Con l’approssimarsi della fine della Stagione Regolare, torna d’attualità, come ogni primavera, il dibattito su chi debba essere l’MVP, e sul significato di tale premio, letteralmente “giocatore di maggior valore”, spesso confuso con un generico “miglior giocatore

Quanto vale, esattamente, un riconoscimento assegnato da giornalisti, secondo un metro di giudizio discontinuo e poco chiaro?
Prendendone alla lettera il nome, il trofeo di MVP dovrebbe premiare il giocatore che, individualmente, dà di più alla propria squadra.

In realtà, pur essendo un premio individuale, l’MVP include fattori che esulano completamente dal controllo del singolo (per vincerlo, non basta portare la squadra sulle spalle, occorre che la franchigia in questione abbia un record di vertice, ma questo dipende in buona parte dalla bravura dei compagni, in parte dal GM, e dallo staff tecnico), oltre ad essere un premio che privilegia l’attacco rispetto alla difesa.

Personalmente non ho mai deposto molta fiducia nei trofei individuali, perché i riconoscimenti sono assegnati da individui, suscettibili d’invidie e simpatie personali.

Nulla di male nell’assegnarli, anzi, è divertente, a patto di non sopravvalutarne il peso quando si valuta una carriera, o tirarli in ballo per stabilire se Tizio fosse migliore di Caio, attribuendo così un valore assoluto a un premio che, viceversa, è il prodotto di opinioni.

È un discorso che non vale solo per l’MVP, ma anche per gli altri trofei NBA, dal Defensive Player al ROY, dal Miglior Allenatore al Most Improved.

Il Defensive Player of the Year è appannaggio dei lunghi (l’unico esterno ad averlo vinto due volte è stato Sidney Moncrief, nelle prime due edizioni), che l’hanno conquistato 25 volte su 32 edizioni, con un perfetto 10 su 10 nell’ultima decade.

Bruce Bowen, Shane Battier, Tony Allen e Scottie Pippen non l’hanno mai vinto, contro le quattro volte a testa di Dikembe Mutombo e Ben Wallace, il che va benissimo, a patto di non credere, per questo, che Wallace sia stato un difensore migliore di Bowen.

Anche il Rookie of the Year può essere messo in discussione: nel 2004, ad esempio, si premiò LeBron James, che era chiaramente il più forte in prospettiva, ma Carmelo Anthony disputò una stagione migliore: segnava di più, prendeva più rimbalzi, tirava meglio da ogni zona del campo e in meno minuti, conquistando anche i PO della Western Conference.

Tornando all’MVP: vincerlo significa aver giocato il miglior basket nel corso di una stagione, o essere tout court il migliore? Quando Charles Barkley divenne Most Valuable, nel 1993, disputò una grande Regular Season, ma nessuno credeva che fosse diventato più forte di Michael Jordan.

Non esprimendo un valore di forza assoluto, è legittimo che non sia assegnato sempre agli stessi giocatori, altrimenti, dagli anni ottanta a oggi, l’avrebbero potuto vincere solo Magic Johnson, Larry Bird, MJ, Shaquille O’Neal, Tim Duncan, Kobe Bryant, LeBron James e Kevin Durant.

Allo stesso tempo, non ci si può nemmeno basare esclusivamente sulle statistiche, altrimenti basterebbe una telefonata a John Hollinger, senza disturbarsi a votare.

In realtà, come vediamo dal grafico (per il quale ringraziamo Kelly Scaletta), il PER (indice inventato proprio da Hollinger, ex firma di ESPN, oggi in forza al front office dei Memphis Grizzlies) non è particolarmente accurato.

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I cerchietti rossi indicano la posizione in classifica PER dell’MVP stagionale, mentre quelli viola indicano il risultato del giocatore con il miglior PER nella corsa all’MVP.

Un dato più attendibile è quello delle win shares (per chi vuole saperne di più, Dean Oliver ha scritto “Basketball on Paper”), come evidenziato dal secondo grafico. Chi è primo per w/s tende a vincere l’MVP.

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L’unico giocatore a essere stato il migliore sia per PER sia per w/s a non aver vinto l’MVP, è stato Kevin Garnett, nel 2005-06, perché i T-Wolves non arrivarono ai Playoffs.

Il record di squadra è un fattore determinante: solo tre volte l’MVP non ha giocato in una squadra con uno dei migliori quattro record della lega (due volte Moses Malone, una volta Michael Jordan).

Spesso poi, i criteri di valutazione si adattano ai candidati: quando Steve Nash dipingeva pallacanestro, l’MVP divenne appannaggio di chi “migliorava i compagni” (frase tanto vaga quanto foriera di fraintendimenti), spianando al strada al playmaker dei Phoenix Suns sia nel 2005 che nel 2006. Per inciso, Jason Kidd e John Stockton, probabilmente i migliori playmaker degli ultimi 25 anni, hanno zero MVP in due.

Nel 2007 fu premiato Dirk Nowitzki, indicando come criterio quello de “miglior giocatore della miglior squadra”, che ci sembra sia piuttosto la descrizione dell’MVP delle Finali (il destino cinico e baro, volle che il povero Dirk ricevesse il premio dopo essere stato eliminato al primo turno dai Warriors di Don Nelson).

Nel frattempo, Kobe Bryant era rimasto al palo. Portava Smush Parker e Kwame Brown ai Playoffs da titolari, ma non bastava.
Così, nel 2008, si rimediò incoronandolo MVP, al termine di una stagione chiusa in vetta alla Western Conference, ma individualmente meno spaziale rispetto alle due precedenti.

Con una brillante operazione di maquillage, il tutto venne impacchettato con la scritta “ora Kobe è maturo”, ma l’unica differenza è che al posto di Smush e Kwame arrivarono Derek Fisher e Pau Gasol.

Non è un problema, a patto di non convincersi di poter usare l’MVP per pesare un giocatore. Anche i trofei di squadra (tornei NCAA, titoli NBA, medaglie olimpiche) non sempre dicono tutta la verità sul valore di un singolo, essendo ovviamente frutto di uno sforzo di squadra, ma i premi individuali soffrono dello stesso difetto, e in più sono influenzati dai gusti.

Quando si parla di premi individuali, la tendenza tra i fan è difendere i propri preferiti, per cui, quando vince il proprio beniamino, il traguardo è sintomatico di assoluta grandezza, mentre se perde, lo stesso premio non vale più niente.

I riconoscimenti non determinano uno status e non certificano nulla; ci sono stati MVP vinti perché a qualcuno bisognava pur darlo (Karl Malone, nel 1999), e c’è gente come Gary Payton, che nel 2000 si espresse a livelli celestiali, ma non vinse perché, per sua sfortuna, lo fece nell’anno in cui Shaquille O’Neal disputò la più dominante stagione del basket moderno.

Quest’anno, con tre concorrenti agguerritissimi, scegliere sarà arduo. Chi, tra James Harden, Russell Westbrook e Stephen Curry è “most valuable”?

Qualcuno avanza anche la candidatura di LeBron James, ma in tutta franchezza, con tre candidati del livello di Russ, Steph e del Barba, consegnare l’MVP per la quinta volta a James sarebbe una soluzione contraria allo spirito di un premio che, anche in piena era Michael Jordan, ha sorriso a Barkley e David Robinson.

Questi tre hanno ottimi argomenti per sostenere le proprie candidature; Russell Westbrook sta giocando da uomo in missione, collezionando statistiche clamorose con cui, di quarantello in quarantello, tiene i Thunder in corsa per i Playoffs.

James Harden ha innalzato il proprio livello di gioco (iniziando anche a difendere), consentendo così a Houston di sopravvivere alle numerose assenze di Dwight Howard e di entrare di diritto tra le contendenti al titolo NBA.

Steph Curry gioca sul velluto, da punta di diamante in una squadra bella e solida come i Warriors, ma potrebbe essere svantaggiato proprio dalla coralità del gioco di Steve Kerr e Alvin Gentry, e dalla presenza del favoloso Klay Thompson, a sua volta non così distante dagli standard di un MVP.

Ci sono statistiche che potremmo citare per sostenere ciascuna candidatura, dall’usage di Westbrook alla classifica cannonieri, passando per il plus/minus di Curry, ma il basket è uno sport di squadra, e nessuna statistica può essere letta a sé.

Pensiamo a Josh Smith: in versione Pistons era la cryptonite della Sabermetrica, mentre ai Rockets è diventato analytics-friendly; in questo sport, il contesto fa tutta la differenza del mondo, e capire dove finiscano i meriti del gruppo e inizino quelli del singolo, è materia controversa.

Esiste poi un altro approccio alll’MVP, che è, a mio avviso, quello più romantico e onesto, nel senso che non si nasconde dietro ad una finta oggettività, ma ammette candidamente di premiare in base al gusto.

In questo senso, senza la foglia di fico del record di squadra o della sabermetrica, si può dire senza problemi che l’MVP non stabilisce chi è il giocatore più forte, o quello che “migliora di più” i compagni, ma esprime una semplice preferenza per il giocatore che ha entusiasmato di più nel corso di una stagione.

Chi vincerà, allora? Non lo sappiamo, però abbiamo alcuni indizi: Harden è titolare del miglior w/s, ma su 48 minuti, il titolo passa a Curry. Guardando al PER, il migliore tra loro è Westbrook (il migliore in assoluto è Anthony Davis), seguito da Curry e James Harden.

La sensazione è che il figlio di Dell Curry sia un ovvio favorito, anche per la “narrativa” dei Golden State Warriors di questa stagione, una squadra positiva, bella e tecnicamente molto solida, che ha dominato la Regular Season e che sta magnificando le qualità di un artista prestato al basket.

Un eventuale MVP non andrà letto come la proclamazione di Curry a miglior giocatore della NBA, ma, solo e semplicemente, a superstar che più ha entusiasmato nel corso della stagione. Quel che importa davvero, è che Russ, il Barba e Steph sono tre giocatori for the ages e siamo fortunati a poterceli gustare, partita dopo partita, ancora per tanti anni a venire.

5 thoughts on “Quanto vale l’MVP?

  1. altro bell’articolo

    solo su un paio di accostamenti non concordo: Bowen non inferiore a BenWallace…mhm…Bowen ha dovuto molto anche alle sue scorrettezze…uno dei migliori difensori nel suo ruolo, senza dubbio…
    ma l’impatto di BigBen era piu “totale”, a livello di difesa di squadra, quello di Bruce piu individuale…

    comunque avrei preferito che l’accostamento fosse stato fatto con Pippen…

    Scottie, lui si, a mio avviso il miglior difensore nel suo ruolo…uno dei migliori della storia in assoluto, uno dei pochi esterni ad avere un impatto difensivo eccelso sia sul proprio uomo che a livello di squadra
    Scottie che non ha vinto mai il DPOY, ma anche perchè lo ha vinto MJ al suo posto

  2. ottimo articolo! secondo me conta anche la continuità durante la RS. curry ed harden sono da sempre sul pezzo. westbrook causa anche infortuni ma è esploso nelle ultime 10 a livello statistico.

  3. Non sono d’accordo con la tua critica ai criteri con cui negli anni scorsi sono stati dati i premi di MVP per esempio Bryant avrà anche tirato la carretta da solo dal 2005 al 2007 (ma per sua scelta) e collezzionando comunque recordo modesti, al di sotto delle 50 vittorie, ok che senza di lui quei Lakers non ne avrebbero vinte nemmeno 10, ma meritevole di MVP è chi ti porta al vertice, non ti mantiene a galla, esempio lampante Allen Iverson del 2001, compagni di squadra non molto migliori di quelli di Kobe ma 56 vittorie e titolo di division in tasca quand’era ora di scegliere l’MVP, sul doppio MVP a Nash si sono spese un sacco di parole io dico solo che ammiro un sacco come sia riuscito a tenere la squadra e se stesso ad alti livelli sia con Stat affianco sia l’anno dopo con lo stesso ai box, per come la vedo io l’MVP è quel giocatore che in un modo o nell’altro fa raggiungere alla sua squadra livelli altissimi (ecco perchè kobe non l’ha vinto prima e Anthony Davis non lo vincerà quest’anno) di gioco e di risultati, per questo forse penso che quest’anno lo meriterebbero di più Harden e Westbrook che non hanno avuto intorno (se non a tratti) tutto il talento e il gioco di Golden State, fermo restando che anche andasse a Curry non ci sarebbe niente da ridire.

  4. I risultati di una squadra sono, tautologicamente, il prodotto degli sforzi di un gruppo. Non credo ai giocatori che, miracolosamente, “migliorano i compagni” o “fanno raggiungere alla squadra altissimi livelli”. La lettura deve essere sempre tenere in considerazione tutti i fattori, pena, semplificare tutto secondo narrative banali, non sei d’accordo?

    Il singolo non fa la squadra.
    Non è vero per Bryant (che, comunque, aveva Lamar Odom) e non è vero per Nash (Stoudemire o meno, c’erano Raja Bell, Leandro Barbosa, Boris Diaw e Shawn Marion, che prese qualche voto per MVP e nel 2006 ebbe più w/s di Nash).
    L’altro esempio citato è Allen Iverson, che, nel 2001, aveva in squadra il Difensore dell’Anno (Dikembe Mutombo), Eric Snow, e il Sesto Uomo dell’Anno (Aaron McKie).

    Personalmente, non mi importa chi vincerà l’MVP, e nemmeno con quali criteri venga assegnato, basta che sia coerente (e non lo è, tanto che anche tu, dopo aver appena finito di dire che l’MVP deve portare la squadra all’eccellenza, dici che quest’anno lo meriterebbero di più Harden e Westbrook, le cui squadre non sfiorano il livello di Golden State, e anzi, nel caso di OKC, sono largamente al di sotto della somma delle parti) e che non lo si usi per decretare la grandezza di un giocatore.

    Tutto qui.

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