Sabermetrics è un termine che, nell’immaginario collettivo, equivale a rivoluzione terminologica e concettuale che, partendo dai big data, si prefigge di ribaltare “inefficienze”, e cattiva valutazione dei giocatori; come ogni svolta repentina, anche la Sabermetrica ha incontrato resistenze preconcette e facili entusiasmi.
C’è però una discreta dose di confusione circa cosa sia esattamente questa Scienza Nuova, sulle sue prospettive e sui suoi limiti; tanti desiderano un confortevole rifugio all’ombra del brand più in voga, dal General Manager alla ricerca di appigli per evitare trade sbagliate, sino al neo-laureato del M.I.T. che vuole vendere un modello matematico, ma cos’è, esattamente, la Sabermetrica?
Questa disciplina origina in seno al Baseball (è l’acronimo per la Society for American Baseball Research, fondata nel 1971), uno sport strutturalmente adatto alla resa in termini matematici, perché segue una dinamica segmentata, battuta dopo battuta, inning dopo inning, e conosce solo un numero limitato di interazioni tra giocatori.
Bill James, storico del Baseball e esperto di statistica, descrisse la Sabermetrica come ricerca di conoscenza oggettiva nel suo sport preferito. Per anni ignorato dalla Major League, questo metodo fu ripescato da Billy Bean (il GM degli Oakland A’s), in cerca di un modo di competere ai massimi livelli con un budget contenuto.
La Sabermetrica faceva al caso suo, perché non si concentra sulle statistiche tradizionali, come RBI o Home-Run, preferendo porre l’accento su SLG o OPS, WAR o VORP, ritenute più indicative del vero valore di un giocatore, nel tentativo di scovare professionisti sottovalutati, e quindi disponibili a poco prezzo.
La mitica stagione 2002 degli A’s, chiusa con 103 vittorie e 20 W consecutive, consentì alla Sabermetrica di superare le diffidenze degli esperti e degli appassionati, rovesciando repentinamente il vecchio modo di pensare il Baseball.
Questa contrapposizione tra innovazione e tradizione è stata colta e accentuata da Hollywood, ispirando in particolare due lungometraggi, “Moneyball”, del documentarista Bennett Miller, e “Trouble with the Curve” di Robert Lorenz, schierati rispettivamente dalla parte dei sabermetrici e da quella dei vecchi scout.
Se “Moneyball” (che racconta la storia di Billy Bean, GM di Oakland) è un prodotto cinematograficamente più raffinato, “Trouble with the Curve”, è comunque un film godibile, forte della presenza di Clint Eastwood nei panni d’un vecchio scout costretto a provare la propria utilità nel nuovo Baseball sabermetrico.
La visione di questi due film (assai partigiani) consente di avere una prospettiva a tutto campo, dalle ragioni –perdenti– di chi crede che la tradizione abbia un senso e un valore che sfugge agli algoritmi, a quelle di chi invece è –come il Bean magistralmente interpretato da Brad Pitt– disposto a rivedere le proprie convinzioni e “contare le carte al tavolo del Black Jack”.
Il successo travolgente ottenuto dai sabermetrici nella Major League ha offerto una sponda agli appassionati di statistica come John Hollinger, che, prima nei panni di commentatore per ESPN, e poi come manager (con i Memphis Grizzlies) s’è speso a favore di un uso esteso della matematica sotto canestro, adattando al parquet concetti e formule mutuate per il diamante, a volte in modo un po’ avventuroso.
Dalla Sabermetrica è scaturita la APBRmetrics (Association for Professional Basketball Research Metrics), il cui elemento chiave è che le statistiche vanno parametrate “per possesso”, e che occorre leggere i numeri individuali “per minuti giocati” e non “per partita”, concetti noti già dagli anni ’50 e ’60, ma rimasti a lungo marginali.
La APBRmetrics sfondò solo nel 2003, con la pubblicazione del libro di Dean Oliver, “Basketball On Paper”, sulla scorta del successo degli A’s: un anno più tardi, Oliver lavorava per i Seattle Sonics e nel 2006 i Rockets assunsero come GM Daryl Morey, primo analista privo di un qualsivoglia background cestistico a scalare il vertice di un Front Office NBA.
Intanto prendevano piede le statistiche su 36 minuti, il plus/minus, il PER, il PIE, e molti altri indici statistici innovativi, divenuti presto familiari per milioni di appassionati in tutto il mondo, e spuntavano servizi dedicati alle franchigie, come SportsVU, che coniuga cifre a immagini, o il sistema EPV, che valuta le decisioni prese dai giocatori in campo.
In effetti ditte come AVM (che ha vent’anni d’esperienza nello sviluppare statistiche e analizzare una grande mole di dati) aiutano le squadre MLB a valutare efficacemente i giocatori, ma andava dimostrato che un metodo affinato per misurare le interazioni tra un battitore e un lanciatore funzionasse anche in un contesto sportivo completamente diverso.
Banalizzando, un battitore ha dinanzi a sé una rosa limitata di possibilità: essenzialmente, può lasciar passare il lancio o tentare la battuta, cercare il fuoricampo o fare un bunt.
Nel Basket, il palleggiatore può passarla a un compagno, palleggiare in qualunque direzione, andare in penetrazione, chiamare un pick-and-roll, fare arresto e tiro dalla media, il tutto mentre 4 compagni e 5 avversari prendono decisioni che influenzano le scelte del palleggiatore, e tanti auguri per chi deve tener conto di tutte le variabili in modo oggettivo!
In ambito cestistico, la Sabermetrica si è rivelata un’addizione utile, un argomento a fortiori, ma non una rivoluzione contenutistica; ha agevolato dei processi già in corso (come la scomparsa dei ruoli classici, l’incremento del tiro da tre, il minor peso del rimbalzo offensivo) e confermato molte antiche convinzioni (le squadre vincenti difendono il ferro e prendono i rimbalzi, i jump-shooting-teams sono realtà perdenti, e così via), affinando certi concetti, senza dare adito a clamorose inversioni di tendenza.
Prendiamo ad esempio un paper presentato da Eric Weiss e Kirk Goldsberry alla MIT Sloan Sports Analytic Conference del 2013, riguardo al Dwight-Effect. Lo studio è mirato a identificare e quantificare l’effetto deterrente di un temuto stoppatore, come appunto Dwight Howard, ma non ci dice nulla di radicalmente nuovo (tolto il secondo nome della lista).
L’approccio “Moneyball” ha contribuito a far cadere in disgrazia i “volume-shooters” ma non è che prima della Sabermetrica i bravi GM facessero la fila per assicurarsi gente da 20 punti con 25 tiri, e in fondo, aver abbracciato le statistiche avanzate non ha impedito a Cavs e Rockets di firmare due giocatori statisticamente discutibili come Josh e J.R. Smith, e questo perché, concedeteci la spericolata parafrasi, “il Basket ha ragioni che la Sabermetrica non può comprendere”.
Lungi dall’essere una panacea, le statistiche avanzate necessitano una testa pensante capace di soppesare le cifre senza innamorarsi d’indici inutili o dalle modeste basi scientifiche, come il PER, la somma ponderata di una serie di statistiche semplici, adoperata per indicare il “valore” di un giocatore, ma che in realtà ha ben poca utilità pratica.
Se scriviamo che un certo atleta ha in carriera un PER di 23.2, oppure che era “una guardia alta e potente che viaggiava vicino alla tripla-doppia di media”, quale delle due informazioni aiuta meglio a capire Oscar Robertson? Il PER finisce col creare un ulteriore strato d’astrazione, anziché produrre un’informazione più precisa.
Ovviamente ci sono statistiche avanzate nettamente più utili, eppure, anche qui, il diavolo è nei dettagli; conosciamo tutti la dicitura eFG%, stante indicare la percentuale effettiva dal campo, che attribuisce un valore maggiore al tiro da tre: (FG + 0.5 * 3P) / FGA.
Istintivamente, siamo portati a ritenerla un’ottima cosa, un passo avanti rispetto alla normale FG% (che, pare di poter dedurre, non sarebbe “effettiva”), ma in realtà, usando il metodo dell’eFG, può capitare che un giocatore tiri con percentuali superiori al 100%, il che non è materialmente possibile.
Questo succede perché il denominatore (FGA), già include i tiri da tre, per cui, se prendiamo una prestazione da 9-10 dal campo come quella di J.J. Redick del 22 gennaio 2013, condita da un 5-6 da tre, avremo (9 + .5 * 5) / 10, che, moltiplicato per 100, fa 115%.
Lo stesso vale per il True Shooting, che attribuisce al tiro libero un valore di .44, in quanto “mezzo possesso”. Senza dilungarci troppo, basti dire che quella sera di gennaio il TS% di Redick recitava 110%.
Senza un articolo comparso su “Escobar on NBA“, chi vi scrive non si sarebbe mai accorto di queste problematiche, e il rischio di fidarsi di indici che non si capisce fino in fondo è sempre presente, generando fraintendimenti e convincendosi di certezze granitiche che in realtà tali non sono.
In questi casi è evidente che ci troviamo assai distanti dalla “conoscenza oggettiva” di Bill James, e il medesimo discorso vale per alcune analisi spericolate che equiparano il contributo di due giocatori “per possesso”, senza tener conto che uno sta in campo 6 minuti, e l’altro 35, e che fraintendono completamente gli insegnamenti di Dean Oliver.
Sono ragionamenti che, anziché produrre certezza, ricalcano i ragionamenti del tipo “segna di più quindi è più forte“, mascherati da una sottile patina scientifica che cela schemi arbitrari e inadatti alla natura entropica e intuitiva di questo splendido Gioco.
Fans e media si sono suddivisi in modo a volte preconcetto tra favorevoli e contrari alla Sabermetrica, in un dibattito che difficilmente potrà diventare costruttivo senza accettare che non si tratta di scegliere se stare con i cervelloni con gli occhiali, oppure con gli ex-atleti che vivono di ricordi, ma solo di calibrare una complementarità.
Tuttavia l’NBA è, tra le altre cose, un mercato del lavoro, ed è forse in quest’ottica che si può spiegare il conflitto tra analisti e esperti “old school”; ci sono società che propongono il loro prodotto presso le franchigie NBA (SAP HANA fornisce le statistiche di NBA.com, STATS vende SportVU alle squadre, e così via), e che, volontariamente o meno, mettono in discussione l’utilità del know-how di dirigenti e addetti cresciuti sul parquet e in palestra.
A sua volta, parte di Media alimenta la convinzione che sia in atto una contrapposizione tra futuro e passato, tra tecnologia e dinosauri, quando in realtà, basta leggere un paio di righe scritte da Dean Oliver o Daryl Morey per rendersi conto che i Sabermetrici tengono in gran conto il contributo di allenatori e staff tecnici.
D’altro canto, non nascondiamo che in NBA prosperano agenti, sportivi e GM, artisti nel vender fumo agli astanti, e in questo senso la Sabermetrica può certamente aiutare la proprietà di una franchigia a valutare l’operato dei sottoposti, accodandosi a modelli gestionali che in altri settori economici (pensiamo ad esempio ai software predittivi di Wall Street) sono in uso da anni, se non addirittura da decenni.
La scienza statistica non ha sostituito lo scouting (reame dell’osservazione diretta), e infatti una formazione come Houston, il cui sistema gestionale è soprannominato Moreyball, è al contempo una delle franchigie che dedica più attenzione di tutte allo scouting globale, con tanto di addetti che seguono alcuni campionati europei in loco.
Tantomeno guida gli allenamenti, rimasti saldamente nelle mani degli allenatori. Gli analisti forniscono ausili grafici allo staff tecnico per spiegare ai giocatori le tendenze dei diretti avversari, o per evidenziare qualche difetto da limare in palestra.
La Moneyball targata NBA affianca i metodi tradizionali, accrescendo il bagaglio informativo che va poi interpretato secondo una prospettiva cestistica, ed è qui che rientra prepotentemente in gioco la competenza tecnica, senza la quale una colossale mole di big data difficilmente potrà convertirsi in indicazioni concretamente fruibili dagli atleti.
Inoltre, pur avendo lo stesso playbook e lo stesso software gestionale, alcune squadre eseguono con intensità mentre altre sono piatte, e non c’è EPV che consenta di identificare chi sarà il collante di uno spogliatoio, perché, perdonate l’ovvietà, le persone sanno sorprendere, a volte in positivo, e altre in negativo: una chiacchierata a cuore aperto può trasformare un egoista nell’anima di un gruppo; viceversa, è capitato che invidie di spogliatoio lacerassero dall’interno squadre sulla carta imbattibili.
Come si misura l’impatto di Larry Brown che dice ad Allen Iverson: “Mi fido di te”, o come si determina l’atmosfera che si crea in un gruppo vincente? Alcuni fattori si possono calcolare, ma non tutti, e per questo Daryl Morey ha scelto di far allenare il suo roster (assemblato con l’ausilio della Sabermetrica) a un coach tutto buon senso e rapporti umani come Kevin McHale.
Le statistiche avanzate aiuteranno di certo un novello Tex Winter a spiegare al prossimo Michael Jordan che passare la palla aiuta a vincere, ma è bello credere che il basket non sia solo una sequenza di cifre: ci sono delle giocate teoricamente sbagliate, che però spostano l’inerzia, dai tiri ignoranti di Basile alle acrobazie senza senso di Ginobili.
Un giocatore ha sempre facoltà di eccedere (o di deludere) le attese statistiche, a volte in modo clamoroso, ma questo è il “lato cieco” insito nella natura delle percentuali, che indicano una tendenza, non una certezza.
Nel momento in cui si accetta questo limite, senza negarlo o ingigantirlo, si possono apprezzare meglio i (numerosi) pregi della Sabermetrica, che non è una moda per fighetti, ma una solida realtà: quelli divulgativi, perché le cifre e i grafici aiutano l’appassionato a entrare nel dettaglio di delle situazioni tecniche, e quelli che più interessano le squadre, ossia la capacità di produrre studi che confermano o smentiscono l’intuizione di un allenatore, traducendosi in un arricchimento per lo sport più bello del mondo.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.