NBA, metà anni Novanta: a contendere il titolo agli imbattibili Chicago Bulls di Micheal Jordan e Scottie Pippen si cimentano prima i Phoenix Suns di “Sir” Charles Barkley, poi per due volte consecutive gli Utah Jazz di Karl Malone.
Segni particolari (oltre al comune destino privo d’anello): dategli la palla in post, al resto ci pensano loro. E non ci pensate nemmeno di sfidarli a rimbalzo.
NBA, prima metà degli anni 2010: i Miami Heat vincono due anelli e raggiungono 4 Finali consecutive schierando il giocatore più forte del pianeta, LeBron James, nominalmente un’ ala piccola di 206 centimetri (gli stessi del Postino), in ala grande, potendo contemporaneamente schierare un lungo dalle buone percentuali dalla media-lunga distanza (49.5 % da due, 32.6 % da tre in carriera) di nome Chris Bosh.
La prima delle due sconfitte in Finale avviene per opera dei Dallas Mavericks, il cui giocatore simbolo è un tedesco di 213 centimetri ma riconosciuto, più che per il suo gioco in post, per un fade-away praticamente immarcabile.
No, signori, non è più l’ NBA dei nostri padri. Ma quando ha smesso di esserlo? Insomma, quando è che possiamo fissare un inizio dell’ attuale era degli “stretch four” ? E quanto questa figura è diventata indispensabile, nella NBA moderna, per pensare di puntare al titolo?
E’ evidente che tutto parta nel lontano 1979, quando la Lega, per effetto della fusione con la rivale ABA, adotta la linea dei tre punti: cambiamento epocale, probabilmente decisivo nell’evoluzione perimetrale del gioco a cui stiamo assistendo e forse secondo solo all’ adozione dei 24 secondi nell’ economia globale dello stesso.
Tuttavia, almeno in una fase iniziale, la nuova dimensione esterna viene praticamente ghettizzata a vantaggio quasi esclusivo delle guardie, con i lunghi che fanno fatica a “riprogrammarsi” rispetto agli insegnamenti di una intera vita.
Una specie di periodo di incubazione, se è lecito chiamarlo così.
Già negli anni Ottanta , tuttavia, qualcosa si inizia a muovere: è proprio una delle stelle della NBA del periodo, il leggendario Larry Bird, a dimostrare che c’è vita al di fuori del pitturato anche per i giocatori che superano i 2.05 metri, più o meno universalmente riconosciuto come estremo superiore dell’ altezza di un’ ala piccola.
Con l’arrivo degli anni Novanta, durante i quali il contatto con i lunghi dalle mani di velluto di scuola europea diventa sempre più comune, il fenomeno inizia a manifestarsi in maniera evidente: il back-to-back dei Pistons a cavallo dei due decenni vede nel centro Bill Laimbeer un degno prototipo di “lungo atipico” , Portland arriva alle Finali del 1992 anche attraverso il contributo di lunghi come Clifford Robinson e Terry Mills, ma sarà soprattutto la longevità cestistica, costruita proprio sul “vizietto” del tiro dalla lunga distanza, di giocatori come Keith Van Horn, Sam Perkins ,Matt Bullard e Robert Horry (gli ultimi due campioni NBA con gli Houston Rockets di Rudy Tomjanovich, una squadra 20 anni avanti i suoi tempi in fatto di spaziature offensive), a spianare la strada verso le power forward del nuovo millennio.
Il fenomeno esplode definitivamente nella seconda metà degli anni 2000: lo sdoganamento, a livello NBA, della difesa a zona nel 2002 ha indubbiamente posto la necessità di cercare e sviluppare lunghi che sapessero sia essere “mobili” difensivamente parlando, quanto, all’ occorrenza, avere percentuali da guardie nella metà campo avversaria.
Gli effetti di questo nuovo corso non tardano a materializzarsi: l’italiano Andrea Bargnani, ruolo ala grande ma ricordato più per le sue mani delicate che per la propensione al rimbalzo, viene selezionato come prima scelta nel Draft 2006, mentre il successo degli Orlando Magic di Stan Van Gundy, finalisti nel 2009, è evidentemente “figlio tattico” della lezione dei Rockets di 15 anni prima, passando anche per il contributo di giocatori come Rashard Lewis, Peja Stojakovic ed Hedo Turkoglu, tutti sopra i 2.05 m e tutti specialisti nel tiro dalla distanza.
A sconfiggere i Magic nelle Finali di quell’ anno e a laurearsi campioni NBA sono i Los Angeles Lakers di Kobe Bryant, che, analogamente, hanno in Lamar Odom, versatile ala newyorchese, una pedina fondamentale nella loro triple post offense; d’altra parte, i recenti successi dei San Antonio Spurs passano anche attraverso le prestazioni di lunghi tiratori come Matt Bonner.
E la tendenza non accenna a fermarsi: giocatori come i già citati Nowitzki e Bosh, ma come pure LaMarcus Aldridge, Kevin Durant, Carmelo Anthony e Kevin Love fanno parte di una categoria di giocatori che uniscono (chi più, chi meno) ad una discreta presenza nel pitturato su entrambi i lati del campo, riuscendo per altezza e peso a contrastare i “quattro” avversari, anche la capacità di poter giocare, in fase offensiva, molto lontano dal canestro, essendo in alcuni casi addirittura più efficaci dalla media-lunga distanza che non a pochi metri dal ferro.
In questo modo, il campo diventa estremamente ed improvvisamente largo da coprire per le difese avversarie, costrette a scegliere tra sguarnire la propria area, favorendo così le penetrazioni (non è un caso che, tra i compagni di squadra dei succitati, vi siano playmaker dalla mentalità non certo pass-first come Kyrie Irving, Russell Westbrook o Damien Lillard) , oppure concedere il tiro dalla distanza, con tutti gli annessi e i connessi che ciò comporta: è ufficialmente nato il quattro tattico, anche detto stretch four proprio a causa della tendenza di un giocatore simile ad “allargare” la metà campo offensiva.
Nello scorrere di questa lista, ci rendiamo conto di quanto sia dunque aumentata negli anni l’ importanza, da parte dei lunghi, di saper giocare sempre più lontano dal canestro, così come della crescita dello status degli interpreti del ruolo, inizialmente affidato a degli specialisti e che poi man mano inizia a venir ricoperto, con frequenza sempre maggiore, dagli stessi giocatori franchigia, scelti (e profumatamente pagati) proprio per le loro caratteristiche “ibride” .
Tale tendenza, tra l’altro, viene confermata anche dall’ albo d’oro del premio di MVP della regular season, di cui abbiamo riportato qualche esempio durante il corso di questa analisi: la differenza che passa tra Malone e Durant, ma anche tra Garnett (MVP 2004) e Nowitzki, almeno in termini di “zona di riferimento offensiva” , è talmente evidente che spiegarla sembra quasi un esercizio retorico.
A conti fatti, potremmo sintetizzare che l’evoluzione del gioco negli ultimi 15 anni, caratterizzata tanto dalla decadenza del centro dominante (a sua volta sostituito dalla figura del rim protector, più di una volta impalpabile in termini di produzione offensiva) quanto dalla nascita di una nuova generazione di point guard, molto più “egoista” rispetto alle precedenti, ha contestualmente determinato una graduale ma costante evoluzione in senso perimetrale dell’ ala grande.
In questo modo si è modellata una nuova configurazione di riferimento, che ha “spostato” il suo baricentro verso guardie ed ali, “naturalmente” e inevitabilmente portate ad avvicinarsi al canestro: non è un caso che il volume e le percentuali al tiro nel pitturato in carriera di Lebron siano maggiori di quelle di un certo Shaquille O’ Neal , per antonomasia l’ultimo dei centri “veri” del basket moderno.
Tale configurazione, per altro, pare rappresentare l’unica via possibile per essere e restare competitivi nella NBA moderna, una Lega in cui il controllo dello spazio sembra essere diventato il primo comandamento di ogni allenatore che si rispetti.
D’ altronde, il controllo dello spazio a svantaggio dell’ uomo non è un concetto esclusivamente circoscritto al mondo della palla a spicchi: si potrebbe addirittura azzardare un paragone tra lo sviluppo dello stretch four nella pallacanestro del nuovo millennio e quello del falso nueve nel calcio.
Se infatti sui rettangoli verdi di tutta Europa Pep Guardiola continua a predicare che “il miglior centravanti è lo spazio” , dimostrando al globo intero che è possibile giocare (e vincere) senza ricorrrere necessariamente ad un “big man” che occupi fisicamente l’area di rigore, ma anzi rinunciandovi sistematicamente (basti pensare all’ inadattabilità di un certo Ibrahimovic nel contesto del tiki-taka catalano) , al fine di svuotare gli ultimi 16 metri per permettere gli inserimenti di esterni sempre più veloci e di centrocampisti di grande acume tattico , sui parquet dall’ altro lato dell’ Atlantico lo “sfratto” dei lunghi dal pitturato permette agli esterni di poter aumentare contemporaneamente sia la propria pericolosità (attraverso l’ uso di penetrazioni o semplicemente sfruttando il maggior numero di blocchi) che quella complessiva di squadra, considerate le inedite (almeno dal punto di vista “storico” ) capacità balistiche dei centri di nuova generazione.
In questo senso, le scelte di squadre come Memphis o Chicago, che optano nei due ruoli di ala grande e centro per una coppia di lunghi più “tradizionali” (M.Gasol-Randolph in Tennessee, P.Gasol-Noah in Illinois) , ma pure degli stessi Clippers che schierano la coppia Griffin-Jordan (molto più “condizionante” difensivamente che non offensivamente) , sembra quasi anacronistica e rappresenta una sorta di “sfida” alla tendenza del momento, sebbene gli stessi Spurs campioni in carica (ed una delle ultime squadre a vincere il titolo con una coppia di lunghi dalla dimensione prevalentemente interna, le Twin Towers nell’ ormai lontano 1999) beneficino ancora, accanto all’ eterno Tim Duncan, delle prestazioni di un lungo più “classico” come il brasiliano Thiago Splitter, per quanto alternato nella rotazione ad un Boris Diaw molto più “moderno” nell’ interpretazione del ruolo.
D’ altro canto, l’impatto devastante che già attualmente hanno sulla Lega giocatori come Anthony Davis (una ex guardia a cui madre natura ha imposto un cambio di ruolo e che rappresenta il prototipo perfetto di “lungo dominante” del futuro) e lo stesso LeBron (tendenzialmente classificabile come un’ ala piccola sovradimensionata che, esplorando il gioco in post, ha definitivamente fatto il salto di qualità) rappresenta un segnale di quanto la NBA sia già a tutti gli effetti quella Lega di “guardie ed ali” che qualche analista paventa come probabile stadio finale del più generale processo di “de-centramento” e “alapiccolizzazione” del gioco, all’ interno del quale lo sviluppo del quattro tattico pare un effetto, più che una causa.
La tendenza degli ultimi 35 anni prevederebbe quindi che, nel giro di una generazione, il ruolo del “quattro” si vada a sviluppare sempre più verso una dimensione esterna, tanto più evidente quanto più i sistemi offensivi delle squadre di appartenenza baseranno la loro efficacia sul tiro da 3 e sullo sfruttamento dei miss-match.
E’ evidente dunque che in questo contesto si potrebbe verificare una graduale riduzione della padronanza dei fondamentali classici nel pitturato, a tutto vantaggio di una crescente specializzazione delle capacità balistiche: vedere ali piccole che si adatteranno a giocare come ali grandi potrebbe diventare la regola, non l’eccezione.
Insomma, se l’ NBA dei nostri padri si giocava palla in mano spalle a canestro o in pick and roll, molto probabilmente quella dei nostri figli si giocherà in attesa di uno scarico nell’ angolo o in pick and pop.
Ringrazio Francesco “Fleccio” Andrianopoli per la fattiva collaborazione nella stesura di questo pezzo.
Laureato in Ingegneria con la passione dello sport,più quello guardato che quello giocato,anche se non potrebbe mai rinunciare alla partita di calcetto settimanale.
Tifoso del Napoli e dei New York Knicks,pensa che non vedrà mai nessuna delle sue due squadre del cuore vincere qualcosa di importante.
A chi interessasse,single.
Non capisco i grafici,,,
http://www.ciuff.it/2013/06/16/nba-e-finita-lera-dei-grandi-centri