Che la posizione di coach Monty Williams alla guida dei Pelicans fosse traballante, era cosa nota dalle parti di New Orleans, nonostante una stagione segnata da risultati superiori alle attese e conclusa con un ottimo 45-37 (nonostante 177 partite saltate dai top-6).
I Pelicans hanno deciso di cambiare sistema anziché interpreti, e così hanno salutato l’allenatore che ha accompagnato per cinque anni la franchigia della Big Easy; Williams era una figura paterna per molti giocatori, e nessuno ha detto mezza parola contro di lui, tuttavia la proprietà riteneva fosse giunta l’ora d’esplorare cammini diversi.
A sostituirlo è giunto Alvin Gentry, reduce dall’anello vinto con i Golden State Warriors; Gentry è un coach che nel mondo NBA gode di ottima reputazione pur non avendo mai giocato a livello professionistico, ha esperienza (sia nella Lega che in NCAA) e sa parlare ai giocatori, oltre ad essere uno degli artefici della splendida cavalcata dei Dubs di Oakland.
La storia in panchina di Gentry ha inizio nel 1977, quando, complice l’interessamento del cugino David Thompson, riuscì a ottenere un provino con i Denver Nuggets. Alvin come giocatore era poca cosa e non ottenne un contratto, ma fece la conoscenza dell’allenatore di Denver, tale Larry Brown, che divenne il mentore della crescita cestistica di Gentry.
Un anno più tardi, Alvin appese definitivamente le scarpette al chiodo, accettando una posizione da assistente “borsista” a Colorado, poi raggiunse Baylor, e di nuovo Colorado, nel 1981, questa volta da assistente pagato. Nel 1986 lasciò Colorado per la Kansas di Larry Brown, vincendo anche l’NCAA (erano i Jayhawks di Danny Manning, e correva l’anno 1988).
Quando Brown, sulla scorta del successo di Kansas, trovò impiego ai San Antonio Spurs, si portò dietro Alvin Gentry, che entrò così da assistente in quella NBA che gli aveva sbattuto la porta in faccia da giocatore. Gli altri collaboratori di Brown erano due che avrebbero giocato un ruolo centrale nel futuro della franchigia texana: R.C. Buford, e Gregg Popovich.
Gentry e Brown invece, lasciarono rapidamente l’Alamo; Brown durò fino al 1992, mentre Gentry abbandonò dopo una sola stagione, intraprendendo una carriera vagabonda che l’ha condotto ai Clippers, poi a Miami e Detroit, dove riscosse anche il primo incarico da capo allenatore.
Nel 2000 Pop e R.C. lo richiamarono a San Antonio, ma sopraggiunse l’opportunità di allenare i Los Angeles Clippers, e così il rimpatrio in nero-argento finì col durare solo lo spazio di qualche settimana.
Quelli però, erano i Clippers disastrati d’inizio millennio, e dopo un avvio promettente, la squadra prevedibilmente deragliò. Gentry fu licenziato, ma trovò occupazione come assistente a Phoenix, alle dipendenze di quel Mike D’Antoni che aveva già incrociato nel 2000, a San Antonio, quando l’ex allenatore della Benetton faceva lo scout degli Spurs.
Dopo cinque anni trascorsi da assistente di D’Antoni, fu un’altra persona conosciuta in quei giorni a offrirgli una panchina: era Steve Kerr, ex guardia degli Speroni, dal 2007 GM della franchigia dell’Arizona.
Steve stava provando a creare una squadra più aderente alle proprie convinzioni tecniche e registrò l’addio del numero 8 di Milano, sostituendolo con Terry Porter, per poi licenziarlo e affidare le chiavi della palestra proprio ad Alvin.
Gentry implementò una struttura ibrida, a metà tra la Princeton Offense e il sistema di D’Antoni, regalando ai Suns di Steve Nash un onorevole canto del cigno, con 54 vittorie e una Finale di Conference conquistata anche, udite-udite, difendendo.
A proposito delle differenze tra la sua squadra e quella di Mike D’Antoni, Gentry disse: “Non prendiamo molti tiri veloci e non giochiamo a rotta di collo; giochiamo con un ritmo”.
Il ritmo, prima ancora che il “pace”, è il concetto che Gentry ha portato in dote nel suo anno da assistente di Steve Kerr; i Warriors si sono contraddistinti, in fase offensiva, per la pazienza con cui sono stati capaci di ribaltare il lato, cercare l’extra-pass, il tiro “eccellente”, piuttosto che quello “veloce”.
I New Orleans Pelicans hanno cercato Gentry con decisione, consapevoli di dover invertire la rotta rispetto alla staticità offensiva made in Monty Williams, ma occorre fare un’ovvia precisazione: a determinare la maggior o minor fluidità di un attacco, contribuiscono anche (forse soprattutto) le qualità degli interpreti, che sono rimasti gli stessi dell’anno scorso.
Può darsi che Gentry riesca a entrare nei cuori e nelle menti dei vari Eric Gordon e Jrue Holiday, trasformandoli in giocatori dalle letture rapide, ma se quest’avventura dovesse diventare l’ennesima dimostrazione che, in assenza del personale adeguato, nessun allenatore ha la bacchetta magica, vorrebbe solo dire che sistema e giocatori non erano fatti gli uni per gli altri, niente più di questo.
Tolto il cambio sul pino, i Pelicans hanno scelto la continuità, ritenendo di poter giocare in modo diverso senza stravolgere il roster, confidando di poter replicare un percorso simile a quello tracciato a Oakland da Larry Riley e Bob Myers, con le dovute differenze in termini di “basketball personnel”.
Nella Big Easy non ci sono gli Splash Brothers, ma Gordon e Holiday; non c’è Bogut come àncora difensiva, e nemmeno Draymond Green; in compenso, il pubblico dello Smoothie King Center può rifarsi gli occhi ogni sera con Anthony Davis, e questo ovviamente avrà un impatto sulle strategie difensive e, in subordine, offensive, di Alvin Gentry.
Davis era atteso a un rinnovo contrattuale, ma alcuni sono rimasti sorpresi dal suo entusiasmo senza riserve nello sposare la causa: ha messo la firma in calce ad un accordo da 145 milioni di dollari (beato lui) spalmati su cinque anni, che lo legherà ai Pelicans fino al suo ventottesimo compleanno, per la gioia di Dell Demps, il GM che, per la verità, fin qui non s’era distinto per particolare sagacia.
Oltre ad aver trattenuto quella che Demps a ragione ha definito la “pietra angolare della franchigia”, sono arrivate anche le conferme di Asik (60 milioni in 5 anni), Ajinka (20 milioni in 4 anni), e Dante Cunningham (9 milioni per 3 anni), rinnovi che evidenziano l’intenzione di investire dell’ottuagenario proprietario Tom Benson, e che confermano la solidità del gruppo.
Nessuno di questi contratti può rientrare sotto la dicitura “affare”, ma sono comunque cifre più gestibili rispetto ai contrattoni elargiti per persuadere i vari Gordon, Evans e Holiday ad accasarsi in riva al Mississippi; a voler essere ottimisti, può esser segno che il combinato disposto Davis-Gentry inizia ad esercitare un certo fascino sui giocatori.
Al training camp d’autunno si partirà da nuove spaziature offensive, con Alvin Gentry che ha già affermato di immaginare Anthony Davis a proprio agio anche dietro alla linea del tiro da tre punti: “Non penso che avrà problemi a farlo; se guardate le sue partite ai tempi dell’high school, tirava molto bene da tre, ma poi è cresciuto di quei venti centimetri. Penso che abbia ancora quel tiro, ma non ha trovato spazio nei sistemi nei quali ha giocato al college o nei Pro. Io però voglio che prenda quel tiro, e credo proprio che gliene vedrete segnare più che in tutto il resto della sua carriera”.
Nella scorsa stagione Anthony Davis ha tentato 534 “long two”, e appena 12 tiri da tre (43.4% nei primi, 8.3% nei secondi): dovesse riuscire a spostarne un po’ dietro l’arco a percentuali accettabili, darebbe migliori spaziature all’attacco di New Orleans, rendendo gestibile anche la presenza di Omer Asik, che, negli ultimi Playoffs, non ha tentato una singola conclusione fuori dal verniciato.
Più che su di una diversa allocazione delle conclusioni, il lavoro di Gentry verterà su un metodo moderno per arrivare al tiro: sotto Monty Williams, Davis ha “usato” il 27.6% dei possessi, contro il 25.7% di Evans, il 23.0% di Anderson, il 19.8% di Gordon e il 22.7% di Holiday; in sostanza, era un primus inter pares, e per giunta avevamo la sensazione che The Brow non fosse coinvolto a dovere nell’attacco, perché riceveva alla fine di possessi stagnanti.
Nonostante la presenza di un lungo come Anthony Davis, i Pelicans non giocheranno inside-out, predicando viceversa movimento di palla e tiro. Davis continuerà a essere usato da PF (per non logorarlo contro avversari più potenti) e troverà le sue conclusioni all’interno di un sistema che potrà, di volta in volta, chiedergli di tirare dalla media, sul taglio, in una classica ricezione da pick-and-roll, o, addirittura, da “popper” che si apre fin dietro l’arco da tre (come –ancora lui- Draymond Green).
Anche gli altri membri del roster saranno chiamati a un nuovo modo di pensare il basket: meno specialisti, e più duttilità; meno palleggi, e più lettura dei movimenti dei compagni. Si va da Ryan Anderson, che dovrà alternare post basso e tiri piazzati, fino ai tre esterni, Evans, Holiday e Gordon; i Pelicans non diventeranno la copia dei Warriors, ma i principi guida saranno analoghi.
Un nuovo modo di attaccare potrebbe portare benefici anche alla difesa dei Pelicans, relegati da tre stagioni tra le 10 peggiori squadre per efficienza difensiva, e che, nonostante l’aggiunta di Omer Asik hanno concesso più tiri da sotto di chiunque altro: un nuovo modo di pensare l’attacco, che faccia sentire tutti apprezzati, può essere la chiave giusta per ottenere più disponibilità a lavorare difensivamente (sia nell’assignment individuale, che di squadra).
Il primo grattacapo difensivo identificato da Gentry è stato la difesa perimetrale, che tollera troppe entrate in palleggio e costringe i lunghi a cambiare con frequenza eccessiva.
Intervistato da NBA.com, Alvin Gentry ha dichiarato che: “La cosa più importante sarà lavorare sulle penetrazioni in palleggio; dobbiamo migliorare come squadra, nelle rotazioni e nella protezione delle corsie”.
Tra gli esterni dei Pelicans, Jrue Holiday è l’unico a potersi definire un difensore più che discreto; gli altri, oscillano tra il pessimo e il disastroso, eccezion fatta per Norris Cole, che però è tentato dalle proposte di Philadelphia e New York, e potrebbe essere rimpiazzato da Jason Terry, stando alle ultime voci di radio-mercato.
Al netto di scambi e free-agent, è l’atteggiamento complessivo della squadra a dover cambiare; New Orleans è una formazione giovane e atletica, e certe deficienze difensive non hanno scusanti. L’anno scorso gli innesti di Pondexter, Cunningham e Cole hanno contribuito a incrementare l’attenzione difensiva, e la firma di Kendrick Perkins segue la medesima logica: ingaggiare veterani con mentalità operaia, che tengano in riga i giovani.
Inoltre, difesa significa poter correre, e tenere un pace più alto: fattori di primaria importanza, destinati a beneficiare in primis Tyreke Evans, che sta passando l’estate a dimagrire e lavorare sulla propria condizione atletica. Gentry confida che, con più occasioni in campo aperto, e con uno stile più rapido, Evans potrà ripetersi ai livelli scintillanti di Sacramento; un Tyreke più penetratore e meno tiratore quindi, mentre l’assistente Darren Erman lavorerà con lui sulle lacune difensive.
Anche Eric Gordon approfitterà di questo nuovo modo di giocare, che richiede decisioni veloci (e può sopravvivere anche ad alcune decisioni sbagliate, vedi le tante palle perse dei Warriors) e che toglie un po’ di peso dalle spalle dei giocatori: più conclusioni costruite in ritmo, significa meno pressione sulle spalle di chi tira. Anche nel caso della guardia dell’Indiana però, l’aspetto cruciale da valutare sarà l’attitudine difensiva.
L’arrivo di Alonzo Gee con un biennale da 2.7 milioni di dollari (il secondo anno è opzione dei Pelicans) mira ad incrementare l’attitudine difensiva degli esterni, e a colmare una lacuna nello spot di tre. Gee è in NBA da 5 anni, ma non ha mai trovato spazio, sballottato da una trade all’altra; vedremo se con Gentry riuscirà finalmente a trovare una propria dimensione, e fiducia al tiro.
Che cosa aspettarsi allora, dal 2015-16 dei Pelicans?
In termini di risultati, è difficile fare una previsione, perché nella Western Conference la concorrenza per un posto ai Playoffs è, come sempre, foltissima. Naturalmente New Orleans ambisce a un posto tra le magnifiche otto dell’ovest, ma il progetto è più ambizioso, e prevede una crescita del gioco che possa preludere ad altre, e ben più ambiziose mete.
Gentry cercherà di ritagliare un ruolo per quanti più giocatori possibili, adattando il sistema al personale, e chiedendogli in cambio qualche piccolo sacrificio, in modo da garantirsi quella stessa adattabilità tattica che ha fatto le fortune degli Spurs prima, e dei Warriors poi. Niente di tutto questo è automatico: servirà pazienza, disponibilità da parte dei giocatori, e anche un po’ di fortuna.
Considerato però che Anthony Davis ha accolto con trasporto l’arrivo di Alvin Gentry (e l’asse allenatore-stella è sempre cruciale), e che l’ex discepolo di Larry Brown ha provato con i fatti di saper parlare ai giocatori e trasporre le proprie teorie nella pratica, dalle parti di Bourbon Street ci sono valide ragioni che inducono a sorridere.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.