Efficacia ed efficienza sono spesso erroneamente considerati sinonimi. L’efficacia indica la capacità di raggiungere l’obiettivo, l’efficienza quello di produrre con il minimo sforzo.
Se dovessimo etichettare due degli allenatori più discussi della NBA, Kevin McHale e Scott Brooks, diremmo che sono sicuramente più efficienti che efficaci.
Ogni allenatore sviluppa un idea di gioco che perfeziona negli anni e che lo contraddistingue: dal triangolo di Jackson alla transizione di flusso di Popovich, passando per il “7 seconds or less” di D’Antoni tra gli esempi che hanno fatto scuola negli ultimi vent’anni.
McHale e Brooks appartengono ad una corrente, che potremmo definire minimalista, che prevede una fase offensiva con poche regole che però esaltano, ma allo stesso tempo dipendono da, il talento dei giocatori di riferimento delle rispettive squadre.
Due allenatori tanto discussi che però non sembrano vacillare né per convinzione strategiche né per solidità del posto in panchina. McHale ha rinnovato in estate con un pluriennale e Brooks ha superato indenne diverse annate terminate prima di quanto sperato.
Infatti non parliamo di due franchigie allo sbando che cercano in qualche modo di sopravvivere in attesa di tempi migliori ma di due delle squadre con la programmazione più scrupolosa nella selezione dei giocatori. I due allenatori sono l’incarnazione delle idee cestistiche dei due general manager che anno dopo anno plasmano i rispettivi roster.
Nel caso di Houston Daryl Morey ha trasformato il roster selezionando giocatori in base alle predilette statistiche avanzate, scegliendo quelli in grado di essere pericolosi sia oltre l’arco dei tre punti che vicino a canestro.
I vari Motiejunas, Terrence Jones, Papanikolaou incarnano perfettamente l’idea di lungo che un tempo avremmo definito atipico così adatta al basket di McHale e Morey. Quest’ultimo però non si è fatto scappare l’opportunità di firmare Dwight Howard, uno dei pochi giocatori che produce dal post basso, rinnegando per una volta il suo credo.
In estate non è un mistero che la rinuncia a Parsons fu un sacrificio infruttuoso nella speranza di portare in Texas Chris Bosh, altro lungo che negli anni a Miami ha sviluppato una bidimensionalità ideale per il gioco dei Rockets.
A sostituire Parsons è arrivato Trevor Ariza, meno futuribile, ma allo stesso modo del neo Mavericks pericolosissimo nel tiro da tre, molto più solido in difesa anche se meno abile nel crearsi tiri nell’uno contro uno.
La genesi dei Thunder invece getta le basi su fondamenta totalmente diverse. Tra le difficoltà di una franchigia appena trasferita e la scarsa appetibilità verso i free agent, Scott Brooks ha fatto crescere prima come vice allenatore e poi come head coach un gruppo di giovani dal talento cresciuto oltre ogni aspettativa.
Le difficoltà di un mercato piccolo come quello di Oklahoma City ha portato al sacrificio di più di una pedina lungo la strada, sempre però con una ratio ben precisa.
Con il peccato originale di credere di poter vincere qualsiasi partita con la coppia Durant-Westbrook, cosa per altro vera se i due sono in salute, Presti, G.M. dei Thunder, ha attorniato le due stelle di giocatori dalle spiccate doti difensive con caratteristiche antropometriche ben definite: braccia lunghe e rapidità sopra la media per poter portare in campo una difesa capace di sostenere anche le fasi meno intense di Durant e Westbrook così da lasciarli più freschi per l’attacco.
Gli infortuni hanno però colpito ripetutamente la squadra che non ha mai avuto la possibilità di schierare la formazione migliore nei play-off dall’anno delle Finals.
La forza offensiva di Durant e Westbrook è tale che rendono i compagni ininfluenti e la loro capacità di segnare potenzialmente ogni tiro ha contribuito alla creazione di un playbook scarno e poco variegato.
A fronte dell’ennesima stagione che molto probabilmente non si chiuderà con l’anello, Sam Presti ha dovuto cambiare rotta anche perché Durant nel 2016 sarà free agent, e l’acquisizione di giocatori come Waiters. Augustin e Kanter con il sacrificio di una scelta al draft ne è la prova. Mai prima d’ora in casa Thunder si era guardato tanto al presente e poco al futuro.
Ormai è evidente che il sistema finora utilizzato non può ritenersi affidabile, anche al netto degli infortuni. Dalla partenza di Harden la ricerca di un terzo punto di riferimento offensivo è naufragata tanto da dover ripensare all’intero assetto della squadra.
L’arrivo di Kanter è la prova del tentativo di trovare soluzioni nuove in zone offensive mai esplorate in precedenza con i vari Perkins, Adams, Cole, Collison e Ibaka.
Altro punto da approfondire sarebbe verificare quanto è scelta di Brooks quella di avere un gioco offensivo monotematico e quanto sia la personalità di Westbrook e Durant nell’imporsi in campo. La prova la potremmo avere solo con un altro allenatore in panchina.
Quello che accomuna Thunder e Rockets è la propensione a giocare una pallacanestro up-tempo in cui far schierare il meno possibile la difesa avversaria con la ricerca della conclusione alla prima occasione favorevole. Per poter far questo però la fase difensiva dev’essere di primissimo livello.
Anche se poco reclamizzata la difesa dei Rockets è tra le prime dieci della Lega e quella dei Thunder è da anni ai primissimi posti. Con una buona difesa è molto più facile trovare punti in contropiede o in transizione spesso anche forzando le giocate pur di alzare il numero di possessi.
Anche Houston ama correre e quando non ci riesce adotta un gioco a metà campo in grado di allargare il campo all’estremo, con quattro tiratori perimetrali e una serie di pick and roll, penetra e scarica con le pochissime eccezioni del post basso di Howard.
Nel basket odierno i tiri più pregiati sono o quelli ad alta percentuale, quindi quelli vicini al ferro, o quelli che premiano con più punti, quelli oltre l’arco. Houston incarna l’estremo di questa teoria e nella stagione attuale sta polverizzando molti record.
Sia i Rockets che i Thunder, al completo, sono due squadre ideali per la stagione regolare capaci di vincere partita dopo partita ma devono affrontare nei play-off un cambio radicale per cui fino ad oggi non è bastato affidarsi al talento dei singoli.
La pallacanestro della post season ha ritmi meno alti anche se un’intensità esponenzialmente superiore ma quello che molte volte fa la differenza è la capacità di controbattere alle varianti che gli avversari adottano.
Da questo punto di vista sia McHale che Brooks difficilmente hanno saputo trovare soluzioni e poco hanno cambiato nel modo di giocare delle rispettive squadre nei momenti di difficoltà. Quando gli isolamenti di Harden o le sfuriate di Westbrook perdono di efficacia è compito loro trovare le soluzioni per cambiare l’inerzia di una serie.
McHale e Brooks, due allenatori sicuramente efficienti ma non efficaci, almeno fino a quando non riusciranno a tagliare la retina come head coach della squadra campione NBA.