Ad Oakland, sulla Baia di San Francisco, il basket si respira nell’aria.
Non tanto in NBA, quanto nelle strade della città che, statistiche alla mano, produce più giocatori NBA per abitante: dai campetti di Oakland sono usciti Brian Shaw, Jason Kidd, Gary Payton, Damian Lillard, Antonio Davis e J.R. Rider.
Quando i Warriors si sono prodotti in uno dei loro effimeri lampi di gloria, il pubblico locale ha sempre risposto presente, trasferendo la passione dei campetti alla Oracle Arena, tinta di giallo e rumorosa come pochi altri palazzetti.
Tanto entusiasmo però, è sempre stato frustrato sul più bello; a inizio anni novanta, con Chris Mullins, Chris Gatling, Latrell Sprewell e Tim Hardaway (oltre a Marciulionis) Golden State sembrava avere un discreto futuro davanti a sé, ma Don Nelson voleva che Chris Webber giocasse in post basso, mentre C-Webb voleva attaccare il canestro, e così le strade si separarono, sancendo la fortuna dei Kings, e un decennio abbondante di oscurità per la squadra della Baia.
Erano gli anni in cui Sprewell urlò a Gregg Popovich di “pull the trigger”, ossia “premere il grilletto” dello scambio (una trade a tre che per poco non andò in porto) che l’avrebbe condotto a giocare all’Alamo. Qualche giorno più tardi, Sprewell, che ad Oakland non ci voleva proprio stare, mise (e strinse) le mani al collo di P.J. Carlesimo, guadagnandosi la sospensione per il resto della stagione e la fine dei suoi rapporti con Golden State, ma questa è un’altra storia.
Dopo tanti anni di sostanziale buio, Larry Riley e l’attuale GM Bob Myers, hanno ricostruito una franchigia che oggi viaggia con il vento in poppa.
Nella scorsa stagione i Warriors, forti dei progressi compiuti grazie all’ottimo lavoro di Mark Jackson e di Mike Malone (che sta lavorando benissimo anche a Sacramento), credevano di essere pronti per competere con le corazzate della Western Conference.
Una stagione buona (51-31) ma non eccellente, unita all’eliminazione al primo turno per mano dei Clippers, ha convinto Myers a licenziare Jackson, e a rivolgersi a un altro allenatore senza nessuna esperienza in panchina, Steve Kerr.
Un anno fa scrivemmo che i Warriors sarebbero stati competitivi per il titolo nel 2015, e le prime dieci gare della stagione stanno confermando il pronostico, come hanno sottolineato anche gli Splash Brothers.
Dice Curry: “Ovviamente abbiamo tanta strada da fare, ma vogliamo trasformare le parole in fatti, e sentiamo d’esserne capaci”.
Durante l’estate, Kerr annunciò che Golden State avrebbe usato una variante dell’Attacco Triangolo, ma aggiunse di non aspettarsi che giocassero come i Bulls di Jordan e Pippen.
In effetti, complice la presenza in panchina di Alvin Gentry, questi Warriors applicano più che altro un sistema ispirato alla Princeton Offense e alla Flex degli Utah Jazz: usano Bogut in post alto come facilitatore, pronto a pescare i tagli verticali dei suoi compagni, oppure il pick and roll a ridosso della linea da tre punti.
A proposito dell’attacco, Bogut si è dimostrato entusiasta delle novità: “Mi sento molto libero e c’è ritmo, i ragazzi hanno a disposizione tanti buoni tiri. In passato mi è capitato di usare il Triangolo o la Princeton, quindi mi trovo a mio agio giocando al gomito o sul perimetro, e anche se so di non avere un gran tiro da fuori, penso di saper leggere il gioco abbastanza bene da usare il pick-and-roll o per pescare i taglianti. Lo adoro!”
I Warriors segnano 107.1 punti su 100 possessi, e ne subiscono appena 95.5 (alle spalle dei soli Houston Rockets), dimostrando un’ulteriore maturazione difensiva dovuta anche all’inedito coinvolgimento di Stephen Curry, la star della squadra, che sta viaggiando a 2.3 rubate a partita (contro l’1.6 degli ultimi due anni) e all’esplosione di Draymond Green e Harrison Barnes, finalmente tolti dalla naftalina e maturi per un ruolo in quintetto.
In sede di presentazione della stagione di Golden State, eravamo stati ingenerosi con Jackson, addossandogli la responsabilità dell’involuzione di Andre Iguodala; in realtà Iggy continua a stentare, ma uscendo dalla panchina e con la palla in mano ha un ruolo sicuramente più naturale rispetto a quello di spot-up-shooter nel quale s’era ritrovato (anche quest’anno tira da dietro l’arco con un poco lusinghiero 26.1%), e non ci sorprenderemmo se riguadagnasse fiducia e continuità con il passare delle settimane.
A detta di Steve Kerr: ”Uno dei motivi per cui esce dalla panchina è che con gli starter tende a perdersi, perché Steph e Klay hanno sempre la palla. Penso che Andre sia al suo meglio con la palla in mano, e voglio che inizi l’attacco”.
Il lavoro di Kerr è consistito proprio nel rimettere ordine in un roster di talento, che era sfruttato solo a metà da Mark Jackson.
Golden State segna con il 49.9% dal campo (contro il 46.2% della scorsa stagione), ha il secondo attacco della lega (ed è seconda anche per assist a partita), subisce meno punti, ed è la quinta squadra per rimbalzi catturati.
Il reparto esterni è ricco all’inverosimile: al di là del duo stellare composto da Curry e Thompson, ci sono Shaun Livingston, Barbosa e Brandon Rush, mentre la posizione di ala viene divisa tra Iguodala e il rinato Harrison Barnes.
Al suo terzo anno NBA, Harrison continua a giocare 28 minuti a partita e segna appena due punti in più di media dello scorso anno, ma è passato dal 39.9% dal campo al 54.1%, con un irreale 48% da tre punti, statistiche figlie di tanto lavoro e del ruolo più attivo al quale è stato chiamato.
Dice Barnes: “Quando c’è movimento e ci sono grandi tiratori, arrivano canestri facili. Che sia Bogut a pescarti su un taglio, o Curry a trovarti per una tripla piedi per terra, quando muoviamo la palla, è facile trovare grandi tiri”.
Inoltre, Kerr sta utilizzando Draymond Green come ala forte titolare (attenzione, perché è in contract-year), allargando ulteriormente il campo (Draymond vanta il 41% da dietro l’arco), senza perdere in efficacia difensiva.
Green ha passato l’estate a lavorare sul tiro per sfruttare meglio le situazioni di pick-and-roll con Steph Curry, trasformandosi in un giocatore non solo intelligente e tosto, ma anche tatticamente prezioso con i suoi blocchi pin-down che aprono spazio ai tiratori e per la sua abilità come spot-up-shooter.
Tutti questi giocatori assicurano grande continuità su 48 minuti, e soprattutto, consentono a Kerr di mettere in pratica quanto predicato al training camp: i Warriors sono più pericolosi dell’anno scorso perché Steve ha introdotto alcune varianti tattiche: quando ci sono in campo Iguodala o Livingston, Steph diventa il palleggiatore secondario, usando i blocchi per costruirsi tiri senza palleggiare.
A sua volta, Thompson ha luce verde per penetrare (5.4 a partita contro le 2.8 dello scorso anno) e per essere una “triplice minaccia” anziché esclusivamente un tiratore. Tutti quanti sono chiamati ad un ruolo meno passivo, perché l’attacco di Golden State è predicato sul movimento continuo di palla e giocatori.
Questo meccanismo consente di ottenere una pluralità di risultati: Curry arriva a fine partita più fresco, i Warriors sono meno dipendenti dalle sue qualità di playmaker (trascorre in panchina 3 minuti in più dell’anno scorso), e tutti i compagni sono maggiormente coinvolti nella costruzione di gioco, tanto che il 63.8% dei loro canestri sono assistiti.
Steph realizza meno assist (7.7 contro gli 8.5 dell’anno scorso, e posto che 10 partite non sono un campione attendibilissimo) ma i Warriors producono 25.5 assist a partita contro i 23.3 del 2013-14, e sono la squadra con il più alto pace offensivo della NBA, con 102.1 possessi per 48 minuti.
Golden State non è una squadra perfetta: al netto dell’infortunio di David Lee (fuori per altre due settimane), quando esce Andrew Bogut perdono molta qualità sotto canestro; Ezeli porta difesa, rimbalzi e intensità, ma non è offensivamente all’altezza delle qualità di passatore del pari-ruolo australiano, mentre Speights va centellinato.
Ad una cena di beneficenza per il Giorno del Ringraziamento, Steve Kerr, che serviva ai tavoli, ha maldestramente rovesciato un’insalata addosso a una bambina, per poi scherzare sulle dita di burro sue e della squadra.
Parte del loro eccellente lavoro difensivo è infatti vanificato dalle palle perse (19.4 per 100 possessi, ed è il peggior dato della lega, e queste palle perse generano 18.6 punti a partita per gli avversari).
Poiché la stagione è appena iniziata e Golden State ha cambiato sistema di gioco e allenatore, riteniamo questo dato destinato a ridimensionarsi quando la squadra inizierà a prendere confidenza con l’attacco disegnato da Gentry, e quando Curry, principale responsabile con 3.9 TO a partita, opterà per uno stile di gioco meno rischioso e più essenziale.
Viceversa, solo tre squadre concedono meno punti in verniciato dei Warriors (si tratta di Mavs, Bucks e dei Knicks di Fisher, anch’egli discepolo di Jackson, e non è un caso), con 37 a partita.
Se pensate che i Pelicans, con Davis, ne concedono 44, e i Rockets, con Howard, 43, è facile capire la qualità del lavoro di Bogut e di un reparto esterni composto da eccellenti difensori individuali, come Barnes, Iguodala, ma soprattutto Klay Thompson, il vero collante di questa formazione.
Se è chiaro a tutti che la stella della squadra è Stephen Curry, Thompson è un giocatore cruciale. Oltre ad un apporto offensivo di altissimo livello (23.7 punti con 16.2 tiri di media e il 46% da due e da tre punti), Klay fa la differenza in difesa, dove, non da oggi, è capace di prendere in consegna l’avversario più pericoloso e “schienarlo”.
Quando lui è in campo, i Warriors concedono appena 89.8 punti su 100 possessi. Anche i suoi numeri a rimbalzo (solo 3.2 a gara) vanno letti nel contesto: chi è incaricato di difendere sullo scorer avversario non ha posizione per seguire a rimbalzo, al contrario di Kobe Bryant, per fare un esempio, che, flottando molto, ha da sempre eccellenti numeri sotto ai tabelloni.
Statisticamente, Klay cattura il 64.4% dei rimbalzi per lui disponibili, dato non stratosferico, ma ugualmente discreto.
Il suo lavoro difensivo (e degli altri esterni) consente a una squadra che ha un solo rim-protector (Bogut, che allenta 1.8 stoppate a partita) di non subire canestri facili, e di non dover ricorrere troppo spesso all’aiuto. Gli avversari di Bogut finiscono al ferro con il 44%, ma il problema, contro i Warriors, è arrivarci.
Fare un pronostico su una stagione dopo appena dieci partite è, non lo nascondiamo, un’operazione d’azzardo più che d’analisi, tuttavia ci sembra che queste prime gare abbiano delineato in modo chiaro dove Kerr dovrà intervenire: le palle perse, troppo spesso originate dalla voglia di fare giocate belle ma rischiose; è un vizio che Golden State dovrà dimenticare, se vuole giocare a giugno, posto che quel che stanno facendo i ragazzi di Kerr (senza avere a disposizione Lee) consente ai tifosi della Baia di sognare in grande, per la prima volta da tantissimo tempo.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.
Bellissimo articolo, Francesco! Voi di playitusa siete di gran lunga i migliori della rete in italiano.
Grazie mille!
Volevo chiederti: ho letto da articoli come questi che nel prossimo futuro il Canada sarà la 2 nuova superpotenza al posto della Spagna, che ne pensi? http://sports.nationalpost.com/2013/10/12/176655/
http://www.usatoday.com/story/sports/nba/2013/06/23/canadian-basketball-nba-anthony-bennett-kelly-olynyk/2450299/
http://www.thestar.com/sports/basketball/2012/08/27/canada_basketball_mens_team_a_perfect_storm_talent_coming_together_at_the_right_time.html
http://www.nba.com/2014/news/features/scott_howard_cooper/11/01/international-influence-canada/
è possibile