Archiviato il disastro del 2013-14, chiuso con un poco lusinghiero record di 27-55 (peggiore risultato da quando la franchigia è in California), i gialloviola speravano di tornare grandi grazie alla free agency, ma le cose sono andate diversamente, e il pubblico, definito da Jerry Buss (con un po’ di ruffianeria) “il più competente della NBA”, sembra abbastanza rassegnato ad un’altra stagione mediocre.
I Los Angeles Lakers ripartono da Kobe Bryant, che torna da un anno di inattività (al netto di sei partite giocate nella scorsa stagione, prima di infortunarsi nuovamente) e con tutte le incognite dettate dalla combinazione di età (36 anni compiuti ad agosto) e postumi di un infortunio (tendine d’Achille) che è sempre un brutto cliente.
Dopo il biennio poco felice di Mike D’Antoni, i Lakers hanno sciolto le riserve e assunto come head coach Byron Scott, l’ex pretoriano di Magic Johnson che a Los Angeles è tuttora amatissimo, ma che, nel corso della sua decennale esperienza da allenatore, non si è distinto come un fuoriclasse della panchina.
Staremo a vedere se l’aria di casa e il tempo trascorso lontano dalla lega lo avrà aiutato a limare alcuni suoi difetti (David West, che giocò per lui a New Orleans, disse che era eccessivamente inflessibile nelle proprie convinzioni) e a migliorarsi.
Conference: Western
Division: Pacific
Arrivi: Carlos Boozer (F), Jeremy Lin (G), Ed Davis (F/C), Wayne Ellington (G), Ronnie Price (G);
Partenze: Pau Gasol (F/C), Jordan Farmar (G), Chris Kaman (C ), Kent Bazemore (F), Marshon Brooks (G), Jodie Meeks (G);
Draft: Julius Randle (F), Jordan Clarkson (G);
Probabile quintetto base
PG: Steve Nash
SG: Kobe Bryant
SF: Wesley Johnson
PF: Carlos Boozer
C : Jordan Hill
ROSTER
Guard: Kobe Bryant, Jordan Clarkson, Jeremy Lin, Steve Nash, Nick Young, Wayne Ellington, Ronnie Price;
Forward: Ryan Kelly, Julius Randle, Carlos Boozer, Wesley Johnson, Ed Davis, Xavier Henry;
Center: Robert Sacre, Jordan Hill;
Head-Coach: Byron Scott (Arizona State)
Coaching Staff: Clay Moser, Johnny Davis, Jim Eyen, Kurt Rambis, Mark Madsen, Thomas Scott, Larry Lewis, Gary Vitti
Scott avrà a disposizione un roster migliore di quello capitato in sorte a D’Antoni, che, perso colpevolmente Dwight Howard, si trovò ad allenare una masnada di giocatori raccolti dal marciapiede.
Alcuni di loro sono ancora a roster, e va registrato l’addio di Pau Gasol, che si è accasato a Chicago, ma sono arrivati Julius Randle, l’esplosiva ala forte di Kentucky, Carlos Boozer, Ed Davis, Jeremy Lin e Jordan Clarkson.
Alla fine, i Lakers hanno conservato buona parte del roster dello scorso anno, sostituendo alcuni elementi e, nel complesso, mettendo insieme una rosa che, se non migliore, è senz’altro più sensata (e futuribile) di quella che Buss e Kupchak avevano dovuto comporre alla bell’è meglio l’estate scorsa.
I difetti sono evidenti: Los Angeles ha poche certezze e molti punti interrogativi. Con tanti giocatori dalla carriera ondivaga, è impossibile predire se e come riusciranno a giocare leggendo lo stesso spartito, mantenendosi costanti nell’arco della Regular Season, o se, invece procederanno a strappi, secondo l’ispirazione.
Sono tutti giocatori che, nella situazione giusta, potrebbero fare bene, ma i Lakers partono da zero, quindi l’impatto di ciascuno è un’incognita, ulteriormente amplificata dal contesto incerto.
La rotazione, che vanta alcuni swing-man tra gli esterni, è viceversa povera sotto a canestro: gli unici due shot-blocker a disposizione sono Hill e Sacre, che, oltretutto, sono giocatori d’impatto offensivo veramente modesto. È possibile che Scott abbia intenzione di provare anche Davis, ma l’ala proveniente da Memphis non è un centro naturale, e se dovesse infortunarsi qualcuno (negli ultimi anni non è successo di rado), la profondità di una panchina non irresistibile sarebbe messa a dura prova.
Rispetto all’anno scorso, Los Angeles ha aggiunto (di fatto) Kobe Bryant; l’ex di Lower Merion è un leader esperto e carismatico, e porterà un po’ della stabilità di cui i Lakers hanno disperato bisogno. Dovesse essere anche solo al 70% rispetto alle sue ultime apparizioni (quando, giova ricordarlo, stava esprimendo il miglior basket dai tempi delle Finali e forse anche prima), sarà la colonna portante del gioco di Byron Scott, che fu suo mentore nel lontano 1996, quando Kobe era il rookie e Scott il veterano trentaseienne che spendeva le ultime cartucce di una gloriosa carriera.
Quali che siano le sue condizioni fisiche, è lecito scommettere che Bryant riuscirà ad essere un fattore, ricorrendo alla sua sottovalutata duttilità: nell’ultima stagione giocata, iniziò con la Princeton Offense, tirando meravigliosamente, per poi riciclarsi playmaker con il passare dei mesi.
Kobe ha parlato di trovare il modo per essere più “efficiente”, e il richiamo alle statistiche avanzate può far presagire che, da studente del gioco, Bryant abbia usato le statistiche di nuova generazione per capire quali tiri prendere, e dove. Ha citato, tra i giocatori modello, Paul Pierce, che ha raffinato un gioco di finte, passi d’incrocio e quant’altro, per ovviare all’ormai sfumato atletismo.
I Lakers partiranno dall’intesa tra Bryant e Scott; già nel 2002 Kobe disse che, dopo Jackson, gli sarebbe piaciuto essere allenato da Byron, e anche se in quel momento Scott sembrava destinato a ben altra carriera (portò in Finale i Nets e sembrava l’astro nascente delle panchine NBA), la stima tra i due è intatta, e gioverà nella costruzione, per nulla agevole, di un nucleo che dovrà ovviare ad alcune deficienze con l’applicazione e il duro lavoro.
Scott ha già messo in chiaro che si inizierà dalla difesa, dichiarando che “l’unica cosa che puoi davvero controllare dei giocatori sono i minuti. Questo cattura la loro attenzione. Se non sei là fuori a giocare come penso che tu sia capace di fare, o come dovremmo, dovrò cercare altri giocatori disposti a farlo”.
Non esattamente un manifesto “Jacksoniano” (posto che Phil Jackson non lo diceva, ma lo faceva), e una chiara e netta inversione di marcia rispetto alla mentalità di D’Antoni, che ha sempre subordinato la difesa all’attacco, dove Scott ha anticipato che rispolvererà i principi di Princeton Offense che già usava ai tempi gloriosi dei New Jersey Nets.
Aspettiamoci quindi numerosi schieramenti con quattro giocatori fuori, e uno solo dentro per sfruttare le corsie di penetrazione (posto che, nella prima azione di Pre-Season, a San Diego, i Lakers hanno eseguito una perfetta azione di Attacco Triangolo, con tanto di ricezione al gomito per KB24).
Ai Lakers, disporrà di una rosa che non ha dei lights-out-shooters (eccezion fatta per Bryant, Nash), difetto che Los Angeles potrebbe pagare a caro prezzo, con buona pace di Magic Johnson (ha detto di poter vivere felice senza veder la squadra tirare un’altra tripla), perché nel basket odierno occorre saper usare il tiro dalla lunga distanza per aprire il campo, pena, trasformarsi in una squadra con alto volume di tiro dalla media distanza.
Lungi dal pretendere di usare l’intero play-book di Pete Carril, Scott ne adotterà soltanto alcune soluzioni. Sicuramente in casa Lakers non mancano i passatori per far funzionare un sistema del genere, ma in ogni caso, non è l’attacco a destare le maggiori perplessità, bensì la difesa, che è reduce dal 28esimo posto quanto a defensive efficiency, e trentesima quanto a punti concessi in verniciato.
Conscio dell’assenza di un vero intimidatore (Hill è uno stoppatore alla Chris Andersen, cioè di limitato giudizio cestistico, e Sacre è un giocatore il cui ruolo NBA non può che essere circoscritto), la guardia dello Show-time ha anticipato l’intenzione di adottare un sistema basato sull’help-the-helper (in soldoni, rotazioni continue) per togliere le linee di penetrazione, ma che è fisicamente dispendioso.
Scott, peraltro, è celebre per la sua attitudine in stile “Full Metal Jacket” quanto ad allenamenti. Si narra che ai suoi training camp ci siano secchi per vomitare, tale è il carico al quale sottopone i suoi giocatori. Del resto, il suo maestro e mentore è Pat Riley, un monumento dello sport di L.A., che però s’inventò degli allenamenti massacranti prima della Finale 1989, contribuendo alla serie di infortuni a catena che consacrò i Pistons campioni del mondo.
Sarà interessante vedere come si adatteranno a tutto questo Swaggy P (al secolo Nick Young), che viene da una stagione durante la quale ha impressionato positivamente, e Jeremy Lin, che è storicamente un cattivo difensore sulla palla.
Forse un sistema di aiuti lo aiuterà maggiormente a mascherare i suoi difetti, mentre Young è stato elogiato da Scott per i miglioramenti messi in mostra (attacco/difesa) nell’ultimo anno, e ha già detto di volerlo usare da sesto uomo, nella speranza che confermi la propria maturazione cestistica. Young non inizia nel migliore dei modi, con un infortunio ai legamenti della mano che lo terrà in panchina per almeno un mese e mezzo (ma che, se non altro, gli consente di continuare a correre e allenarsi).
I Lakers dovranno anche costruire una rotazione nel ruolo di ala piccola, dove potrebbero alternarsi Xavier Henry (che prima d’infortunarsi, s’era rivelato un’eccellente pesca) e Wesley Johnson, che è alla stagione della verità. Entrambi sono giocatori di talento, che però non hanno ancora un’identità precisa a livello NBA.
Le guardie sono il reparto migliore di Los Angeles, che hanno buon talento e discreta profondità. Oltre a Lin (che è in predicato di sostituire Nash nel quintetto), Young, Bryant e Nash, infatti, i Lakers hanno messo a contratto il rookie Jordan Clarkson, combo-guard interessantissima, e hanno firmato Wayne Ellington, che aveva già giocato per Scott a Cleveland.
L’attenzione sarà tutta su Lin: nessuno gli chiede di tornare quello della Linsanity, ma di essere meglio della copia sbiadita vista a Houston, questo sì. Allenato da Scott, che ha gestito bene Kyrie Irving, Chris Paul e Jason Kidd, e in contract-year, Jeremy è chiamato a una stagione importante.
Los Angeles ha inoltre firmato Ronnie Price (che piace molto a coach Scott per l’atteggiamento difensivo), e l’ennesima addizione nel settore delle guardie potrebbe forse lasciar presagire lo slittamento di Bryant nello spot di ala, che, come detto, è decisamente scarno.
Dal canto suo, Kobe sta facendo da mentore a Lin, che ha detto “è bello avere qualcuno che ti incoraggia e che ti spinge a fare meglio, e se è uno dei più forti di sempre a farlo, meglio ancora, incluso l’aspetto difensivo“.
Già l’anno passato Bryant si era preso l’incarico di diventare il coach motivazionale di Young (missione compiuta). Quest’anno l’abbiamo visto, in allenamento e in pre-season, parlare molto con Lin, ma anche con Randle e con Johnson, che ha passato l’estate a lavorare con il Mamba.
Sotto canestro invece, Scott sta valutando se dare la maglia da titolare a Carlos Boozer, che non è più quello di una volta, ma ha esperienza da vendere (e a tre milioni, è tutt’altro che un brutto affare), o se lanciare il diciannovenne Julius Randle, consentendogli di crescere, sopportando gli inevitabili errori da rookie che commetterà.
L’arrivo di Boozer (che Scott ha indicato come probabile starter) non è stato accolto benissimo dal pubblico, e va detto che, se lui e Gasol sono in declino e hanno la stessa percentuale di rimbalzi disponibili catturata (16.4% del catalano contro il 16.8% di Carlos), Pau è superiore in ogni altro aspetto statistico, oltre ad essere un partner potenziale molto più compatibile con le caratteristiche di Julius Randle: giocatore esplosivo, dotato di grande stacco da terra, velocità e palleggio mancino (e quest’estate ha lavorato per migliorare anche con la mano destra), ha impressionato per i movimenti in avvicinamento, ma dovrà registrare il salto di qualità tra NCAA e NBA.
Ha testa e fisico per essere un fattore anche in difesa, dove un meccanismo help-the-helper potrebbe magnificare le sue splendide doti atletiche e il suo tempismo in stoppata d’aiuto, ma l’età lascia presagire che ci vorrà pazienza.
Dietro a loro, reclamerà spazio Ryan Kelly, che durante l’estate si è dato da fare per cercare di diventare più resistente.
A completare il quintetto ci sarà presumibilmente Jordan Hill, un energy-player che D’Antoni ha valorizzato e che però non è un cestista capace di grandi letture (offensive, ma anche difensive), e non ha buona tecnica.
Ed Davis (che, firmato ad un milione di dollari, è un gran affare) è un giocatore molto più intelligente e abile, ma è un 4 naturale. Se il meccanismo difensivo di aiuto all’aiuto dovesse funzionare, i Lakers potrebbero anche pensare di giocare con Davis solo sotto le plance, viceversa, sarebbero molto vulnerabili. In ogni caso, quello di 5 sarà uno spot che, con tutta probabilità, i Lakers proveranno a colmare “per comitato” e non con un solo giocatore.
L.A. si accinge a disputare una stagione forte di poche certezze, ma se seguiranno la guida di Scott e Bryant, questi ragazzi potrebbero sorprendere: hanno un buon mix di veterani e giocatori giovani, atletismo ed esperienza, ma per fare i Playoffs serve che tutto s’incastri alla perfezione, trasformando i programmi di Byron Scott in realtà.
Comunque vada a finire, la stagione 2014-15 dovrebbe essere diversa da quella appena trascorsa: i nuovi Lakers manterranno desta l’attenzione del pubblico, ma i fans dei gialloviola si preparino a 82 partite da vivere pericolosamente, perché se l”anno zero” è alle spalle, la strada per tornare ad essere i veri Los Angeles Lakers è ancora decisamente lunga.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.
Bene, speriamo di non avere un pò meno mal di stomaco a gaurdarli gioca. Scrivimi che magari cerchiamo di mettere in piedi un coverage settimanale della stagione!