Barclays Center di Brooklyn, Slam Dunk Contest: Victor Oladipo ha appena concluso una spaventosa 540° reverse dunk che gli è valsa il cinquantello.
Tra i giudici c’è gente del calibro di Walt Clyde Frazier, Nate Archibald e Doctor Julius Erving, che probabilmente hanno imparato prima a palleggiare che camminare; è chiaro che solo qualcosa di sconvolgente può superare la performance della guardia dei Magic.
A questo punto dalla panchina si alza un tipetto di 1,96m che pare con le schiacciate ci sappia fare: il suo nome è Zachary “Zach” Lavine; per l’occasione indossa la Jordan n.23 di Space Jam, la pellicola che gli ha dato l’imprinting alla pallacanestro.
Zach raccoglie il pallone al volo dopo averlo lasciato rimbalzare, lo passa tra le gambe e schiaccia: il palazzetto esplode, 50 facili!
Alla fine vincerà con un poderoso 194, eguagliando, neanche a farlo apposta, i suoi idoli di sempre Michael Jordan e Kobe Bryant, nonché Vince Carter, un altro che con il ferro aveva un certo feeling. Ah, dimenticavo: Lavine è nato nel 1995, praticamente ieri!
I genitori di Zach erano due sportivi: suo padre Paul modesto giocatore NFL, sua madre Cheryl eccellente giocatrice di softball, e lui nato nell’era di Jordan e dei Chicago Bulls del double three-peat, innamorato fin da subito del gioco del basket e desideroso un giorno di poter calcare i parquet NBA e, perchè no, magari vincere l’anello.
Zach inizia a sfoderare la sua classe e il suo atletismo alla Brothell High School, dove tra il 2009 e il 2013 inizia a giocare da Point Guard realizzando una media di 28 punti, 3.5 rimbalzi e 2.5 assist a partita.
E’ terribilmente bravo, vince il Mr Washington Basketball. Cominciano a notarlo diversi coach, la chiamata NCAA ormai è dietro l’angolo e nel 2012 viene reclutato da Ben Howland per i suoi UCLA Bruins, i quali però non vivono una grande stagione e il coach viene esonerato dopo qualche mese.
Lo sostituirà Steve Alford, che é chiamato alla guida di un team che all’apparenza non dovrebbe spaccare il Mondo.
I punti di riferimento della squadra sono: Jordan Adams, Norman Powell e tale Kyle Anderson (draftato lo scorso anno dai San Antonio Spurs alla #30); Zach inizia la sua stagione da freshman giocando sesto uomo, ben presto però inizierà a vedere il campo anche e sopratutto dalla “palla a due”, dimostrando di avere carattere, un ottimo tiro da 3 e una spaventosa preponderanza a spaccare il canestro.
La stagione del college losangelino va oltre le aspettative: collezionano 28 vittorie e 9 sconfitte, arrivano fino alle Sweet 16 e sono eliminati dai Florida State di Devon Bookert, che poi arriveranno fino alle Final Four.
La stagione di Lavine segue la stessa falsa riga di quella della squadra: gioca 37 partite tirando con il 44% dal campo, con una media di 9.4 punti, 2.5 rimbalzi, 1.8 assist e 1 rubata a partita.
L’unica nota negativa: non è un grande uomo squadra, tanto che gli viene affibbiata l’etichetta di giocatore che “suda solo per il nome dietro la canotta, non per le 4 lettere che compaiono davanti”; così, quando a fine stagione si dichiarerà eleggibile per il draft NBA 2014, Steve Alford non si strapperà di certo i capelli.
Barclays Center di Brooklyn 7 mesi prima della notte delle schiacciate, esattamente 26 giugno 2014; parla il commissioner NBA Adam Silver: “with the 13th pick , in the 2014 NBA DRAFT, the Minnesota Timberwolves select…Zach Lavine, from UCLA.”
Zach si commuove per un attimo, abbraccia chiunque si trovi nei suoi paraggi, poi si ricompone, indossa il cappellino dei T’Wolves, stringe la mano al Commissioner, foto di rito, conferenza stampa: il ragazzino innamorato di Space Jam entra in NBA dalla porta principale e lo fa in una squadra giovane, giovanissima, se si pensa che qualche settimana dopo arriverà anche la prima scelta assoluta Andrew Wiggins dai Cavs.
La stagione non comincia secondo le sue aspettative: salta le prime cinque partite per un infortunio alla caviglia; però, la fortuna vuole che al suo rientro si rompa Ricky Rubio, la Point Guard principale dei T’Wolves.
Il sostituto naturale sarebbe Mo Williams, ma Zach scalpita, vuole partire in quintetto, lo ha fatto da freshman al College, può farlo da rookie in NBA; Coach Flip Saunders se ne accorge e gli dà fiducia.
Certo, la franchigia dei lupi non vive una stagione propriamente esaltante: ad oggi sono ultimi nella ultracompetitiva Western Conference con un mediocre record di 12 vittorie e 42 sconfitte (solo i New York Knicks hanno fatto peggio!).
Ma Minnesota è una squadra che vuole rinnovare, punta sui giovani; in estate è partito un tale Kevin Love a Cleveland (anche lui prodotto UCLA, nb), a gennaio partirà anche Cory Brewer direzione Houston in cerca di una squadra da titolo.
Dall’Ohio, però, hanno fatto la strada inversa le due più recenti prime scelte assolute, Anthony Bennett e Andrew Wiggins, che con Rubio e proprio Lavine comporranno un poker d’assi niente male per un futuro non troppo lontano, ovviamente se riusciranno a mantenere le attese.
Al gong della deadline è ritornato pure un certo Kevin Garnett, che solo con il suo carisma sarà capace di infiammare il Target Center di Minneapolis; insomma, io aspetterei qualche mese prima di giudicare i T’Wolves!
Torniamo a Lavine e ripartiamo dal 28 novembre 2014 : lo scenario è lo Staples Center di Los Angeles, parquet dei Lakers, contrapposti quella notte ai Minnesota T’Wolves (in quel momento e ancora adesso le due peggiori squadre della Western Conference).
Il ragazzino parte dalla panchina, gioca “solo” 25 minuti, ma in quei minuti c’è tutto Zach Lavine: schiacciate, tiri da tre, atletismo, assist, penetrazioni; alla fine ne metterà 28, il suo attuale carrer high relativamente ai punti. Per la cronaca, Minnesota la spunterà 120-119 all’ultimo secondo con un tiro libero di Young; in verità Kobe avrebbe la palla della vittoria, ma spara una mattonata.
Qualche giorno dopo, il 7 dicembre, altro giro, altro tiro, altra corsa: AT&T Center di San Antonio ospita i campioni in carica contro i Timberwolves; Zach parte titolare, gioca 42 minuti di grande basket contro avversari che solo 5 mesi prima alzavano il Larry O’Brien Championship Trophy, ne mette 22 con 10 assist, che rappresentano il suo attuale carrer high relativo agli assist.
Alla fine San Antonio stravincerà il game per 123-101, ma nella pochezza della squadra di Minneapolis, l’unica stella a brillare in quella notte all’Alamo fu quella di Zach Lavine.
La terza e probabilmente più importante tappa di Zach nella sua ancora neonata carriera NBA è stata, come già anticipato, il weekend newyorkese delle Stelle, nel quale si rende protagonista già dal Rising Stare Challenge del venerdì nella sfida tra rookie e sophmore statunitensi contro quelli del resto del mondo.
Il giorno dopo, durante lo Slam Dunk Contest, le sue capacità atletiche lo fanno partire come assoluto favorito. E in effetti dopo tre turni ha già vinto in anticipo, ma siccome a lui piace stupire, il pezzo forte lo lascia per ultimo: una schiacciata al volo sotto le gambe dopo aver raccolto la palla al volo dallo spigolo del tabellone, dicasi lo spigolo, e passata dietro la schiena; tutti sbalorditi, tutti emozionati, il Barba e Westbrook compresi.
Al momento, il prodotto UCLA è stato capace di produrre in stagione il seguente fatturato: 7.6 punti, 2.1 rimbalzi, 3.2 assist, 21.7 minuti su 48 partite giocate, tirando con il 41.4% dal campo e con il 28.3% dall’arco, inoltre quasi 1 palla rubata a partita.
A chi paragonare (con il dovuto rispetto) Zach Lavine?
Beh, innanzitutto a Russell Westbrook: stesso ruolo, stessa università di provenienza, stessa prepotenza ad attaccare il canestro e schiacciare, stessa capacità di decidere da solo le partite, stessa mania per gli highlights e soprattutto stessa difficoltà a fare gruppo e giocare a servizio della squadra; aggiungiamoci pure che entrambi sono stati protagonisti dell’All Star Game newyorchese.
Altra similitudine fra i due è il tipo di squadra dove hanno esordito: gli Oklahoma City Thunder della stagione 2008-2009, infatti, erano una squadra appena nata dalle ceneri dei gloriosi Seattle Supersonics e come tale in ricostruzione, puntando il loro futuro su due prospetti di assoluto rilievo: uno era proprio il giocatore proveniente da UCLA, l’altro un certo Kevin Durant; i Minnesota T’Wolves di quest’anno, allo stesso modo, stanno cercando di costruirsi il proprio futuro su giovani di successo come Wiggins, Rubio, Bennett e lo stesso Lavine.
Russell fu draftato alla #4 dagli Oklahoma City Thunder nel 2008 a 19 anni, giusto qualche mese in più di Zach quest’anno; alla sua prima stagione in NBA, il play di OKC giocò tutte e 82 le partite della regular season con una media di: 32.5 minuti, 15.3 punti, 4.9 rimbalzi, 5.3 assist. Dopo 6 anni di NBA la sua media è aumentata progressivamente e adesso le sue statistiche globali lo rendono una delle Star assolute di questa lega: 33.8 minuti, 20.6 punti, 5.1 rimbalzi, 7 assist a partita.
Russell e Zach hanno, però, due caratteri molto diversi: il primo è un leader rumoroso, o tutto o niente, gioca sempre al massimo delle sue potenzialità; il secondo, anche se con pochi mesi di attività alle spalle, è un giocatore molto meno carismatico, preferisce la riservatezza all’estrosità del suo collega.
Nel draft del 1999, gli Charlotte Hornets decidono (a buon rendere) di spendere la loro terza scelta al primo giro per accaparrarsi le prestazioni di un tale Baron Davis, passato poi alle cronache come una delle point guard più dominanti del terzo millennio.
Mi direte: “perchè citare il Barone in un articolo su Zach Lavine?” Perché anche lui, come Zach e come Russell, proviene da UCLA, viene draftato quando ha poco meno di 20 anni, è una point guard, ha grandi capacità atletiche e ama penetrare in area come un treno in corsa e schiacciare sulla testa dei suoi avversari.
Chiuse la sua stagione da rookie con un medie modeste: 5.9 punti, 2 rimbalzi, 3.8 assist, più di una palla rubata a partita, giocando 82 partite e tirando con il 42% dal campo e con il 22.5% da 3.
Come evidenziano le statistiche, il primo anno di Davis non fu particolarmente esplosivo nei numeri, ma si notavano fin da subito le sue caratteristiche di penetratore, passatore e soprattutto schiacciatore che faranno di lì a poco la fortuna degli Hornets (Charlotte e poi New Orleans).
E se Zach venisse sdoganato dal suo ruolo di point guard per concentrarsi solo sui punti e sulle schiacciate? Beh, in questo caso allora il primo giocatore che mi viene in mente è Vince Carter, se non il migliore quantomeno il più spettacolare schiacciatore di tutti i tempi.
Zach da questo punto di vista ha fatto già meglio di Vinsanity, che vinse lo Slam Dunk Contest nel 2000, ovvero solo due anni dopo essere stato draftato, mentre Lavine ha fatto centro al primo tentativo (seppure con avversari di minor valore rispetto all’era Carter).
Che tipo di giocatore può diventare Zach Lavine? Nessun atleta, soprattutto in uno sport di squadra, può diventare un fuoriclasse se alle spalle non possiede un team all’altezza delle sue potenzialità, e in questo momento Minnesota rappresenta ancora un punto interrogativo.
L’inglorioso record di 12-42 è lo specchio della squadra: insicura, tanto talento sprecato, peggior squadra della Lega per punti concessi, rimbalzi catturati, e 25° per punti realizzati, nonostante il punto di forza della squadra, nelle idee di Coach Saunders, doveva essere proprio l’attacco.
Nonostante tutto, nella franchigia della Northwest Division si respira aria d’ottimismo per quanto riguarda l’avvenire: ci sono i giovani (Lavine, Wiggins, Bennett, Rubio, Deng), c’è gente esperta (Pekovic, Martin), c’è carisma (Garnett), c’è un allenatore d’esperienza (Flip Saunders), per di più la squadra avrà due o tre scelte al primo giro nel prossimo draft. Dunque, se la stagione attuale può essere archiviata, il Target Center può ben sperare a partire dalla prossima stagione.
I Timberwolves attuali sono l’ideale per un rookie che intende acquisire visibilità: tanti minuti, poca pressione, spogliatoio “leggero”; inoltre Minnesota è una squadra votata all’attacco, Saunders è un maestro del contropiede.
In questo contesto Lavine si è già espresso a livelli discreti, ma può davvero diventare una costante in questa Lega se riuscisse a sfruttare al massimo le sue indubbie abilità atletiche e di ripartenza in contropiede.
Rubio è una delle migliori point guard dell’intera lega, difficile, se non impossibile, provare a fargli le scarpe; meglio per Lavine sarebbe sdoppiarsi in una point/shooting guard che gli permetterebbe di acquisire sempre più spazio all’interno delle rotazioni di Saunders, ma per fare questo dovrebbe migliorare notevolmente il rilascio sul tiro dall’arco.
Seconda pecca: più palla in mano. Un playmaker deve avere la palla in mano più degli altri giocatori; Lavine in questo momento non lo fa abbastanza, dimostrato dallo scarso numero di assist che mette a referto. Qualora riuscisse a prendere in mano gli schemi dei T’Wolves, allora si che in quel di Minneapolis si potrebbe sognare.
Ma non ci si può fermare esclusivamente al fattore tecnico: il carattere è il principale angolo da smussare. Lavine non è mai stato un leader né alla Brothell né a UCLA, non aveva il carisma necessario, non alzava la voce in spogliatoio, giocava per se stesso. Nessun giocatore, tantomeno una point guard può permettersi di giocare esclusivamente per le statistiche.
Detto ciò Zach Lavine è in NBA da soli 5 mesi, il coraggio non gli manca, il futuro è dalla sua parte.
Mi viene in mente il titolo di un film recente che esprime ciò che deve fare Zach in questo momento:“Corri ragazzo, corri!”