Golden State viene da una stagione positiva, ma che ha ugualmente lasciato l’amaro in bocca al pubblico della Bay Area.
Un bel record (51-31), i Playoffs raggiunti senza nessun patema (per il secondo anno di fila, non accadeva da 22 anni) e la stabilità portata da coach Mark Jackson non sono stati sufficienti ad appagare il popolo dei Warriors, che, dopo l’addizione di Andre Iguodala, credeva di giocarsela alla pari con le powerhouse della Western Conference.
Invece, capitati contro un avversario indigesto come i Los Angeles Clippers (che pure, in quei giorni affrontavano l’esplosione del caso-Sterling), Steph Curry e compagni hanno perso al primo turno, dopo sette gare, certo, ma pur sempre al primo turno.
Esisteva da qualche tempo l’impressione che l’atmosfera in squadra non fosse rilassata, e il gruppo appariva insofferente a Jackson, che tuttavia, nel suo trittico in panchina, ha costantemente migliorato il record della franchigia, collocandola saldamente tra i club più ambiziosi.
Così, subito dopo la sconfitta, il GM Bob Meyers (fresco di recente rinnovo) ha licenziato Jackson e assunto l’esordiente Steve Kerr con un contratto quinquennale. Curiosamente, i due si sono, di fatto, avvicendati, perché Mark Jackson ha sostituito Kerr nelle telecronache con Mike Breen e Jeff Van Gundy.
Conference: Western
Division: Pacific
Arrivi: Shaun Livingston (G), Brandon Rush (G), Justin Holiday (G/F), Leandro Barbosa (G) Jason Kapono (F);
Partenze: Hilton Armstrong (C ), Jermaine O’Neal (C ), Steve Blake G);
Draft: i Warriors hanno ceduto le proprie scelte a Jazz e Timberwolves in scambi avvenuti nel 2013, riguardanti Nedovic e Iguodala;
Probabile quintetto base
PG: Stephen Curry
SG: Klay Thompson
SF: Andre Iguodala
PF: David Lee
C: Andrew Bogut
ROSTER
Guard: Stephen Curry, Klay Thompson, Brandon Rush, Shaun Livingston, Leandro Barbosa, Nemanja Nedovic, Aaron Craft, Justin Holiday;
Forward: Draymond Green, Andre Iguodala, Harrison Barnes, David Lee, Mareese Speights, James Michael McAdoo, Mitchell Watt;
Center: Andrew Bogut, Festus Ezeli, Ognjen Kuzmic;
Head-Coach: Steve Kerr (Arizona)
Coaching Staff: Alvin Gentry, Luke Walton, Ron Adams, Jarron Collins, Bruce Fraser;
Coach Kerr ha già detto che molte cose cambieranno, a partire dall’utilizzo di Iguodala; l’ex guardia di Spurs e Bulls ha fatto capire che non continuerà ad usare Iggy come spot-up shooter dagli angoli, consentendogli viceversa di giocare come playmaker aggiunto.
Iguodala ha tirato con un onesto 39% da tre, ma, anche senza consegnargli la responsabilità di portar palla (c’è pur sempre Curry) è un tagliante con i fiocchi, e può dare molto di più in situazioni dinamiche che non giocando “alla Korver”.
Kerr vuole levare un po’ di responsabilità dalle spalle di Curry, consentendogli di giocare senza palla e allo stesso tempo dando responsabilità ai compagni. Iguodala è indubbiamente più pericoloso con la palla in mano, mentre Curry continuerebbe a essere una minaccia anche senza condurre il gioco.
Mark Jackson, che ha avuto l’enorme pregio d’aver costruito un sistema chiaro, con responsabilità e compiti precisi, aveva esaurito la sua funzione, perché la squadra era giunta ad uno stallo tecnico, per la frustrazione di tutti i giocatori, che iniziavano a sentirsi ingabbiati più che disciplinati dal religiosissimo ex playmaker dei Pacers.
Kerr è, storicamente, una persona di grande pragmatismo, oltre che un uomo intelligente. Nato a Beirut e figlio di un accademico statunitense (assassinato nel 1984 dalla Jihad Islamica), è stato per anni un role-player di limitato talento ma grande etica lavorativa e carattere, capace di ritagliarsi uno spazio su prosceni importanti, specialmente durante gli anni di Chicago. Inoltre, ha le qualità umane e il carisma giusti per rivelarsi un condottiero carismatico, oltre che un bravo tecnico.
Steve è stato un tiratore di altissimo livello, e avrà molto da insegnare a Curry e Thompson su come si gioca lontano dalla palla e come si massimizza l’impatto senza per forza giocare con la palla in mano. Insomma, Kerr rivolterà la frittata: anziché dar palla in mano ai tiratori, costringendo gli altri a giocare sugli scarichi, il nuovo coach vuole che un sistema che ottimizzi i talenti di tutti.
Se Mark Jackson ha dimostrato un limite, è quello di aver tentato di fare di Curry il proprio braccio armato in campo, costringendo il miglior realizzatore della squadra a svolgere le mansioni di playmaker.
Individualmente, Curry ha forse addirittura ecceduto le attese, ma il club ha indubbiamente sofferto di quest’impostazione: Iguodala non è mai entrato nel vivo del gioco, e, in generale, i Warriors sono stati una one-man-band, quando, viceversa, hanno tutte le carte in regola per essere una squadra vera.
Kerr ha giocato per Gregg Popovich e Phil Jackson (che lo voleva ai Knicks), e sa bene che gli isolamenti non vincono i titoli NBA; dovrà spiegare a Curry e Thompson che un gioco più corale renderà Golden State meno prevedibile (e quindi, meno facile da difendere), e ha voluto nel suo staff un altro pretoriano di Coach Zen, quel Luke Walton che con i Lakers ha giocato 4 Finali vincendo due anelli.
Inoltre, Kerr ha scelto come proprio braccio destro Alvin Gentry, l’anno scorso in forza allo staff dei Clippers, per spaziare meglio l’attacco e portare la sua esperienza con la Princeton e, in generale, con la motion-offense.
Steve è approdato in riva al Pacifico nel momento giusto: Curry e gli altri vogliono cambiare modo di giocare, e hanno appena sbattuto il naso contro l’evidenza che con gli isolamenti (che giocavano nel 10% dei possessi, finendoli con successo in meno del 40% delle occasioni) non si va molto lontano.
Kerr ha rilevato che: “Abbiamo molto talento, e Bogut e Lee sono eccellenti passatori. Vedrete molto movimento di palla, con i lunghi utilizzati come passatori dal gomito e dai blocchi. Utilizzeremo alcuni elementi dell’Attacco Triangolo, ma non sembreremo i Chicago Bulls degli anni ’90. Nel basket odierno serve correre, segnare subito. Sono le regole a imporlo. Voglio che corriamo di più, ma che ciò avvenga in un contesto che valorizzi i nostri talenti e che tolga pressione da Curry”.
Inoltre, dare un po’ di fiato a Curry potrebbe giovare anche alla sua fase difensiva. Già, la difesa: i Warriors hanno un’immagine di squadra spettacolare, costruita dalle triple impossibili di Thompson e Curry, ma nel 2013-14 si sono rivelati un’eccellente formazione difensiva (i numeri dicono che erano migliori come difesa che come attacco). Thompson, Iguodala e Bogut sono abilissimi nella propria metà campo, tuttavia anche loro possono permettersi che Steph difenda poco, non che faccia il casellante.
Ancora una volta, l’esperienza di Kerr sarà importante: senza essere dotato di grandi qualità fisiche, Steve è sempre stato un difensore perlomeno credibile, e questi sono argomenti che dovrà spendere per convincere la sua stella che la difesa è, prima di tutto, questione di atteggiamento mentale.
Curry ha da poco dichiarato di essere un attaccante superiore a LeBron James (pound per pound ha ragione, almeno per quanto riguarda l’uno contro uno), ma a basket si gioca su 28 metri, e non 14.
Un fattore che ha determinato la stanchezza (e spesso, la cattiva gestione del quarto quarto) dei titolari è il loro eccessivo impiego. In una NBA dominata dalla rapidità e dalla corsa, non si possono spremere i titolari impunemente. Gli Spurs faranno scuola con le loro rotazioni lunghe, e i Warriors prenderanno esempio.
In questo contesto, sembra in bilico la presenza di David Lee, il giocatore-feticcio del proprietario Joe Lacob. Lee ha rappresentato il cambiamento di mentalità di una franchigia troppo spesso alla deriva, ma se il suo arrivo, nel 2010, ha cambiato molte cose, oggi Lee non è lo stesso giocatore, e alle sue spalle scalpita il talento di Draymond Green.
Steve Kerr ha chiesto uno stretch-four, e Lee non è in grado di esserlo (o di riciclarsi come centro); non è detto che sarà ceduto, ma il suo impiego potrebbe essere rivisto rispetto alla gestione-Jackson.
Non a caso, i Warriors hanno provato a prendere la migliore ala forte disponibile, Kevin Love, e offrivano in cambio proprio Lee e Harrison Barnes. I T-Wolves chiedevano Klay Thompson, così non se n’è fatto nulla, ma rimane che, da un punto di vista di spaziature, la coesistenza Bogut-Lee rimane complicata, perché entrambi hanno poco tiro da fuori, e rischiano di intasare il verniciato, anche se in un sistema come l’Attacco Triangolo è un problema relativo, perché il lungo ha spesso la palla in mano e il compito di pescare i tagli dei compagni.
A proposito di Draymond Green e di Barnes, saranno loro i giovani chiamati ad accendere la scintilla in uscita dalla panchina. Entrambi giocatori di prospettiva, sono probabilmente arrivati alla stagione della definitiva esplosione: con Kerr avranno più libertà, e non dovranno stare a guardare Curry e Thompson in isolamento.
Entrambi sono ali polivalenti, e se Barnes è più esterno, Green è un defensive stopper che può farsi valere anche più vicino a canestro e che sta crescendo al tiro, elemento, questo, indispensabile per non fare la “fine” di Josh Smith.
L’anno scorso, in 32 minuti d’impiego, Draymond ha fatturato 10.2 punti e 8.2 rimbalzi; al terzo anno di NBA, è lecito attendersi che cresca ancora, con l’opportunità di poter far sfoggio delle proprie (non disprezzabili) doti di passatore.
Anche i nuovi innesti, Rush, Kapono e Livingston, contribuiranno a rimpolpare la panchina (l’anno scorso 24° per punti segnati nella lega), ma, nel loro caso, si tratta di tre esterni puri.
Rush e Kapono sono chiaramente più tiratori (Rush è anche un valido difensore), mentre Livingston, reduce da una stagione sorprendente (non per il talento, che è sempre stato in bella vista, ma per le condizioni atletiche) a Brooklyn, è un playmaker con tanti centimetri e molto acume, il genere di elemento che si adatta bene in ogni tipo di contesto tecnico. Vista la storica propensione del playmaker californiano, Golden State si è tutelata firmando anche Barbosa (a sua volta reduce da un infortunio).
Craft (tostissimo play visto con Ohio State), McAdoo e Watts, dovranno invece sudarsi un posto, dopo essere stati firmati per il training camp, anche se, realisticamente, non hanno troppe chances di fare la squadra. Oltre a loro, anche Nedovic e Kuzmic (che però non sembra pronto ai verniciati NBA, ma avrà minuti perché nel ruolo i Warriors sono scoperti) cercheranno di mettersi in mostra al training camp, ma dovranno veramente fare cose speciali per entrare in rotazione.
Sotto canestro, la presenza di Festus Ezeli completa un reparto orfano di O’Neal (e Armstrong, che, con i suoi difetti, era il giocatore che catturava più rimbalzi disponibili –il 26%- di tutto il roster) e forse un po’ scarno, soprattutto alla luce dei costanti e purtroppo frequenti infortuni di Bogut.
Poiché Ezeli è reduce da un anno d’inattività e che ha appena ripreso a giocare, Kerr ha deciso di usare Speights come centro di riserva. Secondo il GM Bob Meyers, O’Neal non prenderà parte al training camp, e “andremo con i nostri tre: Bogut, Ezeli e Kuzmic“.
In assoluto, è il reparto lunghi ad essere il più fragile dei Warriors: Bogut è un eccellente centro, ma è sempre a rischio infortuni, e alle sue spalle c’è poco, mentre nel ruolo di quattro ci sono dei discreti giocatori che però non convincono fino in fondo.
I Warriors hanno una squadra capace di fare la differenza in attacco e in difesa; il loro successo dipenderà dall’integrità fisica di Bogut e di Curry, e dalla disponibilità ad abbracciare un sistema di gioco virtualmente opposto a quello che hanno adoperato negli ultimi anni.
Se la transizione avrà successo e Kerr saprà guidare il processo, i Warriors potrebbero davvero essere la squadra pretesa dal pubblico della Baia, ed entrare effettivamente nel novero delle potenze dell’Ovest.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.