Sono quelli con quel nome un po’ francofono (a volte sono persino francesi) che hanno calcato i parquet.
Sono, in ogni caso, gente che avrebbe potuto tutto ma qualcosa – a volte di impercettibile – è andato storto.
Sono incompiuti anche se hanno vinto. Sono incompleti anche se hanno avuto statistiche dignitose: sempre – stiamo in guardia – che le abbiano davvero avute.
Sono giocatori di tutto rispetto, in un modo o nell’altro, ma spesso coincidono con l’amaro in bocca.
Non provengono dallo “squallido grigiore pescarese” (nessuno me ne voglia, è solo citazionismo cinematografico): la loro è “la guerra degli Antoine”.
Antoine Devon Walker (1976)
Onestamente non ricordavo che Antoine Walker avesse delle statistiche così corpose in D-League. Colpa dei vuoti di memoria, o di una troppo sicura consapevolezza del fatto che uno che condivide con pochi altri l’appellativo di “genio” non potesse aver collezionato quelle statistiche lì. Imbarazzanti, si dirà. Che non rendono giustizia, si aggiungerà.
Ora, per ripercorrere la guerra degli Antoine, di quelli con questo nome un po’ francofono che hanno calcato il parquet con alterne fortune, non si può non prendere le mosse da The Genius.
Della sua cattiva gestione finanziaria siamo stati tutti al corrente, tanto che la sua parentesi a Porto Rico ci ha fatto soffrire. Va bene che era più o meno il momento di J.R. Smith e Kenyon Martin in Cina, ma per loro era in programma un rientro in tempi brevi. Qui, invece, si parla di debiti.
Di una maglia numero otto (massimo 24, o alla peggio 88) e di un fisico sui generis, di un tiratore stellare, di numeri da All-Star, di riconoscimenti individuali: si parla di tutto questo, e di come ‘Toine (a.k.a. Employee Number Eight) abbia perso la dignità.
Se una volta c’era chi si dava al wrestling, ora c’è chi ricorre all’espediente del documentario alla Screech di Bayside School o alla Macaulay Culkin. Resta un dato incontrovertibile: centodieci milioni di dollari sono difficili da scialacquare anche per le più bucate tra le mani bucate.
Andando con ordine, Walker è approdato tra i pro da campione NCAA, con Kentucky. Dopo aver snocciolato un’ottima annata da rookie a 17,5 e 9 a sera, si è di fatto guadagnato leadership e permanenza a Boston fino al 2003, assieme a tale Paul Pierce, illustre collega: venti e dieci assicurati, ogni sera, per sette anni. Il neo dell’avventura (e, se possibile, della leadership) è evidente dando uno sguardo alle partecipazioni ai play-off, centrati da quei Celtics solo in due occasioni tra 2002 e 2003.
Dunque, dopo un grottesco passaggio a Dallas e una stagione tra Atlanta e Boston (bis), è arrivata per ‘Toine la redenzione dei Gary Payton: anello con gli Heat di Shaq, proprio in faccia ai suoi ex-Mavs (Avery Johnson who?). Certo, pure P.P. è andato prima a Brooklyn e poi a Washington. Ma l’anello, almeno lui, se l’è vinto ai Celtics.
La fase del trash ha inizio nel 2007-’08, anno del ritiro effettivo dalla NBA. Se da una parte parliamo di un ritiro di per sé dignitoso in termini anagrafici (niente Kevin Willis, niente Robert Parish), d’altra parte siamo al cospetto dell’ennesimo caso di stagioni pagate milioni ad atleti sdraiati sul divano: dopo il passaggio ai Wolves (e, impietosamente, un biennio a 8 ppg tra Miami e Minnie), Walker ha ben pensato di ritirarsi, percependo dai Grizzlies gli ultimi 8 milioni della propria carriera da Pro. Con Memphis era andata in porto una trade (quella di Kevin Love, per intenderci): qualcuno, quell’ingaggio, se lo doveva accollare.
Quindi, nell’ordine: bancarotta, Porto Rico (Mets de Guaynabo), Idaho, quintali di peso, documentario. Non male, ‘Toine.
Senza stare a parlare per forza di soldi, basti ricordare le vere motivazioni del (nostro) dispiacere: campione NCAA (e All-America); campione NBA (12° nella classifica MVP del 1997-‘98); top-10 in carriera in triple segnate, canestri dal campo, recuperi, minuti, rimbalzi offensivi e totali. Non diremo delle palle perse e dei tiri sbagliati, perché that’s all folks.
Ultimo, ironico, dato statistico: le medie-carriera corrispondono, il che è singolare, alle cifre che Walker inanellò nel suo anno da rookie.
Antoine Roger Rigaudeau (1971)
Non si può negare che si stia parlando di bolognesità leggendaria, non senza punte di mitologia in termini di nazionale francese. Solo che quello fortissimo, forse, è sempre rimasto (non solo nell’immaginario collettivo) “quello del tiro da quattro punti”, che a sua volta a Dallas ci è finito.
Ragione per cui non stupisce, in fondo, che la romantica comparsata di Rigaudeau nella NBA sia stata molto più alla Stefano Rusconi che alla Rasho Nesterovic. Dispiace, perché se De Colo ha avuto modo di rimanere persino (per troppo) a lungo, questo atleta non aveva nulla da invidiare a molti dei suoi attuali compatrioti: ammetto, in questa dichiarazione, un po’ di campanilismo italiota e tutto il rispetto per Boris Diaw o Serge Ibaka (ci mancherebbe).
I numeri raccontano di un imbarazzo: undici apparizioni a trentuno anni (nel 2002-’03), con appena 1,5 ppg e il 20% sia da due che da tre. Aggiungiamo che il giocatore è rimasto ai Mavs fino alla fine della regular, giusto per provare a sfruttare tutte le chances di avere minuti. Non c’è verso di addolcire questo strazio, nemmeno con i 36 minuti, nemmeno pensando che Don Nelson aveva Van Exel e Steve Nash.
L’unico modo, nonché il più ovvio, consiste nel ripercorrerne la carriera. Sempre MVP in Francia dal ’91 al ’94, Antoine lo è per la quinta volta con il Pau Orthez, con cui si laurea finanche campione nazionale.
A Bologna, complice un team tra i più forti della storia d’Italia (Ginobili e Jaric, per limitarci solo a quelli che sarebbero andati in NBA, oltre al già citato Rasho), vince tutto il vincibile, pure in Europa. In Nazionale non va affatto male: se l’argento a Sidney 2000 ha dell’amarezza, il Bronzo all’Europeo di Belgrado 2005 è un meritato riconoscimento alla carriera.
Lo stesso si può dire del ritiro, avvenuto dopo due stagioni a Valencia, da vero e proprio animale del basket europeo: sempre in doppia cifra, sempre ottime percentuali al tiro. In buona sostanza, Rigaudeau è il trait d’union tra la generazione degli Abdul-Wahad e quella dei Tony Parker, occupando tra i due estremi una posizione intermedia.
Come dire: Vincenzo Esposito sarà stato pure mitico a Toronto, ma se avete amato Carlton Myers il vostro cuore per chi batte? (La domanda vale forse per i fan di Pesaro: si fa più complessa per gli appassionati della Bologna del basket e diventa quasi antipatica per i sostenitori della Virtus Roma).
Antoine Labotte Carr (1961)
Va beh, pure questa è storia nota e relativamente recente. è interessante come il suo numero di maglia si sia evoluto dal 33 al 55 passando, nel breve interregno a San Antonio, per il 35.
Poi Sua Altezza, Bryon Russell, le Finali, e partite e stagioni di cui non si può più parlare perché tanto ormai le ha già raccontate Buffa. Il dato interessante consiste proprio nella militanza in quegli Spurs, a dimostrazione di come si trattasse di un nobile gregario di squadre da titolo non vincenti: non parliamo di numeri alla Detlef Schrempf, per dirne uno a caso, ma di uno che oltre a Stockton e Malone ha avuto come compagni di squadra l’Ammiraglio e Dennis Rodman, per dire.
Questo è forse il fatto più significativo, cui si può sommare la brevissima parentesi ai Rockets, che proprio schifo non facevano. Poi Vancouver, mestamente.
Ad essere onesti, e senza intenti apologetici, bisognerà rilevare la grande ingiustizia di questa singolare carriera, consistente nel fatto che Carr è stato più glorificato per gli occhialoni che per il rendimento. E, quel che è peggio, senza essere Horace Grant.
Con i due omonimi condivide una caratteristica: come Rigaudeau ha militato in Italia, come Walker ha chiuso in una Lega diversa dalla NBA. Questi elementi non contribuiscono a farne un giocatore peggiore: sembrano, anzi, renderlo più completo come “gregario” tra i “gregari”, riuscendo a non salvare dalla mediocrità la categoria degli Antoine.
987 partite di regular per ventimila minuti in campo e 168 partenze in quintetto, non proprio tagliato a partire in quintetto nella NBA.
Notevole il cursus honorum: pur non vincendo nulla (e ti pareva), ha fatto sognare i tifosi di Milano, mentre il passaggio nella ABA (Kansas City) richiama alla mente epoche julius-ervinghiane, che ormai abbiamo quasi rimosso. Per non sbagliare, anche una parentesi in Grecia.
Vale, per questo longevo atleta, un discorso che non è un alibi. Sfortunato perché spesso infortunato [NDR: memorabile il ricordo di coach Dan Peterson che lo perse per infortunio a causa di… uno scaldabagno guasto!] , ha onorato la palla a spicchi oltre i quarant’anni. Se per qualcuno il discorso della jella potrà sembrare una giustificazione, per Carr non lo è: si tratta di una delle parabole più clamorose a cavallo tra anni ’80 e ’90.
Basti menzionare, in successione, i primi due team nei quali ha giocato. Agli Hawks, in cinque anni e mezzo, ha deluso a più riprese, sembrando un giocatore a tratti involuto; quando sembrava ormai un panchinaro qualunque, a Sacramento è riuscito a stupire tutti, da vero e proprio Most Improved: più di 18 ppg nel primo scorcio di stagione, sopra i 20 (sic!) nella successiva annata, in cui è riuscito per la prima volta a scollinare oltre la mezz’ora. Aggiungiamo 5,5 tabelloni e 1,3 stoppate, che ne fanno un 4 meritevole di tutta la stima possibile.
Onore, dunque, a Carr: emblema, più di molti altri, del “what if”. Big Dog, ma prima di Glenn Robinson.
Antoine Domonick Wright (1984)
Meno di trecento partite, e la palma di “peggiore” tra gli Antoine fin qui passati in rassegna. Non ce ne voglia il signor Wright, ma è la crisi degli Anto’ dei tempi moderni. Simboleggia la frenesia di un’epoca e, al contempo, le molte difficoltà cui va incontro la carriera di un atleta.
Queste non sono necessariamente di tipo fisico o psicologico, né è il caso di scomodare Larry Sanders; può capitare, però, che una trade tronchi ogni speranza. Anche se diventi milionario, anche se finisci da Cuban ed essere chiuso da Nowitzki non è certo un disonore, di fatto hai chiuso.
Finisci dunque per diventare un journeyman, cambiando nove team in cinque anni, rimediando contratti come un cacciatore di taglie. E pensare che quella fatica iniziale ai Nets avrebbe dovuto ripagare, come la più classica delle gavette se non delle rampe di lancio.
Quindi a Dallas, ma ti cacciano giusto perché l’anello lo vinca magari Jason Kidd, ma non tu. Poi a Toronto. Poi a Sacramento, ma non sei Antoine Carr. Sei solo un Antoine, e forse è questo il problema.
Ti succede quindi di vagare tra Cina, Israele, Venezuela e NBDL. Non che questo sia un male (si è, ripeto, milionari), ma non fa che alimentare l’alone di cupezza che avvolge, nella NBA, l’incompiuta stirpe degli Antoine.
Per prenderci un po’ male ricorderemo che dal college questa ala era uscita tirando con il 50% da due e con il 44% da tre, con quasi 18 ppg, 6 rimbalzi e 2,2 assist. Che era stato scelto come quindicesimo assoluto del draft 2004 dai Nets del New Jersey, quelli di Giasone e gli Argonauti. Che, a parte un discreto problemino ai tiri liberi, per i primi tre anni e mezzo le sue cifre erano solo ed esclusivamente cresciute.
Non ce ne vogliano i Mavs, che al tempo erano interessati a sbolognare Van Horn e Devin Harris (guarda tu come devono andare le cose) per prendersi Kidd, ma di fatto gli hanno rovinato la carriera.
Antawn Cortez Jamison (1976)
Quando il database di basketball-reference sembra aver snocciolato anche l’ultima chicca, alla categoria degli Antoine arriva in aiuto la fonetica. è questo il caso di un atleta che nobilita non solo la categoria degli omonimi, ma dello sport tutto.
Era l’epoca dei Vince Carter, e andare male nell’anno del debutto poteva dimostrarsi fatale. A meno che non ci si chiamasse Antawn, non si avessero sette vite come certi animali e non si fosse un giocatore da ventimila punti in carriera.
Devo anche ammettere che da un momento all’altro mi aspetto che lo ingaggi un qualche team per un contratto di dieci giorni, perché questo suo mancato ritiro e questa sua mancata partita d’addio non mi sembrano il modo migliore per salutare.
Parliamo di quello che Golden State scambiò con Vince Carter, e che da rookie non riuscì ad arrivare ai 10 ppg facendo gridare ai Pervis Ellison (vita n. 1).
Parliamo di quello che nella sua seconda vita, sempre ai Warriors, smentì tutti con quattro anni poco sotto i quaranta minuti, di norma a venti punti se non di più, con 7-8 rimbalzi. Parliamo di quello che a Dallas (poi fate voi) si rovinò le medie, scendendo a 14,8 ppg (vita n. 3).
Parliamo, dunque, di quello che andò a Washington in sordina, riuscendo a prendere parte al primo All Star Game della propria vita a 29 anni, per poi bissare a 32 (vita n. 4).
Parliamo di quello che ha deciso di diventare, o si è trovato ad essere suo malgrado, una sorta di uomo-franchigia nei Cavaliers post-rivoluzione, raggranellando due anni da circa 18 punti e 6 rimbalzi, con il consueto recupero ogni notte (vita n. 5).
Parliamo della vita numero 6, che si concretizza in un passaggio nientemeno ai Lakers, per non farsi mancare niente: venti minuti, nove punti e trentaseianni, ad indicare un declino più effettivo che apparente. Un po’ brusco, quello sì.
Parliamo, infine, di uno di quelli che hanno fatto il passaggio Lakers-Clippers per timore di non aver vissuto abbastanza: vita #7, che si sarebbe potuta tranquillamente evitare. Si parla, per concludere, di ventimilaquarantadue punti, quarantesimo di ogni epoca. Di uno che ha giocato nei Wizards dopo Jordan, nei Cavs dopo James, nei Lakers con un Bryant di molto calante.
Nessun trofeo, come da tradizione. Certo, una partita d’addio poteva pure farla: altrimenti, poi, parliamo di uno che ha finito come “tagliato” dal roster degli Hawks, nel febbraio 2014. Del resto, anche se all’anagrafe c’è di fatto una differenza, forse non è poi così tanta.
caelum, non animum, mutant qui trans mare currunt
Bell’articolo!