Per una franchigia NBA la vita è fatta di periodi, vincenti e perdenti, che si susseguono ciclicamente. La storia del basket lo insegna. Poi ci sono squadre che hanno una storia da raccontare e altre, che la storia l’hanno fatta.

È il caso dei Boston Celtics, che con 17 titoli all’attivo, in testa all’albo d’oro della lega, rappresentano questo sport a livello internazionale. Annoverando tra le proprie fila giocatori del calibro di Bill Russell e Larry Bird, tanto per citare i soliti noti, hanno cambiato il pensiero e se vogliamo anche le regole del basket, contribuendo all’emancipazione e affermazione della lega su scala nazionale prima, oltre oceano poi.

Ora però le cose sono cambiate e a Boston si attraversa un periodo di transizione. Dopo il titolo del 2008, l’ultimo vinto dai Celts in ordine di tempo, è iniziata una lenta discesa, che ha portato a smantellare la squadra e, di conseguenza, quelli che sono stati i Big 4 in casacca verde.

Tanti i giocatori passati sul parquet del Garden non all’altezza di questa società, figli di una programmazione non degna di questa franchigia, che hanno portato alla decisione di rifondare del tutto la rosa. Gli ultimi anni a Boston si fanno infatti ricordare più per gli addii che per i risultati e i nuovi arrivati.

Primo fra tutti, nel 2011, Ray Allen, abbandona i Green e si trasferisce in quel di Miami. Scelta azzeccata visto il dominio degli Heat negli ultimi anni. L’anno seguente, dopo la sconfitta ai Playoffs proprio per mano degli stessi Heat, il GM Danny Ainge decide di rinunciare ad altri due baluardi, e così Pierce e Garnett, seguono il richiamo dei dollari russi fino a Brooklyn.

Se prima erano in quattro a ballare in quel di Boston, Rajon Rondo alla fine, resta a ballare da solo. Proprio lui viene preso come cardine su cui ripartire, ma, vuoi un po’ gli infortuni, un po’ la sfortuna, non si dimostra l’uomo franchigia capace di trascinare i Celtics.

Arriviamo così alla recente attualità, che ha visto la cessione dell’ultimo ingranaggio, quello con la maglia numero 9, ai Dallas Mavericks, in cambio di Nelson, Wright, Crowder, una prima scelta al draft 2015, una seconda scelta al draft 2016 e una trade exception da 13M di dollari.

Chi ha fatto l’affare? Sarà il tempo a dirlo. Di sicuro i texani diventano una contender importante nella Western Conference. D’altro canto però, si sa che le rifondazioni passano dal draft, e il pacchetto di scelte a disposizione di Boston per il quadriennio 2014-2018 si prospetta interessante.

Certo con questi presupposti il progetto dei Celtics è da intendere a medio-lungo termine. Difficile parlare di playoff, più plausibile un tank funzionale alle mire del club, con la squadra fuori dalle prime otto, anche se in una Eastern Conference poco competitiva come quella attuale, tutto è possibile e gli obiettivi possono variare a stagione in corso.

In questo contesto una nota conclusiva merita coach Brad Stevens. Uno dei più promettenti allenatori del panorama americano, a soli trentotto anni si è ritrovato su una delle panchine più pesanti della NBA, in piena fase di rifacimento, al posto di uno dei migliori allenatori della lega, che ha fatto la storia del club.

Con queste aspettative, in un contesto in cui i risultati scendono a compromessi con la necessità di costruire un futuro importante, è difficile pensare di partire col botto, e il record negativo al primo anno, con sole 25 vittorie, va preso con le dovute cautele.

Principalmente Stevens avrà il difficile compito di gettare le basi tecnico tattiche su cui fondare il futuro bianco verde, individuando gli uomini giusti su cui puntare, in un roster comunque giovane e di talento, con prospetti come Sullinger, Olynyk e Smart.

La palla passa quindi in mano allo staff tecnico per quanto concerne le questioni di campo, e al general manager per il fondamentale lavoro tra draft e free agency. Ai posteri l’ardua sentenza, a noi la speranza di rivedere questi colori riportare in alto il ‘Celtics Pride’.

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