Durante gli anni in cui evoluiva sul parquet la coppia formata da T-Mac e Yao gli Houston Rockets si erano costruiti una nomea tutt’altro che eccelsa.
A fronte di risultati costanti all’interno della regular season la squadra non era difatti riuscita a superare il primo turno di playoff per molto tempo, un conseguimento che sarebbe arrivato solamente nella primavera del 2009 solo per schiantarsi subito dopo, complici anche gli infortuni, contro i Los Angeles Lakers.
A quell’edizione, passata dall’oggi commentatore Jeff Van Gundy a Rick Adelman senza grossi progressi nonostante il talento a disposizione, non era rimasto più nulla da spremere, conseguendo in un logico via alla ricostruzione attraverso un progetto che mirava a voltare pagina nel più breve tempo possibile cambiando l’aspetto di una franchigia che pareva sciogliersi al primo appuntamento difficile della stagione.
Salutato anche Adelman, le stagioni passate sotto le direttive di Kevin McHale sono state un continuo progresso, almeno a giudicare dal numero di vittorie conseguite: 34, 45, 54, fino ad arrivare alle 56 dello scorso campionato.
Tuttavia non è ancora stato chiarito un dubbio, ovverosia se questa squadra possa sul serio definirsi pronta al grande salto di qualità. L’incubo del primo turno si è rifatto vivo di recente sotto forma dell’enorme delusione di quel 4-2 contro Portland ed il ricordo di quel doloroso tiro di Damian Lillard a chiudere la serie, un’azione che aveva ancora una volta lasciato i Rockets ad un’estate piena di riflessioni, una stagione da 50 vittorie ed un’uscita di scena dopo solo 6 partite di postseason, avviando subitanei paragoni, se non altro per analogia di risultati, all’era di Sleepy Eyes e del Cinese.
Durante la primavera scorsa il messaggio mandato da Houston è stato però ben differente.
La squadra non è riuscita ad evitare di farsi guardare con sospetto nonostante una stagione regolare condotta con un’ottimo ruolino di marcia e chiusa con il maggior numero di vittorie dal campionato 1996/1997 (allora furono 57, ed in panchina c’era la leggenda locale Rudy-T), questo perché i Razzi avevano mal gestito la loro posizione di seed numero due nella Western Conference facendosi rimontare dalle concorrenti, ma terminando ugualmente in quella posizione per merito di una favorevole combinazione di eventi che ebbe luogo durante l’ultima serata di gare di regular season.
Lo scetticismo non ha mai abbandonato James Harden e compagni, nonostante il netto dominio con cui si è conclusa la serie di primo turno contro dei Dallas Mavericks mai in grado d’impensierire gli uomini di McHale.
E qui torniamo alla svolta epocale, che anche in questo caso rievoca piacevoli ricorsi storici, una situazione dove sarebbe bastata una spintarella appena accennata e tutto il lavoro di una stagione sarebbe caduto rovinosamente giù, risucchiato dal burrone che i Rockets hanno più volte rasentato durante la battaglia contro i Clippers.
Sotto 1-3, proprio come vent’anni prima contro Barkley e Phoenix, soffiati via dal bacio della morte di Mario Elie dando il là al percorso che avrebbe portato al secondo titolo della Clutch City, i Rockets non si sono dati per vinti nemmeno davanti agli sbeffeggiamenti di Griffin e compagni, oramai pienamente convinti di aver ridotto in briciole una squadra che in più di un’occasione aveva dimostrato di essere estranea al secondo turno, e quando gli eventi parevano collocati in perfetto ordine per creare una finale di Conference imperniata sul duello tra Clippers e Warriors tutto è stato incredibilmente stravolto.
Meritato o no, è stato raggiunto un risultato superiore rispetto alle attese di inizio anno, la prima finale di Conference degli ultimi 19 anni (era stata ottenuta nel già mezionato anno delle 57 vittorie), una sconfitta netta contro degli Warriors evidentemente superiori e futuri Campioni NBA, dopo la quale il vociare si è fatto sempre più intenso.
Il chiacchierio è quello delle tante persone che si chiedono se Houston sia pronta per alti palconscenici quando i fatti parlano di un team schiacciato da parziali mortiferi causati dall’inceppamento dei meccanismi offensivi, in alcune circostanze troppo tendenti ad un ristagno dato dall’affidarsi totalmente a James Harden aspettando che fosse sempre e solo lui a tirare fuori la squadra dalle secche, un sovraccarico di lavoro che in alcuni casi ha dato i suoi frutti (molte partite le ha vinte, si può dire, da solo), e che in altri ha semplicemente determinato il bisogno di trovare delle altre opzioni se davvero si vuole crescere e provare ad affrontare il passo successivo.
In ogni caso, tutto passa dal Barba e dalla sua capacità di catalizzare l’attenzione delle difese aprendosi un ventaglio di opzioni con cui concludere l’azione. Harden è uno dei giocatori più veloci di tutta la NBA a far sparire e riapparire il pallone causando falli a volontà (nella regular season scorsa ha tentato 10.2 liberi a gara realizzandone quasi 9), i suoi movimenti in entrata sono così difficili da decifrare anche per gli arbitri che il fischio a suo favore è oramai quasi inevitabile.
Le sue penetrazioni a canestro generano giochi da tre punti, aprono il campo per i tiratori esterni, creano in molti dei casi dei movimenti da parte della difesa che possono conseguire in un cambio di marcatura favorevole per l’attacco, specialmente in quei casi in cui Harden si ritrova in isolamento con un avversario meno veloce di lui.
Il punto è proprio questo, l’isolamento. Anche nei playoff il sistema offensivo di Houston si è bloccato a causa dell’eccessiva ripetitività di questa situazione, un inutile intestardirsi che ha provocato scarsa efficienza in attacco, palloni persi e rientri difficoltosi per la difesa, spesso un passo indietro rispetto allo sprinter avversario di turno.
Quando Houston è stata pericolosa lo ha fatto sovrastando in velocità l’opposizione, lo si è visto in maniera cristallina contro Dallas, questa è una squadra costruita per cambiare rapidamente le marce nelle ripartenze dopo il rimbalzo, creare superiorità numerica e andare facilmente a canestro con l’alternativa sempre presente di rispedire il pallone sul perimetro per una delle frequentissime fucilate da oltre l’arco.
Per migliorare la combinazione di questi due aspetti il General Manager Daryl Morey ha acquisito Ty Lawson da Denver, prendendo in aggiunta una scelta di secondo giro e spedendo in direzione contraria Pablo Prigioni, Kostas Papanikolau, Nick Johnson, Joey Dorsey ed una scelta di primo round protetta. Se da un punto di vista tecnico la mossa non fa una piega, il rischio è insito nel vortice psicologico in cui è caduto il playmaker di provenienza North Carolina, fermato per ben due volte guidando “under the influence” nel corso del 2015 e con alle spalle una storia di abuso di alcol.
Con la prospettiva di un ambiente nuovo e motivazioni rinfrescate, Lawson, se mentalmente presente, può essere la cura per i mali dei Rockets. E’ una guardia non alta ma che sa come usare un fisico in ogni caso robusto, possiede velocità per la suddetta transizione e rapidità di movimenti, può essere l’opzione offensiva aggiuntiva che si andava cercando.
Anzitutto perché toglierà parecchi palloni dalle mani di Harden, cui verrà chiesto di finalizzare senza necessariamente iniziare l’azione, e quindi perché sa lavorare bene gestendo le varie situazioni di screen andando a concludere personalmente o favorendo i pick’n’roll, un altro punto di potenziale forza di Houston, con Dwight Howard ed il sorprendente Clint Capela quali destinatari principali.
Già, Dwight Howard. Molto spesso criticato per la mancanza di leadership e per l’essere un uomo-franchigia sopravvalutato, il big man è un altro fattore fondamentale per gli equilibri e le ambizioni di questa squadra, dato che la sua presenza difensiva è stata certamente tra le ragioni per cui i Rockets hanno percorso così tanta strada.
A chi nutriva dubbi su di lui Dwight ha risposto giocando 35 minuti di media contro Golden State mantenendo la doppia cifra per punti e rimbalzi (14+14) pur soffrendo di un lieve danno al legamento mediale collaterale ed al menisco del ginocchio destro patito in Gara 1, un infortunio che fortunatamente non ha avuto come conseguenza l’intervento chirurgico e che oggi appare già dimenticato, un aspetto di capitale importanza se si pensa alla cronologia infortunistica del soggetto.
Giunto meno usurato degli altri alla postseason dopo aver saltato la prima metà del campionato regolare Howard ha mostrato movenze atletiche nei pressi del canestro che non faceva vedere da parecchi anni a testimonianza del recupero di una parte dell’esplosività che aveva in gioventù, difensivamente è stato a tratti dominante anche se resta un po’ di lavoro mentale ancora da svolgere, diventando più scaltro nell’evitare falli sciocchi (ed uscite premature dal campo) cercando di non farsi prendere dalla frustrazione quando la situazione si fa difficile.
Due superstar ed una guardia di ottimo livello rappresentano il punto di partenza, ed il resto del roster è stato intelligentemente mantenuto pressoché intatto, con la sola eccezione dei giocatori scambiati per Lawson, in ogni caso appartenenti solo occasionali alle rotazioni (tranne Prigioni), e di Josh Smith, che ha preferito firmare per quei Clippers che lui stesso ha contribuito ad affondare durante gli scorsi playoff.
La formazione vedrà due importanti rientri da infortuni come quelli di Patrick Beverley e Donatas Motiejunas, due elementi che sarebbero serviti per dare profondità al roster in alcuni momenti chiave della postseason.
Con Beverley i Rockets ritrovano il loro difensore più aggressivo e fisico, un elemento che ama guastare il palleggio del diretto avversario disturbandolo in cerca del pallone rubato o della selezione di tiro meno efficace, una qualità che sarebbe tornata certamente utile nella serie contro Golden State al di là di quelli che sono poi i ben conosciuti limiti offensivi del soggetto.
Il lituano è stato invece il giocatore nettamente più migliorato tra un anno e l’altro, sbocciato grazie alla contemporanea assenza di Dwight Howard e Terrence Jones, mostrando dei movimenti molto consistenti all’interno dell’area ed una difesa generalmente molto ordinata, ritoccando un po’ tutti i massimi di carriera statistici a dimostrazione di aver colto al volo l’opportunità ricevuta.
Dopo essere arrivato lo scorso dicembre in occasione della trade con Minnesota Corey Brewer ha confermato di essere un pezzo di rilevanza per una squadra che punta a vincere consistentemente, mantenendo una media in doppia cifra per punti durante la rimanenza della regular season e ritoccando lievemente verso l’alto i suoi numeri in postseason, occasione nella quale ha toccato quota 15 o più punti in 7 diverse gare con un massimo in carriera nei playoff di 22 contro Dallas.
Tiro da tre e gioco in transizione sono i suoi punti forti, così come lo è la difesa, alimentata tra le altre cose dai suoi fulminei rientri da una parte all’altra del campo.
Le giocate atletiche sono parte del repertorio anche di Trevor Ariza, un (re)innesto decisivo per palloni rubati, difesa e tiro da tre, qualità che unite alla grande esperienza playoff di carriera ne fa un elemento imprescindibile per chiunque desideri giocare a lungo a maggio, puntando a scendere in campo pure a giugno, senza contare Jason Terry, rifirmato nonostante le 38 primavere, un altro veterano di spessore rivelatosi fondamentale nelle Gare 5 e 6 della rimonta contro i Clippers.
Al netto di infortuni gli Houston Rockets sono una squadra completa e profonda, che sembra aver operato il giusto mix tra riconferme e nuovi innesti nell’ottica di provare a migliorare quanto già fatto la scorsa primavera.
Nell’ambiente c’è entusiasmo e consapevolezza di poter fare bene, le motivazioni raccolte dai detrattori possono essere utilizzate quale spinta per mostrare una realtà esattamente contraria a quella dipinta dai critici (ad Harden non è andato giù il mancato MVP, per quanto Curry lo stra-meritasse) e sarà fondamentale il reperimento di un ideale equilibrio nel contrasto che vede un allenatore come Kevin McHale non riuscire a distinguersi per le capacità di aggiustamento a partita in corso, ma al quale va dato merito per aver perseguito in alcune scelte a seguito dell’ottimale sviluppo di alcuni giovani (Capela su tutti).
Il gruppo che ha portato i Rockets a tre vittorie dal disputare le Finali NBA è pressoché immutato, con un po’ di salute in più ed un’acquisizione che può risolvere tanti problemi se non altro il famoso passo successivo non è precluso a priori. E ricominciare a parlare di Clutch City potrebbe non essere così fuori luogo.
Davide Lavarra, o Dave e basta se preferite, appassionato di Nfl ed Nba dal 1992, praticamente ossessionato dal football americano, che ho cominciato a seguire anche a livello di college dal 2005. Tifoso di Washington Redskins, Houston Rockets, L.A. Dodgers e Florida State Seminoles. Ho la fortuna di scrivere per questo bellissimo sito dal 2004.