Non è più tempo dei fratelli Wilkins, né della pseudo-cuginanza Carter-Mc Grady. Ora, di dinastie famigliari ne abbiamo parecchie. Le più celebri, manco a dirlo, restano due: i Gasol e i Lopez, quartetto di lunghi equamente suddiviso tra C e FC (hoops docet), sono ormai un’istituzione di settore.
Ci sono però alcuni nuovi incroci – curiosamente quasi sempre nel reparto lunghi, fatti salvi i due Teague e con la parziale eccezione dei Morris di Phoenix – su cui varrà la pena soffermarsi. Nel tentativo di completare il podio del ranking dei parenti del parquet, proviamo a fare il punto ad oggi sulle fratellanze della NBA.
[*Necessaria precisazione di metodo: le altre combo di guardie di cui si potrebbe parlare non hanno molto da raccontare. Dei Dragic non si può, per ora, dire granché (dell’inserimento di Zoran sappiamo troppo poco); JR e Chris Smith hanno avuto la dignità di dividersi, prescindendo dalle sciocche critiche mosse loro da Brandon Jennings. Stephen e Seth Curry non sono, viste le 2 presenze complessive del secondo, “coppia di fatto”: ringraziamo comunque papà Dell per il contributo alla causa].
1) Casa Plumlee
Miles (1988) era stato scelto da Indiana alla chiamata 26 del draft 2012, faticando non poco a legittimare quel primo giro e collezionando 55 minuti in 14 ingressi. Non a caso, può vantare un passato parallelo (e meno nobile) che comprende un trimestre tra Fort Wayne, Canton e Santa Cruz: non si tratta, però, di un Hasheem Thabeet qualunque. Nel 2013 finisce a Phoenix (assieme ad una prima scelta futura) nella trade che porta Luis Scola ad Indiana.
In Arizona è riuscito a sbocciare, che nel concreto si è tradotto in cifre e prestazioni di grande sostanza. In rotazione ha avuto 24,6 minuti, con 8 punti e quasi altrettanti rimbalzi di media (dato in cui si è migliorato rispetto all’università); le 1,1 stoppate a sera non fanno che documentarne l’efficienza.
Ormai ventiseienne, è già il momento della conferma: il ragazzo è atteso ad una stagione di crescita, da lungo di riferimento in zona pitturata. Così, almeno, suggeriscono le 79 partenze da titolare della scorsa annata, come pure il roster – un po’ avaro di pivot – degli attuali Suns.
Mason ha dalla sua l’età (è del 1990) e una stagione da rookie che è stata senz’altro di buon livello. Il contatto con i veterani, ai quali ha estorto diverse partenze in quintetto (22 in 70 apparizioni), è una fortuna di cui potrà continuare a beneficiare anche in assenza di Pierce.
Al college era uno da 17 e 10 rimbalzi a sera; ora, a diciannove minuti a partita, ha collezionato 7,4 punti (superando il 65% da due), 4,4 rimbalzi e 0,9 assist: in sostanza, cifre dimezzate. Con più minuti, e senza azzardare proiezioni in fatto di “titolarità”, le cifre del ragazzo dovrebbero crescere anche alle voci “recuperi” e “stoppate”, altri numeri che Mason ha mostrato di possedere.
Tradotto in 36 minuti, alle porte dell’anno da sophomore è uno da quasi 15 punti e 9 rimbalzi, con 1,7 assist, 1,4 recuperi e 1,6 stoppate; unica nota negativa: i liberi. Per il resto, ha superato in quattro occasioni i trenta minuti, con 22 punti e 13 rimbalzi (due volte) come career high in stagione regolare. In post-season, invece, è pressoché scomparso: sperando di rivederlo più maturo in una prossima occasione, ricordiamo, per intanto, che è stato incluso nel primo quintetto matricole.
2) Casa Zeller
I nipoti di Al Eberhard (ala piccola di Detroit 1974-1978) sono addirittura tre: il maggiore, Luke Zeller, ha collezionato pochi minuti nella Phoenix del ’12-’13. A Tyler e Cody spetta il compito di portare avanti la casata, se possibile migliorando la tradizione di famiglia.
Tyler (1990) si trova già a dover fare i conti con una specie di involuzione. Il settepiedi di Cleveland si è visto dimezzare il minutaggio: considerando che si trattava ancora dell’era pre-Love non sono dati esaltanti.
Tuttavia, la preseason ha fornito qualche indicazione senso opposto: il passaggio a Boston (trade minore che ha coinvolto anche l’eterna delusione Marcus Thornton e Jarrett Jack) espone Zeller ad una condizione di gregariato simile a quella degli anni precedenti, Sullinger e Olynyk permettendo. Senza aspettarsi il botto, potrebbe avere un ruolo in rotazione senza troppo sfigurare.
Cody (1992) si trova nel mare di Charlotte: da rookie ha giocato pochino (17 minuti circa) ma le ha giocate tutte e ottantadue, con 6 ppg 4,3 rpg e 1,1 apg che gli sono valsi il secondo quintetto di matricole.
Una nota negativa è il pessimo 33% al tiro nei playoff, dettaglio su cui il lungo dovrà mostrare già quest’anno di aver lavorato sodo. Per quanto in regular abbia avuto il 42%, che pure può essere ampiamente migliorato, non è escluso che possa ritrovarsi di nuovo a giocare in post-season (43-39 il record della squadra per l’anno passato), dove la freddezza è tutto, o quasi. Quanto ai rimbalzi e alle e doti di intimidazione, è in linea con le caratteristiche di Tyler.
3) Casa Morris
È un caso che va trattato congiuntamente, perché Marcus e Markieff Morris (2 settembre 1989) si sono ricongiunti: i due ragazzi, felicissimi, twittano quotidianamente la loro gioia. Sembra una situazione di inseparabilità, in cui la stretta vicinanza porta entrambi ad avere un rendimento migliore. Tra le varie cose, hanno appena rinnovato.
Marcus ha trascorso un anno e mezzo a Houston. Appena arrivato faceva la spola con i Rio Grande Vallet Vipers, ma da sophomore il suo rendimento era finalmente dignitoso: 17 partenze in quintetto su 54 gare, a 20′ di media.
Quando Phoenix lo acquista per una futura scelta (pick del secondo giro 2013, che corrisponde a Isaiah Canaan), l’inserimento è impegnativo e la seconda parte di regular 2012-’13 serve da semplice assestamento. La scorsa, invece, è stata per Marcus la stagione dei numeri migliori: sempre subentrato, è stato in campo per 22 minuti a incontro, a poco meno di 10 punti e 4 rimbalzi catturati.
Markieff dalla sua è sempre stato a Phoenix, crescendo esponenzialmente anno dopo anno (nei punti 7,4 – 8,2 – 13,2; nei rimbalzi 4,4 – 4,8 – 6 netti) fino a diventare un giocatore da 26 minuti abbondanti.
Si può considerare fondamentale nell’attuale rotazione del team, vista la duttilità di ruolo e il discreto impatto dal campo. Pare inoltre, e non stupisce, che Markieff giocherà molto (più) spesso da 5. Gioverà ricordare che al college (Kansas) Kieff era quello ad avere le cifre peggiori: ora, invece, ha superato il quasi omonimo gemello Mook nelle gerarchie; non dimentichiamo, in questo senso, che già al draft Markieff fu scelto alla #13, mentre Marcus alla #14.
4) Casa Teague
Per ultima una storia di guardie, dalle alterne fortune ma con molto ancora da mostrare.
Marquis Teague (1993) ha come obiettivo una permanenza tra i pro il più a lungo possibile. Le 88 gare in due anni tra Chicago e Brooklyn sono un bottino che si accompagna a statistiche decisamente limitate. Nonostante questo (anche qui D-League, Iowa Energy), i Nets si sono trovati a pagare un ingaggio già superiore al milione; il prossimo anno lo stipendio verrà sostanzialmente raddoppiato (opzione da 2 milioni per 2015-2016).
Anche in questo caso, complice l’età, i play-off hanno evidenziato tutte le insicurezze di tipo anagrafico: il 29% da 2, ottenuto con i Bulls nella tornata del 2013, è un dato eloquente (nel primo anno e mezzo a Chicago, comunque, ha mantenuto il 38% da rookie e il 24% da sophomore). Notizia freschissima: è appena approdato ai Sixers, in cambio di Casper Ware.
Jeff Teague (1988), al sesto anno in maglia Hawks è una PG ormai matura. Anche per lui si può prospettare una stagione di conferme, dopo che per un intero lustro non ha fatto che incrementare il proprio rendimento. Gioca mezz’ora a sera da ormai tre anni, ma solo negli ultimi due ha mostrato un’effettiva padronanza del ruolo. Viaggia a 16,5 ppg, sfiorando le 7 assistenze (nono assoluto nella Lega) con più di un recupero a partita; nel 2011-’12 è stato il decimo per palle recuperate.
La sua quinquennale partecipazione ai playoff ha invece tinte diverse: Teague si è affermato principalmente come realizzatore (ha superato i 19), con un minore impatto nei passaggi vincenti (mai più di 5,0 apg in post-season) e minor precisione al tiro, con mansioni simili a quelle che ricopriva al college. Ciò che porta ad avere aspettative è naturalmente il contrattone: i 24 milioni che percepirà fino al 2017 obbligano il giocatore e gli Hawks a legittimare un rinnovo su cifre sostanziose.
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In attesa di nuovi sviluppi, tra smentite e sorprese, la NBA 2014-2015 aprirà i battenti anche nel segno di questi motivi secondari.
L’augurio è per tutti quello di emulare, se non proprio Pau e Marc, almeno Brook e Robin: sostituirli nell’immaginario collettivo è impresa ardua; prendere spunto da loro in modo proficuo, invece, è più che possibile, sperando che non alimentino il filone degli O’Bannon .
caelum, non animum, mutant qui trans mare currunt