Il re è tornato alle Finali, per il quinto anno consecutivo (e il sesto totale, come Jordan), e per la seconda volta con i suoi Cleveland Cavs.

Un’impresa raggiunta nonostante l’infortunio di Kyrie Irving e di Kevin Love (tolto di mezzo da una porcheria di Kelly Olynyk al termine del primo turno), e che ha visto LBJ assoluto protagonista, a sua volta infortunato, ma, come ha detto lui stesso: “Sono i Playoffs, ed è normale che facciano sentire il proprio peso”.

La cavalcata di LeBron ha visto partite memorabili, come i 37 punti con 18 rimbalzi e 13 assist di Gara 3 contro Atlanta;

https://youtu.be/zySlqSIftu0

Oppure i 38, 12 e 6 assist di Gara 5 contro i Bulls, dando un’impressione d’assoluto controllo della situazione, che rispecchia le scelte di King James lontano dal campo, dove ha saputo essere padrone del proprio destino, anche a costo di scelte impopolari, come quando abbandonò i Cavs per accasarsi con Chris Bosh e Dwayne Wade a Miami, o quando, appurato il declino dei suoi sodali agli Heat, tornò in Ohio per unirsi ad una squadra giovane e promettente.

LeBron era tornato a Cleveland per giocare con Irving e Love (da lui reclutato e fortemente voluto), ma ha perso l’ex ala dei Wolves ben prima che un infortunio lo togliesse dai giochi; i limiti dell’ex UCLA sono stati esposti severamente da una stagione che ne ha fatto crollare la reputazione e il valore, proprio allo scadere del suo contratto. Con l’ultimo anno in player option a 16 milioni, resterà con ogni probabilità a Cleveland, a meno che non voglia proprio andare via…

Alla fine, l’infortunio alla spalla di Love è stato una benedizione sotto mentite spoglie, perché ha consentito a coach Blatt di affidarsi senza remore a Tristan Thompson, e ha tolto una presenza destabilizzante dallo spogliatoio.

Kyrie Irving ha disputato una stagione travolgente, ma anche lui ha accusato problemi fisici che ne hanno, di fatto, azzerato l’impatto nelle Finali di Conference, lasciando a LeBron il proscenio; James ha saputo occuparlo da grande e consumato mattatore, con un Usage rate che è schizzato ad un irreale 41% contro gli Hawks (prima di quest’anno, non era mai andato oltre al 33% del 2009).

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Tra infortuni e responsabilità, era normale attendersi che la sua efficienza calasse: dopo anni in costante crescita, il suo efficiency rating è crollato dal 31.1 dello scorso anno all’attuale 24.3; il true shooting è passato dal 66.8% del 2014 al 49.0% di quest’anno, il più basso in carriera, unito al 16% da tre, e anche la sua percentuale di palle perse è la più alta di sempre, ma ha comunque giocato una grande pallacanestro.

LeBron non si è nemmeno fatto mancare qualche frecciata rivolta al mal sopportato David Blatt (con il quale, molto semplicemente, non parla, e questo aumenta ulteriormente il coefficiente di difficoltà di quel che stanno facendo i Cavs), giusto per ribadire ulteriormente che c’è un solo uomo al comando.

Dal 2011 a oggi, il record di LBJ contro le formazioni della Eastern è di 15 serie vinte e zero perse. E quindi, eccoci alla quinta Finale consecutiva, raggiunta con 12 vittorie a fronte di appena 2 sconfitte; un risultato strabiliante, che non ricorre dal 1966, quando a farcela fu Bill Russell, icona e simbolo dei Boston Celtics che di Finali ne disputarono dieci, una dopo l’altra.

Fare paragoni tra quello che ha fatto James (oltre al suo fido tiratore James Jones, che condivide il record) e le imprese di Russell, ha però poco senso, come paragonare una NBA a 30 squadre e una che di franchigie ne aveva appena 9.

Allo stesso modo, il sapore epico delle cinque Finali consecutive sfuma un po’, quando si pensa a chi siano stati i rivali dei Miami Heat e dei Cleveland Cavaliers di questo quinquennio, e quale sia il valore della Eastern Conference paragonato alla rivale Western.

Il divario, è innegabile, ma sono i numeri a tracciarne la portata: in questi cinque anni, chi è arrivato in Finale dalla Eastern hanno affrontato squadre con una media cumulativa di vittorie in stagione regolare pari al 58.6%, contro il 62.8% delle avversarie della finalista dell’ovest.

Può sembrare poco, ma ragioniamo in termini di partite vinte, anziché di percentuali: le avversarie di Playoffs di LeBron, negli ultimi 5 anni, hanno vinto un totale di 701 partite; le antagoniste della regina dell’ovest, 753, cioè 52 partite di differenza!

Questo non dipende da qualche “powerhouse” da sessanta e più vittorie, ma dalla qualità diffusa della Western: in questi cinque anni da Mavs, Thunder, Spurs e Warriors hanno disputato il primo turno contro franchigie che vantavano una media di 44.6 vittorie stagionali, a fronte delle appena 39.6 delle loro controparti orientali.

Queste cinque Finali consecutive sono un monumento alla continuità, al talento e alla bravura di James, ma, se si vuole uscire dalle logiche da titolone a tutta pagina, non possono essere lette fuori dall’ambiente che le ha prodotte.

Lo stesso traguardo, raggiunto da un lato o dall’altro del tabellone, assume connotati completamente diversi, e, per quanto questo possa guastare la festa alla “narrativa” di LBJ, questo record va ricondotto (anche) alle condizioni penose della Eastern Conference.

Durante questi tre turni James si è divertito

ha attaccato il ferro in modo spietato

e diretto il traffico con autorevolezza

ma soprattutto, ha posto un rebus tattico irrisolvibile per una formazione non equipaggiata per difendere nell’unico modo possibile contro James: negargli la penetrazione e il post basso, e sperare che non sia in serata di grazia da 6-8 metri.

Che cosa attendersi, allora, dalla sesta finale di LBJ, la seconda con la maglia dei Cavs?

A nostro modo di vedere, James ha già vinto; se durante il quadriennio a South Beach si poteva accusarlo d’aver beneficiato alla grande della presenza dei suoi “dos amigos”, a Cleveland è diventato primo violino, coro e spesso anche direttore d’orchestra. Ne hanno risentito le sue percentuali (e forse si adombreranno i più scalmanati seguaci della sabermetrica), ma ne ha beneficiato l’immagine di LeBron, trasformatosi in un vero uomo-franchigia.

Certo, l’estate scorsa LBJ ha scelto la squadra più promettente dal mazzo, ma di formazioni imbottite di stelle ne abbiamo viste molte, e solo una minima parte ha tradotto sul parquet il proprio potenziale, quindi onore al merito per chi è stato capace di fare i fatti senza accampare scuse (l’involuzione di Love, il disamore verso Blatt, gli infortuni, a partire da quello, spesso dimenticato, di Anderson Varejao).

Da un punto di vista mediatico tuttavia, James si gioca molto: la sesta Finale significa raggiungere Michael Jordan (arriva allo stesso traguardo con cinque anni d’anticipo), ma i Bulls vinsero tutte le Finals alle quali parteciparono, mentre LeBron è 2-3.

Vincere significherebbe riportare in Ohio un trofeo sportivo che manca dal 1964, quando i Browns vinsero la NFL, e poi stabilire il proprio primato indiscusso come atleta più amato e vincente dello Stato, oltre che agguantare, con tre anelli, Larry Bird, il suo unico rivale per il titolo di miglior ala piccola di sempre.

Di contro, se dovesse perdere, gli stessi che oggi lo esaltano gli salterebbero alla gola per le percentuali in picchiata, per il rapporto teso con Blatt (che certamente non aiuterà, nei momenti difficili), o per non essere stato capace di coinvolgere Kevin Love (noi però rimaniamo con coach Jerry Sloan: “I giocatori devono motivarsi da soli”).

Cleveland arriva in Finale come la squadra del destino, perché anche nelle avversità, alla fine è andato tutto bene; si è rotto Irving, ma è capitato contro un avversario ancor più acciaccato e alle prese con i propri problemi; si è infortunato Love, ma è stato, come detto, più che altro un bene.

Poteva finire malissimo in Gara 4 contro i Bulls, quando Blatt chiamò un timeout che non aveva (da regolamento, sarebbe stato tiro libero e palla a Chicago, con 9 secondi da giocare)

In generale, i Cavs hanno beneficiato dell’erraticità dei fischietti in questa Postseason, che stanno rendendo difficilissima la vita a Steve Javie (l’ex arbitro che “spiega le chiamate” su ESPN), costretto a spericolati sofismi per difendere la scelta di non espellere Dwight Howard dopo la gomitata ad Andrew Bogut, e al contempo supportare la scelta di espellere Taj Gibson e Al Horford, rei d’aver incontrato sulla loro strada l’esterno più sporco dai tempi di Stockton (e il paragone si ferma lì), alias Matthew DellaVedova.

Lungo la strada, alcuni giocatori sono cresciuti esponenzialmente, da Iman Shumpert, scaricato dai Knicks e tornato quello scintillante del primo anno al Madison, passando per un JR Smith sedato e produttivo, oltre a Tristan Thompson, il giocatore forse più importante dell’intero roster, un quattro di buona mobilità, limitato in attacco, ma dotato di cuore e fiuto per i rimbalzi come pochi altri.

I Cavs non hanno tantissimi punti nelle mani, non eseguono come dovrebbero, e difensivamente hanno delle falle (Mozgov, arrivato in inverno, ci ha messo una pezza, ma Cleveland resta una formazione non impeccabile sulle rotazioni), ma sono una formazione resiliente e determinata, evidentemente rapita dalla leadership di James, che ha pilotato un gruppo giovane e relativamente inesperto fino alle Finals NBA.

In tutto questo, finisce quasi dimenticato David Blatt, difeso anche in questi giorni a spada tratta da Jeff Van Gundy, e preso di mira da molti fan e giornalisti (che, peraltro, così evidenziano solo la propria insipienza). Blatt si è adattato alla grande alla prima stagione NBA, adeguandosi al volo alle circostanze, senza perdere la bussola dopo le prime, difficili settimane, e riuscendo ad evitare che i rapporti tesi con LBJ diventassero una distrazione per la squadra, rimasta concentrata e che viaggia col vento in poppa.

Staremo a vedere se l’inerzia proseguirà anche in Finale, dove incontreranno una formazione molto più forte di tutte quelle viste fin’ora, ma Cleveland è convinta come mai che questa sia la volta buona. Gli ingredienti ci sono tutti, dai grandi nomi come Kyrie Irving a James, ai comprimari che fanno innamorare il pubblico, come Tristan Thompson, Shumpert e DellaVedova.

Non è detto che basti, perché dall’altra parte c’è una Golden State che ha superato senza troppi patemi la ricca concorrenza della Western, ma di certo le Finali (che iniziano la mattina del 5 giugno italiano) saranno una lotta molto più combattuta e incerta di ogni altra serie affrontata fin qui dai Cavs, ma anche dai Warriors.

7 thoughts on “La leggenda di Lebron continua…

  1. A lui farebbe senz’altro piacere, visto che è cresciuto a pane e Wrestling!

  2. TT l’elemento più importante a roster……..no, aspetta n’attimo……:) Le parole sono importanti!!!!!!!

  3. Le parole sono importanti ma… non vanno mai lette fuori contesto! =)
    Cmq confermo, Thompson giocatore fondamentale, ovvio, LBJ è la pietra angolare della squadra, ma Tristan ha un’importanza capitale

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