Stan Van Gundy è stato assunto anche per scuotere un club da troppo tempo placidamente ripiegato sulla propria mediocrità, ma il taglio di Josh Smith (sotto contratto fino al 2017 per 42 milioni complessivi) ha sorpreso tutti.
Ci sono stati, nella storia della NBA, altri tagli clamorosi e giocatori caduti in disgrazia, ma Smith ha solo 29 anni, e non è stato allontanato per problemi di droga o affini, ma, a quanto ci è dato sapere, per motivi prettamente tecnici.
Durante l’estate, i Kings si era informati circa la disponibilità di Josh, arrivando ad offrire Jason Thompson e Landry, o Thompson e Derrick Williams, a scelta. Van Gundy ha preferito confermare il nucleo di giocatori ereditati dalla grestione di Joe Dumars, convinto che valesse la pena di tentare di far funzionare la front-line composta da Drummond, Monroe e, appunto, Smith.
Van Gundy aveva convinto la proprietà ad assumerlo presentandosi preparatissimo al colloquio; lo volevano anche i Warriors, ma Detroit giocò d’anticipo, garantendogli 35 milioni in 5 anni e un ruolo da plenipotenziario all’interno del club.
Il 30 dicembre The Panic Master (definizione del perfido Shaq) ha detto che quello con i Pistons sarà il suo ultimo lavoro NBA (ma non ha escluso di prolungare il contratto oltre il quinquennio); riportare Detroit ai vertici della Eastern Conference, costruendo una mentalità vincente e un’identità di squadra non sarà imprese facile, ma l’idea è di sviluppare Andre Drummond sulla falsariga di Dwight Howard, replicando i successi e i meccanismi degli anni belli di Orlando.
Stan si è caricato del peso ulteriore di Presidente delle Operazioni Basketball, che se, da un lato gli consente di decidere in autonomia cosa fare dei propri giocatori, dall’altro gli chiede di essere particolarmente equilibrato nelle valutazioni, e paziente nelle scelte.
Con un ruolo simile, in quel di Charlotte, il venerabile Larry Brown finì a infarcire il roster di veterani nel tentativo di vincere subito, contribuendo al disastro dei Bobcats; sono pochi gli allenatori di successo ad aver gestito l’intero club, uno su tutti, Pat Riley a Miami (che vinse il suo unico titolo da allenatore/presidente proprio dopo aver licenziato Stan Van Gundy).
I Pistons vengono da 5 anni di lotteria durante i quali hanno ammassato tanto talento, ma non hanno costruito una squadra funzionale; la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la firma di Josh Smith, che nelle intenzioni doveva formare, con Greg Monroe e il giovanissimo Drummond, un terzetto delle meraviglie, ma in pratica, ha chiuso il primo anno di convivenza con un passivo di 6.5 punti concessi agli avversari su 48 minuti.
Nell’NBA moderna, dove si cerca di schierare almeno 4 tiratori, giocare con una front-line solamente interna era un esperimento votato al disastro. Inoltre, Monroe è difensivamente modesto, Smith è più efficace quando può marcare i 4 e non i 3, mentre Andre Drummond è un cantiere aperto e spesso pesta i piedi di Monroe, che nell’immediato costituirebbe una opzione di post basso più credibile del nativo di Mount Vernon.
In questo disastro, Van Gundy ha introdotto delle regole, le stesse che erano valse una Finale ai suoi Magic, nel 2009; tacciato d’essere un luddista in stile Doug Collins, Stan è in realtà aperto alle Analytics, ma sa bene di aver incorporato nei suoi Magic molte tendenze che avrebbero fatto scuola, prima che la sabermetrica spopolasse.
Le sue squadre si curano poco dei rimbalzi offensivi, e non forzano palle perse, preferendo uno stile difensivo meno aggressivo e più conservativo. Questo modo di giocare è stato magnificato con Rashard Lewis e Turkoglu da 4 tattici, mentre ai tempi degli Heat il buon Stan aveva dato prova di flessibilità, optando per uno stile inside-out che si sposava meglio alle caratteristiche di Shaquille O’Neal.
È chiaro però che, per quanto bravo, nessun allenatore può trasformare un gruppo altamente disfunzionale in un team di successo, dalla sera alla mattina.
Stan ha deciso di confermare il quintetto ereditato da Dumars, estendendo il contratto di Greg Monroe e resistendo alla tentazione di scambiare Josh Smith, ma, dopo due mesi di Regular Season che hanno confermato gli scarsi risultati della passata stagione, si è arreso all’evidenza che quei tre non possono giocare assieme.
Detroit ha il 42.2% dal campo (penultimo dato NBA), frutto di un’area intasata da tre giocatori interni, e da due soli esterni, che per giunta, non sono tiratori infallibili (34.7% da tre di squadra).
I tre lunghi hanno consentito a Detroit di imporsi come squadra di rimbalzisti (quinti migliori della lega, e catturano il 27% dei rimbalzi offensivi disponibili, che sono molti e si spiegano con la presenza di tanti big men), certo, ma tre lunghi tutti interni e una one-guard che palleggia e tira (anziché distribuire la palla) sono gli ingredienti perfetti per una squadra disfunzionale.
Inoltre i Pistons perdono pochi palloni, ma fanno anche pochi assist, perché la circolazione di palla è virtualmente inesistente, e ci si limita a due alternative: isolamento per Jennings, e isolamento per, alternativamente, Monroe o Drummond.
Sono tutti difetti che gli ex Bad Boys si portano dietro dallo scorso anno, e sarebbe stato ingenuo immaginare che bastasse Van Gundy per trasformare per magia Josh Smith in un giocatore 3-D.
Il quintetto più usato dal fratello rubicondo di Jeff è composto da Caldwell-Pope, Smith, Singler, Jennings e Drummond, ma segnava 96.4 punti su 100 possessi. Il Secondo quintetto più usato, con Monroe al posto di Singler, segnava 98 punti per 100 possessi.
Oltre a non essere offensivamente efficaci, sono quintetti difensivamente modesti, che concedono rispettivamente 107 e 105 punti su 100 possessi.
Dopo il taglio di Smith, i Pistons hanno utilizzato un quintetto con Singler, Jennings, Caldwell-Pope, Drummond e Monroe che ha vinto quattro partite su quattro e che 101.8 punti per 100 possessi e ne concede appena 90.2; qualcuno a chiesto a Van Gundy se può durare: “Dubito che finiremo imbattuti. Ma possiamo continuare a giocare del buon basket”.
Questo quintetto ha prospettiva (23.4 anni di media) e ampi margini di maturazione (appena 2.8 anni di esperienza NBA in media), ed era abbastanza logico che Detroit abbandonasse lo schieramento a tre lunghi in favore di un quintetto che spaziasse meglio il campo.
Aver aspettato fino a dicembre ha un costo: durante l’estate, sarebbe stato possibile scambiare Smith (o Monroe con un sign and trade), mentre nella prossima free agency, tagliato Smith (il cui contratto rimane però a libro paga), i Pistons sanno di rischiare di perdere anche Greg Monroe in cambio di nulla.
Di là dai problemi di front-line, anche il reparto guardie dei Pistons desta perplessità: ci sono giocatori interessanti, come Kentavious Caldwell-Pope, un tiratore esperto come Jodie Meeks, Singler e Jerebko, due che troveranno sicuramente spazio e soddisfazioni, rispettivamente da 3 e da 4, ma anche e soprattutto Brandon Jennings, l’ex di Roma e Milwaukee che imperversa palla in mano al Palace of Auburn Hills.
Van Gundy ha avuto successo con un altro deviante come Rafer Alston (e Jameer Nelson), ma il contesto tecnico degli Orlando Magic era diversissimo: c’erano sempre in campo tre tiratori, mentre questi Pistons hanno due lunghi di post basso che, inevitabilmente, chiudono gli spazi, e andrebbero serviti con più continuità.
Si sono poi completamente perse le tracce di Gigi Datome, arrivato in NBA da MVP della Serie A, fermo quest’anno a 12 minuti di impiego complessivo. Per lui, ci sono poche alternative, oltre alla speranza di una trade (che potrebbe non essere poi così peregrina) che cambi gli scenari dei Pistons o che lo porti altrove.
In una situazione simile, è superfluo ripetere che non esistono maghi capaci di rivoltare la frittata con la bacchetta magica, e bene ha fatto Van Gundy a sperimentare con Smith, Monroe (provato brevemente anche in uscita dalla panchina) e Drummond, se questo stallo è stato frutto di un’idea e non d’indecisione.
Jennings è un giocatore che palleggia molto e tira ancora di più, Drummond è, come detto, un work-in-progress, mentre Monroe ha eccellenti pregi e altrettanto egregi difetti. Col senno di poi, firmare Smith non è stata una grande idea: con il verniciato occupato dai due lunghi, Smith, che è al meglio vicino al ferro, ha iniziato a tirare da fuori, facendo sfoggio della sua discutibile selezione di tiro.
Poteva finire in modo diverso? Sì, perché Josh Smith non è scarso, o deleterio. È esperto, non ha ancora trent’anni, e, nella situazione giusta (da quattro tattico, può portare blocchi pin-down d’efficacia pari ad un Draymond Green, prendere rimbalzi e stoppare) può essere un fattore come ai tempi di Atlanta, ma se i Pistons hanno deciso di tagliarlo, è doveroso presumere che, semplicemente, non avesse alcun mercato (a meno di caricarsi di contratti e giocatori indesiderati).
Smith è difficile da collocare nell’NBA odierna a causa delle sue cattive percentuali al tiro; i Rockets, pasdaran della sabermetrica, avranno un bel da fare per assimilare Josh nel loro sistema di gioco, posto che le statistiche in carriera di Smith parlano di 16.7 punti, 8.4 rimbalzi, 3.5 assist, quasi tre stoppate e un recupero, quindi non stiamo parlando di uno scarso, ma solo di un giocatore da adoperare con cognizione dei suoi pregi e dei suoi difetti.
Resta l’impressione che si potesse essere meno drastici, anche solo togliendo Smith dalla rotazione, in attesa di tempi migliori, per poi tagliarlo, nella peggiore delle ipotesi, una volta chiusasi la finestra per le trade.
Van Gundy ha creduto diversamente, e c’è da sperare che non sia stato consigliato dalla fretta di chi siede in panchina ed è costretto a sorbirsi un’asfaltata dopo l’altra, ma che sia stato assistito dalla fredda lungimiranza di chi non perde di vista il quadro complessivo.
Con ogni evidenza, il progetto di Stan Van Gundy si fonda su Andre Drummond; di lui, Stan ha subito detto: “Non c’è nulla in Andre che non mi piaccia. Mi ha fatto un’ottima impressione, la prima volta che l’ho sentito: mi chiedeva cosa fare, ed è l’atteggiamento tipico di chi desidera diventare grande”.
Per lui, si alternano pick-and-roll e situazioni di post up, che sono aumentate a dismisura rispetto all’anno scorso (il 40% dei suoi tocchi è in post basso), ma restano poco fruttuose, perché Andre ha pochi movimenti, non attira raddoppi o falli, passa maluccio la palla (secondo Basketball Reference, tra i giocatori con almeno 4000 minuti nelle prime tre stagioni NBA, l’assist-rate di Drummond è il sesto peggiore della storia), con il risultato di produrre isolamenti sterili che non muovono la difesa.
Drummond ha fondamentali complessivamente migliori di Dwight Howard alla stessa età (anche se gioca esclusivamente di mano destra), ma proprio l’evoluzione di Superman consiglierebbe di affiancargli sin da subito un allenatore dedicato, come fu Kareem Abdul-Jabbar per Andrew Bynum.
Il rischio è di costruire un giocatore forte ma limitabile, proprio come il centrone nativo della Georgia, che arriva dove lo porta il suo debordante fisico, ma che non sa prendere posizione come ci si aspetterebbe da un All-Star, e che è troppo meccanico e limitabile in molti suoi movimenti.
Andre ha lo stesso problema, comune per quei freek che si possono permettere di marcare un giocatore a distanza, rifilandogli ugualmente una stoppata, o che possono rimediare a una cattiva posizione a rimbalzo grazie alla dinamite che madre natura gli ha messo nelle gambe.
Un altro possibile problema dietro l’angolo, spesso sottovalutato da chi fa tanking, è che Drummond e gli altri giovani si stanno abituando a perdere, situazione nella quale è facile prendere cattive abitudini che poi segneranno una carriera.
Il nuovo impiego e le nuove responsabilità alle quali è chiamato hanno fatto sì che le percentuali dal campo di Andre andassero in picchiata: tira con il 54% dal ferro, con il 28% da due metri, e non ha ancora messo un tiro da più distante. L’anno scorso, finiva al ferro con il 65.3%, ma, come si dice in questi casi, it’s a process, e Drummond sta tentando di fare cose nuove, compromettendosi nell’immediato, ma, questo è l’auspicio, costruendo un gioco, sperimentando i propri limiti.
Incrementare i post-up di Drummond ha logicamente contribuito a ridurre i possessi di Monroe e soprattutto ha marginalizzato Smith, condannandolo a fare quel che non è capace, cioè tirare (3.4 conclusioni da tre per gara, con il 26%).
Smith è storicamente un tiratore improvvido, e intasare il verniciato non ha fatto altro che esacerbare i suoi difetti.
Durante la stagione 2013-14, 35 giocatori hanno tirato almeno 400 mid-range, e tra loro, l’unico ad avere percentuali sotto al 35% (32%, per l’esattezza) è stato Josh Smith. 73 giocatori hanno tentato almeno 250 tiri pesanti, e anche qui, Smith è fanalino di coda, con il 27%.
Aggiungete che Smith è passato dal 63% al ferro dei tempi degli Hawks al 44% dello scorso anno, e il quadro sarà completo. Josh non è improvvisamente diventato un giocatore tossico; più semplicemente, era difficile immaginare un “fit” peggiore dei Pistons per uno con le sue caratteristiche.
Dal giorno del suo taglio, il 22 dicembre, i Pistons hanno reagito con quattro larghe vittorie ai danni di Pacers, Magic, Knicks e Cavs (contro di loro, hanno chiuso con 17 triple segnate –record di franchigia– su 31 tentativi); Detroit sta tirando molto meglio, sia da fuori che vicino a canestro, e sta anche difendendo con più efficacia.
Si tratta di vedere se i Pistons saranno in grado di svoltare definitivamente o se si tratta, come ci sembra più plausibile, di un fuoco di paglia alimentato dal clamoroso taglio di Josh Smith.
È importante non perdere di vista il quadro complessivo, per cui Jennings va valutato con la consapevolezza che il prossimo a fare le valigie potrebbe essere lui, e che c’è grande incertezza circa la permanenza di Greg Monroe in Michigan.
La situazione dei Pistons (9-23 al momento di scrivere) non è esaltante, ma va valutata in un piano quinquennale, che parte dallo sfacelo lasciato da Joe Dumars. Solo il tempo ci dirà se il taglio di Smith sarà stato il primo passo nella giusta direzione, o l’ennesimo errore di una franchigia smarrita.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.
Win-win
Quando ho letto del taglio di J. Smith ho pensato anch’io fosse stata una mossa eccessiva, irrispettosa nei confronti di quello che resta comunque un giocatore oltre la media (anche senza considerare il potenziale, probabilmente destinato oramai a rimanere insespresso). In seguito, e considerata l’unica alternariva possibile (escluderlo dalla rotazione), mi son reso conto che è decisamente stata la mossa migliore per entrambe le parti: per i Pistons parla la serie di cinque W consecutive, e per Smith l’approdo in una squadra competitiva dove avrà la possibilità di smuovere gli equilibri (se ne sarà capace).
Ciò detto penso che ‘sta squadra con un playmaker VERO potrebbe dire la sua ad Est (Jennings mi piace un sacco ma decisamente non è un play…mentre che sulla crescita di Drummond non ho alcun dubbio, a maggior ragione se, come scrivi tu, verrà “indirizzato” correttamente)
Con questa pensata Detroit andrà ai playoff. Datome in campo sigillerebbe l’affare, ma evidentemente Van Cicciandy non può avere due ottime idee nello stesso campionato.