Ripartire da zero non è mai facile. E laddove il nuovo corso debba far seguito ad un periodo di buoni successi la via rischia di inclinarsi pericolosamente verso l’alto. E se poi le colonne portanti di tale perestrojka cestistica vengono a mancare fin dall’inizio si rende necessario l’utilizzo di sherpa esperti per tentare di arrivare in vista della cima, e questo vale anche quando ti trovi ad una certa (letterale) altezza come i Denver Nuggets.

Fino all’aprile del 2013 la squadra della Mile High City era vista come un modello amministrativo, con l’enfant prodige Masai Ujiri a tirare i fili ed un marxista illuminato del Gioco quale George Karl a vincere le onoreficenze di Executive e Coach of the Year al seguito della creazione, dalla cessione di Melo in poi, di una macchina da punti capace di produrre, senza All-Star di sorta, un franchise best di 57 vittorie in stagione. E poi?

E poi il diluvio, verrebbe da dire. Perché fra l’aprile ed il maggio 2013 la situazione precipita: il crescendo rossiniano iniziato con l’infortunio al legamento crociato anteriore sinistro di Danilo Gallinari, e proseguito in rapida successione con la sconfitta contro i Warriors al primo turno, il licenziamento di Karl legato ai non idilliaci rapporti con la dirigenza (soprattutto in relazione ai minuti di campo concessi a McGee) e la firma di Ujiri con i Raptors (oltre al susseguente addio di Iguodala), riportano i Nuggets, in termini di progettazione, all’anno zero.

E con la suddetta rifondazione in fase embrionale, la 2013-14 non poteva che essere una stagione di transizione, seppur foriera di certezze perse più che di conferme, con gli infortuni di Gallinari, Robinson e McGee che hanno reso impossibile un primo giudizio sul nuovo asse dirigenza-panchina composto da Tim Connelly e Brian Shaw, entrambi all’esordio da direttori delle rispettive orchestre; il risultato è stata la prima mancata qualificazione alla post-season dal lontano 2003 con un record di 36 vinte e 46 perse, un overachievement in relazione alla clamorosa sfortuna patita in termini di infortuni.

Finite le prolisse premesse iniziali si arriva finalmente all’imminente 2014-2015, anno se possibile ancora più incerto del precedente, un po’ per fattori esogeni (il fatto di giocare in quel girone dantesco che è la Western Conference degli anni ’00 e ‘10) un po’ per endogeni (quanto il vecchio gruppo riuscirà a tenere botta con Shaw, alcune incompletezze del roster, l’upside di Lawson e Faried ma soprattutto il recupero degli infortunati); l’impressione è che una stagione positiva sia difficile da inanellare, quantomeno per la sopracitata ipercompetitività degli avversari, ma è meglio andare con ordine, iniziando da ciò che è cambiato in estate a livello di organico:

Conference: Western
Division: Northwest

Draft: Jusuf Nurkic (pick n. 16) e Gary Harris (pick n. 19) ricevuti da Chicago in cambio di Doug McDermott, pick n. 11, ed Anthony Randolph); Nikola Jokic (pick n. 41, rimasto in Europa nel team serbo del KK Mega Vizura); Roy Devyn Marble (pick n. 56, ceduto ad Orlando).

Arrivi: Arron Afflalo (da Orlando, in cambio di Evan Fournier e dei diritti su Roy Devyn Marble, quadriennale da 28.500.000 $ in scadenza nel 2016); Alonzo Gee (free agent, annuale da 1.063.000 $); Jerrelle Benimon (biennale da 1.300.000 $ di cui 35.000 garantiti).

Partenze: Aaron Brooks (free agent, firmato da Chicago); Anthony Randolph (scambiato con Chicago); Jan Vesely (free agent, firmato dal Fenerbahçe).

Probabile quintetto

PG: Ty Lawson
SG: Arron Afflalo
SF: Danilo Gallinari
PF: Kenneth Faried
C: Timofey Mozgov

GUARDIE: Ty Lawson, Alonzo Gee, Randy Foye, Arron Afflalo, Erick Green, Nate Robinson, Gary Harris, Marcus Williams;

ALI: Danilo Gallinari, Wilson Chandler, JJ Hickson, Kenneth Faried, Quincy Miller, Darrel Arthur, Jarrelle Benimon;

CENTRI: Javale McGee, Timofey Mozgov, Jusuf Nurkic.

HEAD COACH: Brian Shaw (seconda stagione da head coach dei Nuggets e in assoluto)

Risultato 2013/14: 36 vittorie-46 sconfitte, undicesimo posto nella Conference, quarto nella Division, fuori dai Playoff

Come si può ben vedere dalla tabella, (quasi) niente di nuovo sul fronte occidentale, e forse il paradosso dei Nuggets targati 2015 è proprio l’aver pubblicamente modificato le aspettative pur non avendo granché rintuzzato il roster, soprattutto a causa di una flessibilità salariale quasi nulla, con oltre 72 milioni in contratti garantiti, eredità dello stile a pennellate forti di Ujiri, GM coraggioso (come ha dimostrato spedendo Rudy Gay oltre confine poco dopo essere atterrato in Canada) e solerte nel cercare di incastrare al meglio il Tangram a propria disposizione, ma forse un po’ avventato: il rovescio della medaglia per la lungimiranza della cessione di Melo sono stati i 45 milioni dati a McGee (difficili da commentare) e la cifra simile garantita al Gallo (soldi giusti per il valore potenziale del giocatore, ma troppi quando si pensa alle numerose beghe fisiche sofferte dal nostro), oltre all’essersi infilato nell’affare Bynum-Howard ottenendo un Iguodala piuttosto restio a fermarsi più di un inverno in Colorado (quod erat demonstrandum).

Al monte ingaggi attuale va aggiunto l’ulteriore quadriennale da 50 testoni (peraltro inizialmente il contratto sarebbe dovuto durare un anno in più, contravvenendo le norme NBA sui contratti post-rookie scale) dato a Kenneth Faried, scelta quasi obbligata per diversi motivi: il rendimento post-All-Star break (18.8 punti +10.1 boards) e soprattutto le prestazioni iridate del prodotto da Morehead State hanno pesato al banco delle trattative, forse persino troppo, perché all’energia ed all’elevazione irreali di Manimal si uniscono diversi difetti tecnici ben nascosti a livello FIBA, dove l’atletismo sotto le plance nemiche e il senso della posizione sugli scarichi gli sono stati sufficienti per essere addirittura incluso nel quintetto ideale del torneo, difetti che se non corretti potrebbero precludergli un completo raggiungimento del proprio ceiling.

L’ulteriore motivo dei soldi dati a Faried è l’intenzione di coach Shaw, allievo della Triple Post di Jacksoniana memoria, di implementare un gioco più orientato sui lunghi, per potersela meglio giocare nei PO, storiche Colonne d’Ercole della franchigia; buono in questo senso l’aver trattenuto Mozgov, centro dotato delle capacità intimidatorie più di tutto richieste ai pivot contemporanei, più volte accostato ai Cavs durante l’estate, e l’aver recuperato McGee, inizialmente probabile back-up del russo assieme ad Arthur ed a JJ Hickson, almeno fino a quando smetterà di meritarsi la perenne nomination di Shaqtin’ a Fool, mentre il rookie Nurkic difficilmente vedrà molti minuti.

Gioco più interno dunque sarà, ma senza snaturare l’indole “velocista” della squadra, lo scorso anno giunta terza per pace (ovvero il numero medio di possessi).

I punti di forza della squadra restano quindi sugli esterni, dove si vedranno ritorni di diversa natura, da quello di Afflalo (reduce da una career season ad Orlando, a 18.2 a partita, e occhio perché in 7 anni da pro è sempre cresciuto nella media punti) a quelli di KryptoNate Robinson e Wilson Chandler, gli ultimi due principali membri di una second unit forse anche troppo popolata assieme a Randy Foye; i due veri go-to guy biancocelesti, se così si possono definire all’interno di un gruppo dai valori tanto omogenei, restano comunque Ty Lawson e Gallinari, e da loro dipenderanno gli esiti e le speranze del Pepsi Center.

Lawson paga con l’ostracismo dei riconoscimenti la profondità da Fossa delle Marianne del ruolo di point guard in questo momento storico, laddove quasi ogni combo guard di alto livello (da Steph Curry a Westbrook) oggi gioca da 1 (da qui il contraltare della penuria di grandissime guardie tiratrici), ma resta un regista con potenziale e numeri da All-Star a 17.6 ppg e 8.8 apg (entrambi career-highs, con aggiunta di terzo posto nella Lega in servizi vincenti), seppur ancora da rivedere a livello di leadership e hybris nel prendersi la squadra sulle spalle (nel 2013-14 ha avuto il peggior dato in carriera in percentuale dal campo al 43.1%, e la sua percentuale di canestri da 2 assistiti dai compagni è stata solo del 12%, entrambi indici di una tendenza a strafare, seppur in parte dettata dall’assenza prolungata degli altri migliori scorers del quintetto).

E poi c’è il redivivo Gallo. Cosa è lecito attendersi dal numero 8 dopo un anno e mezzo di assenza dal parquet? Non molto, probabilmente, e lui è stato il primo ad ammettere che la mancanza di fiducia sarà ardua da superare inizialmente, e per uno come lui già abbastanza incostante al tiro (sempre fra il 41% ed il 42% dal campo nelle ultime 3 stagioni giocate) i primi tempi saranno davvero complicati, e verrebbe da aggiungere che l’assenza precauzionale da EuroBasket 2015 verrà difficilmente quotata dai bookmakers.

Difficile perciò essere ottimisti sulle possibilità di una squadra il cui secondo miglior giocatore si porterà dietro gli strascichi di un grave problema fisico per un tempo medio-lungo (almeno fino all’All-Star break direi); soprattutto se questa non è l’unica grana da risolvere: nello specifico i vuoti più evidenti nella struttura dei Nuggets sono l’efficacia dall’arco, bassa per una squadra che tanto ama correre (undicesimi nel totale e sedicesimi nelle triple, e anche in una categoria dove il rendimento è stato da secondo posto nella Lega, ovvero le triple segnate dall’angolo, lo sfruttamento è stato poco, 24% buono solo per il diciassettesimo posto assoluto, laddove Miami, migliore per percentuale, è stata anche la prima per tentativi), e soprattutto la difesa, seconda solo alle carcasse dei 76ers e dei Lakers, anche se l’incapacità difensiva delle Pepite ha un che di storico ormai: è dagli anni 80, dai tempi di Doug Moe, che Denver si distingue per una certa non belligeranza difensiva, e Karl non ha mai fatto niente per smentire questa fama.

La questione è quindi: sarà in grado Shaw di partorire un sistema consono ai pregi di un organico comunque di alto livello? O per quest’anno la maieutica del giovane coach non sarà sufficiente per colmare tutte le lacune?

La sensazione è che quest’ultimo sia l’esito più probabile, ma che in Colorado non si debbano scoraggiare vista la coerenza e la futuribilità di un progetto coltivato da 3 anni e non ancora portato a compimento a causa di qualche scelta sbagliata ma anche per tanta malasorte.

Pronostico: 35-40 vittorie, niente Playoff

2 thoughts on “Denver Nuggets: Preview 2014 2015

  1. Concordo in pieno con l’autore. A Est entrerebbe nei P.O. in carrozza, ma a Ovest…poche speranze. Squadra con troppe incognite in tutti i settori.

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