Nell’orizzonte affollato di pregi e motivi d’entusiasmo che si godono gli scatenati fan dell’Oracle Arena, può capitare, all’ombra delle meravigliose giocate di Steph Curry, di lasciarsi sfuggire (o anche solo di sottovalutare) quel che sta mettendo in campo, sera dopo sera, l’altro Splash Brother, Klay Thompson.
Klay è un defensive-stopper di prima grandezza, e un tiratore celestiale, ma in passato il suo apporto offensivo si limitava per lo più a situazioni di catch-and-shoot, mentre quest’anno Thompson si è trasformato in un giocatore molto più determinato ad aggredire il canestro, capace di costruire dal palleggio e di attaccare l’aiuto, e allo stesso tempo abile a leggere la difesa e pescare il compagno libero.
Il successo di Golden State passa per tante chiavi di lettura che sono parimenti fondamentali: senza nulla togliere a Mark Jackson (che questa squadra l’ha costruita), Kerr e Gentry hanno aiutato i Dubs a salire di livello, limando le disfunzionalità e accentuando i pregi di una squadra oltretutto molto bella da veder giocare.
Steve Kerr ha saputo vendere con successo una visione fatta di altruismo e di lavoro di gruppo, aiutando la rinascita di chi era schiacciato in un ruolo marginale (come Barnes, Iguodala, e lo straordinario Draymond Green), e che ora, viceversa, gioca a livelli stellari. I risultati, di là dal record, sono lì da vedere: da Festus Ezeli a Justin Holiday, passando per l’impagabile Marreese Speights, sono tutti coinvolti, generosi, positivi.
In questo contesto esaltante, può capitare, dicevamo, di scordarsi di Klay Thompson, che sta giocando a livelli da MVP, ma è oscurato dalla fulgida stella di Stephen Curry che, al suo quinto anno di NBA, sta viaggiando a 23 punti e 8.7 assist di media (oltre ad essere secondo per recuperi e a catturare 4.7 rimbalzi a partita, un’enormità per un giocatore con il suo fisico).
Attenzione, però: non parliamo di dualismi! Steph e Klay sono legatissimi fuori dal campo, e il loro modo di giocare rispecchia quel che disse un anno fa Curry: “Klay è il mio primo tifoso, ed io il suo”; giocano a testa alta, si cercano, sempre pronti a sacrificare un buon tiro per uno migliore dei compagni.
Steph e Klay competono quando si sfidano al tiro in allenamento, ma si tratta di una sana rivalità che spinge entrambi a dare il massimo: Curry è diventato un difensore migliore, mentre l’ex Washington State ha affinato la capacità di costruire dal palleggio, con il risultato di rendere i Warriors molto più funzionali su due lati del campo.
Accade in attacco, con risultati spettacolari, ma anche in difesa, dove l’entusiasmo di Green è contagioso, gli esterni cambiano continuamente, e le rotazioni funzionano con la precisione di un orologio svizzero.
Dice Kerr: “Non è una cosa che alleniamo molto, ai ragazzi viene naturale. Abbiamo giocatori molto intelligenti”. Tra loro, spicca Klay Thompson, che quest’anno non marca sempre e comunque l’esterno più pericoloso ma che resta il miglior difensore sulle guardie della squadra, e forse di tutta la NBA.
Thompson è un giocatore unico perché appartiene all’elité NBA sia in attacco che in difesa. Rispetto ad altri two-way-player come Jimmy Butler o Paul George, Klay è un attaccante molto più naturale e continuo; rispetto ad altri grandi tiratori, Klay è capace di costruirsi i tiri dal palleggio, e di lavorare per i compagni, o di difendere forte.
Golden State è il regno di Stephen Curry (se vi servono argomenti per convincervi che vale l’MVP, vi basti sapere che, con lui in campo, i Warriors viaggiano a 112 punti per 100 possessi; senza, non arrivano a 94 punti per 100 possessi), ma Thompson gioca un ruolo cruciale nel togliere prevedibilità all’attacco, oltre a costituire, con Green e Bogut, la spina dorsale della difesa.
E pensare che, quest’estate, molti avevano criticato Bob Myers per non aver scambiato Klay Thompson e David Lee con Kevin Love, in rotta con i Timberwolves. Complimenti al GM di Golden State per non aver scelto l’alternativa glamour, ed essersi fidato della sua prima scelta del draft 2011, arrivato in NBA come un discreto realizzatore che, nelle parole di Larry Riley (allora GM, oggi responsabile dello scouting), avrebbe beneficiato degli insegnamenti difensivi di Mark Jackson.
Da allora, Klay Alexander Thompson ha fatto tantissima strada, ma ancora l’estate scorsa, si dubitava che valesse la pena trattenerlo, se in cambio si poteva ottenere un All Star come Love. A distanza di nemmeno sei mesi, Love ha esposto in modo impietoso i propri difetti e guarderà l’All Star in televisione, mentre Klay farà la sua prima apparizione nella partita delle stelle.
La famiglia Thompson è originaria delle Bahamas, ma Klay è nato a Los Angeles, durante il quinquennio che suo padre Mychal trascorse con i Lakers dello Showtime, prima di chiudere la carriera con un breve passaggio a Caserta, e diventare radiocronista per i gialloviola.
Klay e i suoi fratelli (il maggiore, Mychel gioca in D-League, e ha avuto poco successo tra i Pro, mentre il minore, Trayce, è con il farm-team dei Chicago White Sox) sono cresciuti in un ambiente privilegiato, senza aver mai dovuto interpretare lo sport come un mezzo di riscatto sociale, ma solo come una sana passione.
È un tratto che caratterizza molti, all’interno dell’organizzazione dei Warriors: Curry stesso è, come noto, figlio di Dell Curry (egregio tiratore, Sesto Uomo dell’Anno nel 1994, ritiratosi nel 2002) mentre l’assistente Luke Walton è figlio del grande Bill, leggenda dei Portland Trail Blazers e membro dei Celtics degli anni ottanta, che battagliava con Bob McAdoo, il cui nipote (in realtà, sono parenti alla lontana), James Michael fa la spola tra D-League e G-State.
Mychal è stato un mentore molto critico nei confronti del figlio, e non perde occasione di dirgliene quattro anche dinnanzi ai microfoni della radio. “Dice quello che sente” abbozza Klay “e non c’è modo di cambiarlo”.
Padre e figlio sono legatissimi, e, come dice la guardia dei Warriors, “Mio padre è il mio più grande tifoso. Mi ha sempre detto, già quando avevo 17 anni, che, lavorando duro e restando umile, sarei arrivato in NBA”.
Quando gioca contro i Lakers (e quindi contro suo papà) Klay si esibisce sempre in grandi prestazioni, non ultimi i 41 punti con i quali ha festeggiato il rinnovo di contratto (un quadriennale che, dalla prossima stagione, lo pagherà oltre 17 milioni l’anno), poi polverizzati dai 52 segnati contro Sacramento, in una delle prestazioni balistiche più incredibili di tutti i tempi, con tanto di terzo quarto da 37 punti che è nella leggenda.
Eppure Mychal riesce sempre a essere critico (“hai fatto 38 punti? Un solo assist, però”), ma forse quest’atteggiamento perfezionista ha giocato un ruolo nel forgiare un giocatore aperto alle critiche, che lima i suoi difetti con la velocità di un Jerry West.
Complice una componente atletica relativa, Thompson non era stato reclutato dai grandi college, finendo a Washington State, una buona università che, in tutto, ha dato solo 16 giocatori all’NBA. Con tre anni di buoni risultati, arrivò la chiamata al piano di sopra, senza eccessivi entusiasmi.
Klay fu la selezione numero 11, dopo Kyrie Irving, ma anche dopo gente come Derrick Williams, Enes Kanter, Jan Vesely e Jimmer Fredette, segno che si pensava fosse un discreto cestista, sì, ma non esattamente un fenomeno.
Thompson non fu nemmeno chiamato al Rookie Challange, ma dopo l’esclusione, alzò il volume della radio, e nel giro di un mese Golden State ruppe gli indugi e spedì Monta Ellis in Wisconsin in cambio di Andrew Bogut, per dargli più spazio. A fine stagione, Klay era nel primo quintetto di matricole.
Thompson è sempre stato un buon tiratore, dotato di gambe potenti, ideali per avere stabilità quando si tira (qualunque tiratore sa che la posizione delle gambe e la loro spinta conta almeno quanto la corretta meccanica delle braccia), ma nel corso degli anni si è affinato, e ha continuato a lavorare anche sul resto del suo gioco senza specializzarsi.
Stagione dopo stagione, il package offensivo di Thompson si è affinato, combinando gioco senza palla e tiri costruiti dal palleggio o dal post basso, al punto da meritarsi la chiamata con Team USA al Mondiale spagnolo del 2014, con tanto di medaglia d’oro vinta da secondo miglior realizzatore di squadra.
Klay continua a tirare molto da tre punti (236 tiri da tre punti frontali, oltre a 71 dagli angoli), da dove converte con il 44.8% (terzo nella lega), ma ha imparato a portare la palla verso il canestro, con 247 conclusioni in verniciato contro 187 dal mid-range, e il suo usage rate lo equipara sostanzialmente a Curry (che “usa” il 27.7% dei possessi dei Warriors, contro il 27.4% di Thompson).
Il figlio di Mychal porta di più palla rispetto agli anni scorsi, ed è aggressivo; segna 6.4 punti di media in area, contro i 4.3 dell’anno scorso, ed è passato da 2.3 liberi ai 3.8 odierni, cifre lontanissime da quelle di James Harden, ma che vanno lette nel contesto di una squadra che penetra per costruire conclusioni facili o buoni tiri sul perimetro, e non per lucrare tiri dalla lunetta.
Mese dopo mese, Thompson aumenta il suo fatturato offensivo: a novembre segnava 21.1 punti, fino ai 26.7 di gennaio. In difesa, Klay concede il 37.7% ai suoi avversari, contro la loro normale media del 43.3%, segno che la crescita offensiva non ha tolto nulla all’impegno nell’altra metà campo, e se i numeri a rimbalzo rimangono modesti per un giocatore che supera i due metri, va ribadito che, spesso, chi prende in consegna un attaccante pericoloso non ha poi molto margine per andare a rimbalzo dopo aver contestato il tiro.
Ora è arrivata anche la chiamata all’All Star Game, che vedrà gli Splash Brothers protagonisti anche della Gara di Tiro, mentre Steve Kerr, seduto in panchina, completerà la delegazione della Bay Area. Inutile nascondere, però, che la Dub Nation spera che questi onori siano solo un antipasto e che il meglio arriverà quando il gioco si farà duro.
Durante i Playoffs, l’inedita duttilità offensiva di Klay Thompson e la sua difesa lock-down, giocheranno un ruolo centrale nelle sorti dei Warriors e della caccia a quel Larry O’Brien Trophy che manca dal 1975, e che, dopo tantissimi bocconi amari, Golden State sogna di riconquistare.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.