Dopo 17 stagioni di NBA, fitte di momenti memorabili e insuccessi, Chauncey Ray Billups ha annunciato il proprio ritiro.
“È ora. Lo so. La voglia c’è ancora, ma non posso ignorare d’aver avuto problemi fisici per tre anni consecutivi. Potrei provarci ancora e convincermi di riuscire a farcela, ma non posso sopportarlo. Quando non giochi più come potevi, sai che è giunto il momento di smettere”.
Andiamo a ripercorrere la carriera di un giocatore speciale, che, a modo suo, ha scritto una pagina importante di storia NBA.
Billups è un prodotto di Denver, Colorado, dove mosse i suoi primi passi cestistici, e volle rimanere anche quando il suo talento gli avrebbe consentito approdi prestigiosi, come Georgia Tech, Kansas o Oklahoma State.
A Denver Chauncey è per tutti Smooth (morbido), soprannome appioppatogli da coach Bobby Wilkerson, che lo allenò alle elementari, e che vinse un titolo NCAA con Indiana (oltre ad aver giocato per i Nuggets).
Allo Hiawatha Davis Rec Center, Billups imparò i primi rudimenti di pallacanestro giocando contro gente molto più grande e venendo regolarmente battuto.
All’epoca nessuno si aspettava che diventasse un cestista di livello, ma tanto, tantissimo lavoro, gli ha consentito di scalare le posizioni dei ranking, prima in Colorado, e poi a livello nazionale, con la maglia di George Washington High School, ottenendo, come detto, l’attenzione dei grandi atenei, ma decidendo di rimanere vicino a casa, con i Colorado Buffaloes.
“Alle scuole medie e alle superiori, il mio obiettivo era andare al college. I miei genitori non potevano permetterselo, ed io, per paura di non riuscire a frequentare l’università, lavoravo duramente. Il basket era il mio mezzo per andare al college”.
Poi, siccome l’appetito vien mangiando, “Al college ho rivisto i miei obiettivi e puntato alla NBA. Non sapevo se fosse possibile, ma miravo a quello”.
A Colorado Chauncey visse due splendide stagioni, chiudendo il 1997 con 19 punti di media e sfiorando i 5 rimbalzi e 5 assist che sono la misura dell’eccellenza per una guardia tiratrice, venendo nominato nell’All-Team della Big 12, e vincendo anche la prima partita di NCAA dei Bufali in oltre trent’anni.
Arrivato in NBA da terza scelta assoluta del draft 1997 come un progetto di combo-guard, Billups venne presto accantonato da Rick Pitino, suo primo allenatore nel mondo pro, che lo scambiò con Kenny Anderson.
Per Pitino, come per moltissimi altri addetti ai lavori, Billups era il classico giocatore intrappolato tra due ruoli: potente come una guardia tiratrice, ma senza la relativa taglia, non sufficientemente atletico e tecnico per giocare playmaker, Smooth era destinato a una vita professionale onorevole ma anonima.
Iniziò così la carriera errabonda di un giocatore senza ruolo: Toronto, poi Denver, casa sua, dove si vide preferire il mercuriale Nick Van Exel. A Orlando non giocò mai, e a Minneapolis faceva la riserva del non irresistibile Terrell Brandon.
Billups è stato per tanti anni un journey-man; bravo, per carità, ma non abbastanza per affidargli le chiavi di una squadra. Il genere di giocatore che piace agli allenatori, perché prende decisioni corrette, non forza, si sbatte, ma del quale non ci si fida fino in fondo, preferendo l’estro all’applicazione.
A Minneapolis però, Smooth incontrò per la prima volta gente disposta a dargli fiducia. Sotto l’ala di Sam Mitchell e Terrell Brandon, oltre che dell’amico Kevin Garnett, Chauncey pose le basi per i suoi successivi miglioramenti.
Joe Dumars, che a Detroit stava assemblando una squadra basata sul collettivo, vide qualcosa in quel torello (la forza fisica di Billups è leggendaria, e scorre in famiglia: suo cugino LenDale White era un running-back NFL) che faticava a consolidare il proprio ruolo, e che vestiva il numero 4 in suo onore.
Chauncey prese il posto di Chucky Atkins e divenne immediatamente un idolo locale, perché il pubblico si riconosceva in quel proletario del parquet in cerca di riscossa.
Sotto coach Rick Carlisle, Billups fiorì all’improvviso, passando da 12.5 punti di media a 16.2. Chauncey, che era sempre stato in bilico tra il quintetto e la panchina, non era più un giocatore in discussione.
La sua sicurezza nacque con Carlisle, ma si consolidò con Larry Brown, che lo confermò come suo braccio destro in campo, spiegandogli come non servissero le statistiche per dominare il gioco.
In pochi anni Billups crebbe come giocatore, forte di certezze mai avute prima, trasformandosi in un leader autentico. Mutamenti che rimasero sottotraccia, invisibili ai più (incluso chi vi scrive).
Quando, nel 2004, i suoi Pistons sorpresero tutti raggiungendo le Finali, Billups non aveva ricevuto nemmeno un voto come MVP della regular season, e Detroit non godeva d’alcun credito.
Quella squadra, che sulla carta doveva essere la vittima sacrificale sull’altare della maggior gloria dei Lakers, sorprese tutti e smantellò in cinque partite lo squadrone dei giallo-viola, alle prese con l’infortunio di Malone e i propri demoni.
Rubarono Gara 1 in trasferta, si rialzarono dopo il pugno da knock-out inferto da Kobe, che segnò una bomba allo scadere per mandare Gara 2 al supplementare, e completarono l’opera con 3 partite perfette al Palace of Auburn Hills.
Billups dispose a piacimento di Gary Payton (non esattamente l’ultimo arrivato), e vinse, con 21 punti di media e il 50% dal campo, un inatteso MVP delle Finali.
Chauncey non ha mai avuto i mezzi fisici per dominare. Non è mai stato un penetratore incontenibile, e nemmeno un genio del passaggio alla Steve Nash, ma è sempre stato un giocatore capace di dare i giri giusti al motore della propria squadra.
Non è mai stato neppure un difensore di alto livello, ma anche nella metà campo difensiva Billups si è elevato oltre i propri limiti usando quell’intelligenza tattica che forse non gli viene riconosciuta a sufficienza.
Nel 2005 i Pistons ebbero la chance di ripetersi, replicando l’impresa di un’altra edizione dei Bad Boys, quella capitanata da Isiah Thomas e Joe Dumars, capaci di vincere in back-to-back nel 1989 e 1990.
Persero solo in Finale, dopo 7 gare uniche per qualità tecnica, che videro contrapposti Rasheed Wallace e Tim Duncan, Billups e Parker, i riccioli di Rip Hamilton e le penetrazioni corsare di Manu Ginobili, la difesa di Prince e quella di Bowen.
Ci volle un Robert Horry in stato di grazia per far pendere l’ago della bilancia in favore degli Spurs, e per i Pistons iniziò un periodo di dorato declino. Larry Brown lasciò, inseguendo le luci di New York, e venne sostituito da Flip Saunders, che aveva allenato Chauncey anche ai tempi dei T-Wolves.
Inutile dire che fu Billups a guidare la transizione, semplificando la vita al nuovo coach, e spianando la strada per una Regular Season memorabile (bilancio di 64-18), finita però con la deludente sconfitta patita per mano dei Miami Heat, a due gare dalla terza Finale consecutiva. Un anno dopo, ancora in Finale di Conference, furono i Cleveland Cavs a superare i Pistons, seguiti nel 2008 dai Boston Celtics dell’amico KG.
All’inizio della stagione 2008-09 venne il momento di cambiare, sia per Billups sia per i Pistons, bisognosi di ricostruire. Chauncey tornò in Colorado, scambiato con Allen Iverson, riguardo al quale, dopo i deludenti Playoffs del 2008, i Nuggets nutrivano più perplessità che certezze.
Denver era una realtà giovane e reduce da una stagione da 50 vittorie, e coach George Karl voleva un veterano che portasse stabilità e ordine, anziché indisciplina e talento.
“Quando sono arrivato, evidentemente gli altri hanno visto in me uno giocatore altruista, che non bada solo a sé ma pensa soprattutto a vincere, si sono forse fatti qualche domanda e hanno cominciato ad apprezzare”.
Con Billups, i Nuggets diventarono la seconda potenza dell’Ovest. Raggiunsero le Finali di Conference (la settima volta consecutiva per Billups) solo per esser sconfitti dai Los Angeles Lakers di Bryant e Gasol al termine di una serie combattutissima (mentre i Pistons uscirono per 4-0 al primo turno).
Se a Detroit ormai gli si chiedeva di fare l’eroe dell’ultimo tiro (da cui il soprannome di Mr. Big Shot), ai Nuggets Chauncey ebbe modo di rimettere in mostra il meglio del proprio bagaglio tecnico. Di là da punti e passaggi, Billups portò raziocinio in una squadra scriteriata, facendola crescere, alternando run-and-gun e attacchi più ragionati e freddi.
Due anni più tardi Billups sarebbe stato scambiato con i Knicks insieme a Carmelo, poi, amnistiato, scelse i Clippers, dove rimase per due stagioni facendo da mentore a Chris Paul pur giocando poco, a causa degli infortuni. Nell’ultima stagione è tornato a Detroit, per quella che, con il senno di poi, è stata la sua ultima, breve passerella NBA.
Subito dopo l’annuncio di voler appendere le scarpe al chiodo, ci si è chiesti, com’è naturale, quale sia il lascito NBA di Billups, e quali siano le sue chance di accedere alla Hall of Fame.
Con cinque All Star Game, un MVP delle Finali, innumerevoli premi individuali, è lecito credere che la Hall of Fame sia alla portata di Chauncey, che, d’altronde, sarebbe altrimenti l’unico MVP di una Finale a non esservi ammesso.
“La Hall of Fame sarebbe un sogno, perché ti segna come uno dei più grandi giocatori di sempre. Non era la mia ambizione, ma sarebbe fantastico; in cuor mio, so d’aver avuto una carriera meritevole di questo riconoscimento. Se date un’occhiata alla lista degli Hall-of-Famer, non so quanti di loro abbiano avuto un inizio di carriera come il mio, per poi arrivare in cima”.
Certo, è strano pensare che un giocatore del suo calibro possa aver cambiato dieci volte squadra, e che sia stato considerato così poco per tutta la prima parte di carriera. Tuttavia, quel che Billups ha fatto, di là dai numeri e dei riconoscimenti, è innegabile: leader capace di portare sette volte consecutivamente la propria squadra in Finale di Conference (impresa riuscita, in epoca moderna, solo a Magic, Rambis, Cooper e Kareem), ha fatto giocare bene (e ha giocato benissimo individualmente) sia un collettivo come quello dei Pistons, sia una formazione che aveva una bocca di fuoco principale (Carmelo Anthony) come Denver, e agli ordini di allenatori molto diversi tra loro come Carlisle, Brown, Saunders e Karl.
Billups è stato un grande giocatore, a dispetto del talento limitato, e bisogna chiedersi che cosa decreti la grandezza di un giocatore: la spettacolarità e il talento, o l’effettiva capacità di concretare il potenziale, sublimandolo nella squadra?
Billups è l’esatto opposto della one-man-band, è un singolo che da solo può poco, ma che esalta e si esalta nel gruppo. Insomma, un monumento alla caparbietà e all’altruismo, lo spot perfetto di quei valori che lo sport dovrebbe trasmettere.
Chauncey si è issato dove sembrava impossibile arrivasse, ignorando, come ha detto lui stesso, i tanti “no” che si è sentito dire, continuando a lottare anche quando i suoi stessi allenatori non si fidavano di lui.
Che cosa lo attende a questo punto della sua vita? Non allenare, non subito, almeno; Chauncey vorrebbe iniziare facendo il telecronista o magari lavorando in qualche front-office.
Non si smentisce mai, Billups, ancora modesto come il primo giorno, pronto a prendere quel che il destino ha in serbo, senza mai pretendere prima di aver dato tutto.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.
Bell’articolo, giocatore tosto, si potrebbe dire la nemesi di The answer
Grazie!