ha accompagnato nel corso della sua carriera, ma sta ugualmente tirando in modo efficiente, con un 54% dal campo (e un incredibile 43% da dietro l’arco) che supplisce alla limitata reattività fisica.
Il reparto guardie è quello più critico per gli Spurs, perché ha solo quattro giocatori di rotazione, due dei quali non possono certo stare in campo per 48 minuti, e quindi c’è poco margine per gli errori: Duncan -che non ha nulla da invidiare a Phil Jackson- ha detto che “andrà tutto bene, a patto che Danny smetta di fare schifo”.
Danny Green, che pure continua a difendere da par suo, sta stentando parecchio al tiro (vanta un 41% in carriera da tre che fa a pugni con l’attuale 22%), mentre l’Anguilla di Bahia Blanca, con un’autonomia limitata a meno di venti minuti per gara, segna con grande efficienza e non sembra essere al lumicino delle energie.
Nonostante questi piccoli difetti, al momento di scrivere San Antonio tira con un 48.8% che è il miglior dato di tutta la NBA e va a braccetto con la sesta percentuale per assist a partita (25.4), il secondo miglior margine di vittoria (10.57 punti), l’ottavo ORtg e il secondo DRtg a 94.4%, e un ottimo fatturato dalla panchina. Sono dati che fanno molto ben sperare per il prosieguo del cammino, quando Aldridge e Green ingraneranno le marce alte.
È palese che la priorità di San Antonio sia arrivare ai Playoffs senza infortuni e con benzina nel motore, anche a costo di lasciare una manciata di vittorie per strada, un po’ come fecero i Boston Celtics del 2010, a lungo dati per bolliti, ma capaci di conquistare una Finale NBA persa solo negli ultimi possessi di una selvaggia Gara 7.
Posto che West e Aldridge consentiranno a Diaw e Tim Duncan di prendersi delle pause senza pagare eccessivo dazio, la sfida è di riuscire a costruire un gioco che consenta di tenere in campo il più possibile Green e Mills, ottimi giocatori di sistema, che però non sono in grado di fornire la stessa qualità dal palleggio dei Parker e Ginobili dei tempi belli.
Questo si traduce in maggiori responsabilità per Kawhi Leonard (sta studiando i videotape di Jordan e Barkley per capire come reagire ai raddoppi), divenuto la prima opzione della squadra, ma al contempo invitato dal suo allenatore a non mettere da parte la propria natura two-way, che gli ha fruttato un MVP delle Finals, ma anche un titolo di Difensore dell’Anno.
Kawhi sta rispondendo alla grande, forte anche di un’estate libera da infortuni, durante la quale ha finalmente potuto lavorare sul proprio gioco: sta viaggiando a 22.1. punti con 7.6 rimbalzi, due rubate e 1.4 stoppate, l’Usage Rate più alto della sua carriera, ma senza eccessi di protagonismo, confermando di essere un vero grande giocatore, uno che sa eccellere rispettando il sistema e non a discapito di esso.
Ormai, anche il suo jumper è diventato automatico:
Alle sue spalle, gioca benissimo Butler, che si è inserito senza il minimo problema, e inizia a vedere il campo anche il secondo anno Kyle Anderson, che però deve ancora trovare il proprio ruolo all’interno del sistema popoviciano, ma ha tutto per fare bene, specialmente con un minutaggio limitato.
Dulcis in fundo, la pietra angolare della franchigia, Tim Duncan, che ormai statisticamente non impressiona come un tempo, ma resta il leader del gruppo, e dedica i suoi 27 minuti d’impiego a fare piccole cose d’indicibile intelligenza, dai blocchi alle spintarelle a rimbalzo, dagli extra-passes alla difesa del ferro.
Gli Spurs sono questo, tradizione e innovazione, punti di riferimento storici, ma anche capacità di reinventarsi. Duncan, e Aldridge. Ginobili, e Leonard. Una cosa è certa: ci terranno compagnia ancora per tanti anni ancora!
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.
Grande articolo Francesco, complimenti! Io ho sentito che i San Antonio Spurs hanno acquistato Aldridge ed altri anche perchè il proprietario Peter Holt è un grandissimo patriotra ed è rimasto infastidito dal fatto che si diceva che gli Spurs fossero una “squadra europea”, perciò ha voluto americanizzarla un po’. Sai niente di questo?
Grazie al fatto che San Antonio è stata una squadra “europea” (che vuol dire poi? Duncan è, di fatto, americano, Ginobili argentino, Parker franco/usa, l’allenatore americano, Leonard e Green pure, e poi Horry, Finley, Bowen, Robinson? Tutti americani mi pare) ci ha vinto 5 titoli! Dubito che Aldrige sia stato preso per “americanizzare”
Sono d’accordo con te, Kevin, ma non l’ho detta io questa cosa, l’ho letta da buffoni come Sergio Tavcar!
Bell’articolo! Ma non fate più il power ranking per l’nba???
Grazie per i complimenti, ragazzi.
Non credo che la nazionalità di Aldridge abbia giocato il benché minimo ruolo nella scelta degli Spurs di firmarlo. Semplicemente, non è ragionando così che si gestisce un club NBA, men che meno uno di grande successo.