Per giudicare una classe di rookie, è sempre bene aspettare come minimo tre anni (che coincidono, guarda caso, con la durata dei contratti garantiti), perché solo a qualche stagione di distanza, infatti, è possibile scorgere con nitore quali scelte sono state azzeccate e quali no.
Questo ragionamento, che è sempre stato valido, oggi è di strettissima attualità, a causa dell’alto numero di one-and-done che vengono draftati, soprattutto nelle parti alte del primo giro.
Alcuni collegiali hanno un impatto difficile con la NBA; può dipendere dalla velocità del gioco, dalla disabitudine a viaggiare (e giocare) così tanto, dal rookie wall di marzo (dopo le Final Four la NCAA si ferma, viceversa la NBA sale di livello) o da mille altre discorsi che variano da giocatore a giocatore.
Ecco perché è prematuro bollare la classe 2014 come sopravvalutata; se ne era parlato come del miglior draft dal 2004, ma, come sempre, quando le attese sono eccessive, si tende poi a esagerare anche con le critiche.
Fino a questo momento i giovanotti non stanno racimolando numeri memorabili (il miglior realizzatore è Wiggins a quota 14, il miglior rimbalzista è Noel, con 7. Nella categoria assistenze, solo Payton supera quota 5 e il secondo è LaVine a 3.6), ma la situazione va analizzata con attenzione, andando oltre le statistiche:
L’elemento dal quale partiremo nella nostra disamina è la giovane età media; quando le prime cinque scelte sono freshmen (in tutto, sette dei primi dieci sono stati scelti dopo un anno di college, e la prima selezione con più di due anni di permanenza universitaria è Elfrid Payton, rimasto tre anni a Louisiana-Lafayette) è lecito attendersi alcune difficoltà.
In primis, un solo anno di college raramente prepara fisicamente ai rigori dell’NBA: gli infortuni hanno tolto di mezzo molti eccellenti prospetti e hanno colpito cinque delle prime sette chiamate: Joel Embiid esordirà l’anno prossimo, mentre la Regular Season di Julius Randle (che era anche uno dei più NBA-ready) è durata 14 minuti.
Discorso simile per Aaron Gordon e Jabari Paker, che era il più solido candidato al ROY (Rookie of the Year), prima di rompersi il crociato anteriore del ginocchio sinistro e dire addio al resto della stagione; Doug McDermott è stato operato il 13 dicembre, e Marcus Smart si è già fermato due volte.
In secondo luogo, draftare dei teenager significa portare in squadra elementi di relativa sapienza tattica, spesso lontani dalla maturazione cestistica, che vanno rifiniti tecnicamente. La logica conseguenza è che, salvo casi rari, vedranno poco il campo rispetto ai veterani.
In questa situazione, prosperano i giocatori di scuola europea, che arrivano in NBA più maturi fisicamente e con un bagaglio d’esperienza forgiato in Eurolega, o comunque contro cestisti più anziani.
Il centro bosniaco Jusuf Nurkic ha convinto i Nuggets con il suo ghigno malandrino e il suo ruvido gioco di post, tanto che Denver ha spedito Mozgov a Cleveland, consegnando a Nurkic le chiavi del quintetto.
Dopo un inizio stentato, anche Nikola Mirotic è salito di colpi; l’ala ex-Real Madrid ha guadagnato spazio nelle rotazioni dei Bulls. Scelto nel 2011, Mirotic ha atteso d’esser pronto prima di sbarcare in NBA, e la sua pazienza sta pagando in termini d’impatto immediato in una squadra competitiva, alle dipendenze di un allenatore esigente come Thibodeau.
Nerlens Noel, non è certo europeo, ma è stato scelto nel 2013, ha passato il suo primo anno da infortunato a guardare i 76ers da bordocampo, ed è un rookie a tutti gli effetti; pur dimostrando limiti preoccupanti (è in grado di palleggiare?) è un prospetto interessante per centimetri e atletismo, oltre ad essere il miglior rimbalzista tra le matricole (con appena 7.1 rimbalzi di media).
Tra i rookie effettivamente scelti a giugno 2014, K.J. McDaniels, ala da Clemson, scelto alla 32 dai Sixiers, sta mettendosi in mostra, forte di un contratto annuale (uguale a quello che firmò Carl Landry) che, già quest’estate gli consentirà di essere free agent e di monetizzare.
Il più reclamizzato, Andrew Wiggins, ha iniziato alla grande il 2015 (47.8% dal campo per 21 punti e 4 rimbalzi), e sta trovando continuità. Wiggins è uno starter dei derelitti T-Wolves, ma segna solo 14 punti di media con il 42% dal campo, retaggio di un inizio assai altalenante. Sono numeri in linea con quanto era dato attendersi dopo il suo anno a Kansas, ma non con le spropositate attese dei media.
Per un Marcus Smart che sta giocando bene a Boston e ha convinto Danny Ainge a cedere Rajon Rondo, c’è un Elfrid Payton che completa, con Victor Oladipo, l’intrigante backcourt degli Orlando Magic. Payton è un giocatore elettrico, un difensore naturale e un buon passatore; lui e Smart possono diventare stelle, o almeno giocatori d’eccellente livello.
Sempre nel reparto guardie, merita una menzione Dante Exum, capitato nell’affollatissimo reparto esterni dei Jazz (Burke, Burks e Gordon Haywood, che continua a sembrarci sottovalutato), dove si è ricavato 18 minuti di media per difendere forte e mostrare lampi di quel che, chissà, potrà diventare. Shabazz Napier fa la spola tra gli Heat e la D-League, dove Noah Vonleh, dei Charlotte Hornets, ha messo radici.
Non dimentichiamo poi che la franchigia nella quale si approda fa tutta la differenza del mondo: come contribuirebbero Zach LaVine o James Young, in formazioni più strutturate? Viceversa, Andreian Payne, degli Hawks, o T.J. Warren, dei Suns, forse avrebbero più spazio in squadre meno ambiziose, ma possiamo solo presumerlo.
Giudicare i rookie solo dalle cifre è un’operazione sbagliata, in particolar modo quando ci si occupa, come detto, di giocatori molto giovani, che non sono pronti per avere impatto, e che quindi giocheranno poco (in squadre di buon livello), oppure molto (in squadre scarse).
Tutti gli anni, sedicenti esperti stilano mock-draft e profili, sempre lesti a garantire l’affidabilità del “sistemone”, e a dimenticare gli errori passati; in realtà, prendere un ragazzo che gioca al college (facciamo pure in Division I) o in Europa (anche se disputa l’Eurolega) e capire non solo che impatto avrà nell’immediato, ma addirittura come si svilupperà negli anni a venire, è un’impresa improba.
Molti dei rookie di quest’anno hanno combinato poco nel torneo NCAA del 2014 e attendersi un impatto immediato era irrealistico. Sviluppare dei giocatori richiede tempo e pazienza, merce che diviene vieppiù rara.
Tutto nasce da un equivoco attorno alla parola “potenziale”, che indica un upside, ma non implica che quel margine di crescita sarà necessariamente colmato. Ciò che ha contorni indefiniti desta naturale fascinazione, ed è quindi comprensibile che Wiggins possa piacere più di Parker, ma non sta scritto da nessuna parte che il canadese diverrà un cestista migliore del mormone di Chicago.
Oggi è facile deridere Joe Dumars per aver preferito Milicic a Wade, Anthony o Bosh, ma all’epoca tutti pensavano che Darko fosse un fenomeno; ci vollero almeno tre anni per dipanare i dubbi circa la reale (in)consistenza dell’ala serba. Similmente, ogni anno alcuni giocatori passano sotto i radar, ed è importante non valutare le scelte di ieri alla luce delle informazioni di cui disponiamo oggi.
Scottati dall’esperienza con l’immortale Darko, i Pistons sottopongono i rookie a test psicologici, perché sanno che essere bravi tecnicamente è solo metà del cielo, ma resta sempre la tentazione di chiamare un atleta superiore, e di autoconvincersi che si potrà educare col tempo, operazione che riesce una volta su dieci (forse).
Ecco perché Sam Hinkie sbianca solo a sentir accostare il nome di Michael Olowokandi a quello di Joel Embiid, ed ecco perché capita di sottovalutare un Giannis Antetokounmpo e di sopravvalutare (inopinatamente, per la verità) Anthony Bennett.
L’inesperienza di molti rookie e gli infortuni che hanno colpito tanti giocatori scelti in lottery sono le concause delle performance deludenti della classe ’14, entrambe legate alla verde età di molti di questi giocatori; diamo tempo al tempo, lasciamo che il potenziale si concreti, e scopriremo quanto valgono effettivamente Wiggins e i suoi coscritti.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.