Adam, tu sei cresciuto cestisticamente con la Fortitudo Bologna, ma poi, a causa degli infortuni, a venticinque anni hai appeso le scarpette al chiodo; la Fortitudo ti volle come scout, e da lì, hai trovato la tua strada per l’NBA; i Nets, nel 1999, poi i Lakers, e oggi gli Hornets. Hai vissuto da protagonista l’epoca di massima apertura dell’NBA ai cestisti europei, dopo i primi, timidi tentativi degli anni novanta, con i Kukoc e i Marciulionis.
Oggi di quanto credito gode, in America, l’Europa dei canestri?
Sicuramente senza i vari Stojakovic e Nowitzki, non sarebbe mai scattata la febbre per i giocatori europei degli anni novanta e duemila, e se non fosse stato per loro, per me non si sarebbe aperta la porta dell’NBA, che guarda all’Europa in cerca di giocatori dai fondamentali più puliti degli americani, e che, almeno a livello dei top (come Ginobili o Batum) sono esperti, avendo spesso calcato un palcoscenico importante come quello dell’Eurolega, e quindi hanno qualcosa in più rispetto ai giocatori di college.
Quindi direi che gli europei piacciono per questi due motivi: fondamentali ed esperienza professionale, che è un bel vantaggio, in un mondo nel quale molti allenatori non hanno tempo per insegnare le cose da zero e non amano far giocare i rookie.
In passato, hai criticato il meccanismo dell’NCAA, perché, pur di mantenere la finzione dello “studente-giocatore”, consente agli allenatori di lavorare molto poco con i ragazzi; d’altro canto, mi è capitato di sentir dire al leggendario preparatore Tim Grover che si gioca troppo basket AAU, e si seguono modalità d’allenamento che invitano agli infortuni, con il risultato di logorare dei teenager che arrivano al professionismo già pieni di acciacchi. È evidente che questa –poca NCAA e tanta AAU– non è una combinazione vincente, e forse finisce per deprimere lo stock dei giocatori americani rispetto ai giovani europei, che sono più allenabili e abituati alle logiche di squadra. Sono problematiche che preoccupano anche al “piano di sopra”?
Questo è un problema che non ci tocca direttamente nello scouting, ma nella costruzione del giocatore sì; in AAU si giocano troppe partite, e non si lavora sulla tecnica, perché i giocatori e i loro genitori sono ossessionati da quella che in America è chiamata “exposure”, e quindi giocano tantissimo per farsi conoscere.
Facendo tutti questi tornei estivi, AAU o quel che sia, con i cosiddetti “traveling teams”, ottengono l’exposure, ma non pensano all’altro lato della medaglia, e cioè che essere così esposti evidenzia non solo i pregi, ma anche i difetti.
Idealmente, i giovani dovrebbero lavorare tantissimo per migliorare i fondamentali, rendendoli più puliti e crescendo nella conoscenza del gioco, e solo in seguito, verso i 16-17 anni, tentare di costruirsi un nome, quando si avvicina il momento di procurarsi una borsa di studio. Esporsi troppo presto rischia solo di mettere a nudo i tuoi difetti.
Poi forse l’AAU contribuisce ad abituare i giocatori a ragionamenti tipo “non ho minuti, allora cambio squadra”, che non spingono i ragazzi a lavorare per migliorarsi.
Quel che tu dici è giusto; i giocatori trovano delle scuse per cambiare squadra, “perché l’allenatore non mi capisce”, etc., ma a dirla tutta, oggi succede anche in Italia. Quelli della mia generazione era abituati diversamente, con un allenatore stabile per tre o quattro anni di fila, che diventa così una figura importante nella crescita; una guida, forse la più importante, dopo i genitori. Questo rapporto oggi si è un po’ perso, ma vale sia in Italia che in America.
Sei stato per un decennio il responsabile dello scouting internazionale dei Los Angeles Lakers, durante la gestione di Mitch Kupchak come GM e Phil Jackson come allenatore; quando si trattava di valutare potenziali addizioni per la squadra, la prima cosa che Kupchak guardava era l’abilità di passatore, che è cruciale, nell’attacco triangolo. Vige la stessa regola anche per gli scout? Cioè, si è incaricati di trovare un giocatore che corrisponda un preciso profilo, o è garantita maggiore libertà, per trovare, in generale, dei talenti?
A mio modo di vedere, il processo di scouting consiste nel valutare il giocatore a prescindere dal contesto tecnico della squadra per la quale si lavora; si guarda cosa sa fare bene in ottica NBA, e cosa eventualmente gli impedirà d’avere successo tra i Pro, dall’atletismo alla mancanza di tiro.
La filosofia dell’allenatore e il sistema restano da parte, ma, in appendice ad uno scouting report, è giusto dire, ad esempio, che un giocatore è super ma non fa per noi, perché non si saprebbe adattare al sistema, o perché siamo già coperti a sufficienza nel suo ruolo.
Quando ero a L.A. è capitato di fare scouting per giocatori che in senso assoluto non erano fenomenali, ma poi sottolineavo che erano perfetti per il sistema, come Luke Walton, che aveva caratteristiche ideali per giocare nell’attacco triangolo, pur non essendo un atleta o un tiratore.
Jerry West dice che quando uno scout ci azzecca nella metà delle occasioni, sta facendo un ottimo lavoro. Riconoscere il talento non è, di per sé, difficilissimo; il discorso si complica quando si tratta di capire se un giocatore può rendere in un diverso sistema di gioco, se sa cosa fare delle proprie qualità, se è in grado di sacrificarsi, di gestirsi. Come si valuta la componente mentale di un giocatore, e quante informazioni raccogliete nel corso del processo di scouting?
Sono d’accordissimo con quel che dice Jerry West; chiaramente, non è complicato accorgersi che un giocatore sa far canestro, ma le domande cruciali sono altre: “Quanto gli piace giocare a basket? Vive per giocare a basket? Gli piace stare in palestra?” Ponendoti questi quesiti capisci la mentalità del ragazzo.
Non ti dico quanto tempo dedichiamo a recuperare “intel” (le informazioni) dagli allenatori di college e di high school, oppure da altre persone vicine ai ragazzi; più informazioni ci sono meglio è, ma per esperienza, finché un ragazzo non arriva nel tuo spogliatoio e gioca nella tua squadra, non sai veramente com’è, in positivo e negativo.
Non dimentichiamo poi che molti giocatori quando arrivano in NBA cambiano, non tanto quando firmano il contratto da rookie, quanto dopo la firma del secondo contratto, magari a cifre che ti cambiano la vita e a volte ti trasformano come persona; in quel momento, può capitare che la motivazione a giocare e allenarsi diminuisca. Quindi puoi avere tutte le informazioni che vuoi, ma finché non hai il giocatore a disposizione, non puoi dire di conoscerlo davvero.
E poi forse lottate anche contro una certa dose di disinformazione, penso ad esempio a tutte le favole che sono state messe in giro ad arte su Kawhi Leonard.
Ti posso citare un sacco di casi di ragazzi dei quali si parlava male, e invece erano eccezionali; non puoi mai sapere, io mi fido più di me stesso che delle informazioni date da altri. Diciamo che, in linea di massima, se gli input sono tutti negativi, allora quasi certamente c’è un problema, ma capita che le persone parlino male per tanti motivi. Ma una volta che un ragazzo non è un problema per lo spogliatoio, “I can deal with the rest”.
In questi anni si è imposta la cultura che viene riassunta dallo slogan “Championship or Bust”, per cui o giochi per l’anello, o tanto vale azzerare tutto e ripartire dal draft. A guardar bene, da quando è stata introdotta la lottery, solo una squadra ha vinto l’anello con una propria prima scelta assoluta (gli Spurs, che avevano Tim Duncan e David Robinson).
Il concetto di “tanking” è un po’ un mito. Se una squadra cede i veterani e fa giocare i giovani per farli crescere, ovviamente non vincerà, ma a mio modo di vedere non è tanking, bensì un investimento sul futuro. Le squadre che nella seconda parte di stagione fanno giocare i giovani non stanno tankando. Un altro conto, è schierare gente che non può stare in campo.
Che ricordo conservi dei tuoi dieci anni alla corte di Kobe e Phil Jackson?
Per me, che sono stato un fan dagli anni ottanta, e ho vissuto a Los Angeles da ragazzo, quando hanno vinto il Back to Back, arrivare ai Lakers pareggia il mio sogno da bambino, che era di giocare in NBA. Certe persone dei Lakers, tipo Gary Vitti e Bill Bertka, per me erano dei miti sin da quando ero piccolo.
Al mio primo training camp con i Lakers c’erano Bill Sharman, Jerry West, James Worthy; ho conosciuto alcuni dei miei idoli d’infanzia, e avere una persona come Kareem Abdul-Jabbar che ti regala i suoi libri e li autografa, e si apre con te parlando di musica jazz o di cinema, è stato incredibile.
Kareem è un uomo molto riservato, ma resta di gran lunga la persona più affascinante, acculturata e intelligente che io abbia conosciuto.
Oltre a scovare i prospetti, tu, come Jerry West, ti dedichi anche alla loro crescita tecnica. Hai scritto un libro dedicato al tiro, “Shoot Like the Pros”, e proprio di questo fondamentale vorrei parlare, sfatando qualche luogo comune; Blake Griffin ha detto che i miglioramenti al tiro non nascono, come vuole l’adagio, solo dai famosi 1000 tiri al giorno per due mesi d’estate, ma da un lavoro tecnico di ricostruzione del movimento che parte già dalla stagione precedente. Concretamente, come lavora sui propri fondamentali un giocatore NBA, tra camp e impegni promozionali estivi, o durante la fitta schedule della stagione regolare?
Questo è il problema, trovare i tempi e i momenti giusti per lavorare. Io credo nella progressione, che abbisogna di pazienza, merce rara per me, ma anche per i giocatori e gli allenatori; in due settimane può scattare qualcosa, ma difficilmente vedi dei grandi miglioramenti. Idem durante la stagione, quando giochi tanto non è facile toccare le aree che andrebbero allenate; sia giocatori sia allenatori non sanno bene come farlo, secondo me.
Sulla questione dei mille tiri, sono d’accordo. Se fai mille tiri con la tecnica sbagliata peggiori solamente, ripetendo un gesto scorretto e immettendolo nella memoria muscolare. Non è sempre necessario rivoluzionare la tecnica; ad alcuni giocatori serve, certo, ma il più delle volte basta semplificare il movimento, eliminare movimenti di troppo. Per non impaurire i giocatori io dico sempre che semplifichiamo solo la tecnica, mi sembra un concetto meno aggressivo.
Per analizzare i giocatori che alleni, ricorri a strumenti sabermetrici, tipo SportVU, o EPV?
Per quanto riguarda il tiro, ho preso l’abitudine di ricorrere al video; ho iniziato filmando me stesso, notando che anche quando facevo canestro, c’erano difetti e incostanze delle quali, senza il video, non mi sarei mai accorto. È un po’ come sentire la propria voce sulla segreteria telefonica: non ti riconosci!
Ci sono delle applicazioni anche per l’iPad, niente di sofisticatissimo, ma usando questa tecnica, tu parli poco, mostri le immagini al giocatore e gli chiedi cosa vede: impara ad analizzarsi, riconosce che le tue indicazioni sono vere, e l’allenatore riduce la comunicazione verbale, senza martellarlo. Prima di lavorare con i giocatori, gli mostro cosa stanno facendo di giusto e di sbagliato. Il giocatore diventa partecipe, assume una posizione di controllo, e cresce anche il rapporto con chi lo allena.
I numeri invece, possono servire all’allenatore. Spesso faccio delle ricerche, e possono servire per conoscere le tendenze dei giocatori, ma troppe indicazioni (per giunta da nerd) rischiano di scivolare addosso; servono solo all’allenatore per vedere alcune cose, e poi tradurle in un linguaggio che il giocatore accetta.
In fondo, i giocatori sono istintivi.
Esatto, i giocatori hanno bisogno di giocare con la memoria muscolare, perché più ragioni e ci pensi, più ti paralizzi. Il gioco è talmente veloce che se non sei reattivo, non sei in grado di stare in campo ad alto livello.
Hai avuto modo di frequentare da vicino le tre guardie più forti di sempre: Jerry West, Michael Jordan, e Kobe Bryant, tutti quanti noti per il perfezionismo maniacale, per le doti di leadership e per la conoscenza enciclopedica del gioco. Come sono, visti da vicino?
Hai toccato tre persone che per competitività sono uniche. Tex Winter ha detto che ci sono sei “alpha dog” nella storia del basket: Magic, Bird, West, Roberston, Michael Jordan e Kobe Bryant.
Alla Fortitudo ho conosciuto Carlton Myers, anche lui alpha dog, nei pregi e nei difetti, uno che per tanti aspetti mi ricorda Kobe, con il quale ha tantissimo in comune.
Kobe non lo conosco fuori dal campo, ma quel che mi è rimasto impresso di lui, da giocatore, è che in campo è un competitor incredibile; a loro volta MJ e Jerry West sono tutt’ora ossessionati dalla competizione, ed è per questo che giocano a golf, per mettersi in gara con se stessi e con gli altri.
Di solito, le persone così ambiziose hanno uno spirito competitivo che li accompagna tutti i giorni, e sono maniacali in ogni cosa. West era un perfezionista anche da GM, mai soddisfatto anche quando la squadra vinceva, idem MJ.
Jerry West ha una leadership fantastica, e trae soddisfazione dall’aiutare le persone; ti dice sempre come stanno le cose, nel bene e nel male. Gli altri due invece li conosco in modo diverso.
Dal 2001 non esiste più la difesa illegale, e il tiro è diventato un’arma preziosa per allargare il campo (prima ancora che per punire i raddoppi) e impedire il famoso “shrink the floor” difensivo. Tra attacco e difesa, si è sacrificato qualcosa in termini di fondamentali puri (come la capacità di fare uso del perno, di giocare spalle a canestro), esasperando la velocità d’esecuzione e il tiro, ma è anche vero che gli ultimi due anelli sono stati vinti da formazioni dotate di tecnica individuale, varietà tattica, e gioco di squadra. Tu che ne pensi?
Torno a una frase di Tex Winter: non è il sistema che ti fa vincere, ma l’esecuzione dei fondamentali individuali nel sistema di gioco. Pochi clinic e libri ribadiscono che il tiro è cruciale: si parla di tutto, fuorché del fondamentale più importante. Quando uno scouting report dice che un giocatore “sa solo tirare”, vuol comunque dire che un giocatore attira l’attenzione di tutta la difesa, di conseguenza, qualche suo compagno sarà libero.
Durante le Finali Klay Thompson non è stato stupendo, ma ha comunque spostato gli equilibri; attirava attenzioni perché andava marcato. Anche quando fa 0-10, un tiratore serve comunque a qualcosa.
Il problema è che si dedica poca attenzione a questo fondamentale, ed è un paradosso, a mio avviso; sicuramente si sta perdendo qualcosa in termini di fondamentali puri.
Un grandissimo atleta, può in qualche modo arrivare in NBA, mentre un ragazzo con fondamentali puliti, non sempre ce la fa. Chi però padroneggia un bagaglio tecnico importante mantiene valore e gioca più a lungo, come Dell Curry, Voshon Lenard, Tracy Murray, e ora Mike Miller oppure James Jones: hanno giocato per tanto tempo, facendo magari solo una cosa; in Eurolega, Juan Carlos Navarro resta un giocatore di prima fascia con il solo tiro.
Anche in passato, ci sono stati interpreti eccellenti del tiro dalla lunga distanza, giocatori che non avevano molto da invidiare a Ray Allen; penso a Reggie Miller, Chuck Person o Glen Rice; oggi però il tiro da tre non è più una risorsa padroneggiata solo dagli specialisti, ed è questo ad averlo reso un’arma così centrale nel gioco moderno. Si tratta di un fondamentale ancora in evoluzione, o il tiro da tre ha raggiunto il massimo dello sviluppo possibile, tecnicamente e in termini di percentuale?
Ovviamente in partita contano le percentuali, ma a volte sono bugiarde. Ci sono grandi tiratori che non hanno statistiche all’altezza per tanti motivi: la tipologia di compagni, oppure delle lacune in altre aree del proprio gioco.
Il tiro libero è rimasto uguale per cinquant’anni, ma il tiro da tre è molto diverso: c’è il piazzato, quello in movimento, con e senza difensore. Le percentuali sono bugiarde, perché c’è chi tira in situazioni complicate, e questo ha un impatto sulle percentuali; sono cauto sulle statistiche sul tiro da tre, mentre con il tiro libero è ovviamente diverso, ci sono molte meno variabili in gioco.
C’è ancora margine per lavorare sulla meccanica, o siamo già arrivati a sviluppare la tecnica perfetta?
Anche alcuni dei migliori tiratori non sanno perché fanno canestro, e quindi non saprebbero insegnarlo. Il tiro perfetto, con la meccanica corretta, rimarrà standard per sempre, ma ci sono dei dettagli che dalla TV o dalla prima fila non si vedono: su quei dettagli si può sempre lavorare per affinarli, e sono quelli che fanno la differenza.
Può trattarsi anche solo di muovere l’indice di un centimetro verso il centro della palla, o di piegare di un centimetro il polso. Sono i piccoli aggiustamenti che fanno la differenza per aumentare la percentuale dal campo, o magari vincere o perdere di un punto.
Ci sono tiratori fantastici, che però hanno percentuali mediocri, mentre altri fanno sempre canestro, perché si concentrano sui dettagli.
È inevitabile porti una domanda sul draft di giugno; gli Charlotte Hornets hanno selezionato Frank Kaminsky, che alla nove è una pesca eccellente, soprattutto pensando al suo splendido torneo NCAA, durante il quale non ha sfigurato nemmeno confrontandosi con Jahlil Okafor e Karl-Anthony Towns. Come intendete svilupparlo, e quale ruolo immaginate potrà ricoprire negli Hornets del futuro, che sono già forti in difesa, grazie all’ottimo lavoro di Steve Clifford, ma che in attacco sono ultimi per eFG%?
Kaminsky è stato il miglior giocatore del college basketball; avrà anche più anni degli altri, ma è stato il migliore, e prenderlo alla nove è un gran colpo. Ha un bagaglio tecnico così sviluppato e versatile, che le debolezze passano in secondo piano. Sa passare, palleggiare, tirare e leggere il gioco, cioè le quattro cose più importanti per giocare a basket, e in più è 2 metri e 15! Non è detto che un giocatore che ha potenziale poi effettivamente migliori, mentre Kaminsky ha già dimostrato di crescere di anno in anno.
Infine, una domanda sul tuo futuro professionale; ti sei già tolto tantissime soddisfazioni, da Global Vision Scouting ai Lakers, dai Nets agli Hornets; che progetti hai per il futuro? Dove t’immagini, tra dieci anni? Hai trovato il tuo nirvana come capo scout, autore e coach, o ti piacerebbe tentare la strada del management?
Ho 43 anni e faccio questa professione da 18 anni. Un tempo sognavo di diventare GM, ma ho capito che non fa per me, perché non ne ho le caratteristiche caratteriali. Penso di essere più adatto ad assistere un General Manager, grazie al bagaglio che ho costruito negli anni.
L’NBA oggi è cambiata molto, guarda ad un altro tipo di persone. Io mi sono specializzato nell’area tecnica, e sono uno dei pochi; negli ultimi anni, ho avuto proposte come vice-allenatore, ma per una serie di motivi non è ancora capitata la situazione giusta per me.
Inoltre a breve uscirà il mio secondo libro (oltre alla traduzione di “Shoot Like the Pros” in italiano), dedicato al tiro libero, che è il più unico della pallacanestro, oltre ad essere quello che padroneggio meglio; mi sono proprio specializzato! La sfida non è solo o tanto il gesto tecnico, quanto gestire la situazione dal punto di vista emotiva e mentale: questo lo rende affascinante.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.