E’ durato 1463 giorni il regno di LeBron James ai Miami Heat. In questi 4 anni sono arrivate 4 apparizioni in fila alle Finals e 2 titoli NBA consecutivi, infrangendo record e attentandone altri.
Il Repeat è successo solo 7 volte negli ultimi 40 anni ed il poker di NBA Finals disputate includono gli Heat in quella ristretta cerchia di squadre che fino ad adesso era composta da Los Angeles Lakers (dal 1982 al 1986) e Boston Celtics (quelli dei 9 titoli negli anni ’60). Solo i San Antonio Spurs, in questo lasso di tempo hanno vinto più partite di regular season – 231, contro le 224, sulle 312 disponibili – ma nessuno ha giocato e vinto più partite di playoff dal 2010 fino al 2014 della franchigia di South Beach.
Certo, le due sconfitte contro Dallas nel 2011 e San Antonio nel 2014 pesano per i modi in cui sono avvenute, ma non possono cancellare le pagine di storia scritte dai Miami Heat in questi 4 anni passati sempre al vertice.
E’ iniziato tutto una sera di luglio del 2010, quando LeBron James in mondo visione annunciò di portare i propri talenti a South Beach lasciando di stucco New York, Chicago ma soprattutto Cleveland ed i tifosi che fino a quel momento avevano un motivo per non odiare la città e lo stato dell’Ohio. I Miami Heat formarono i Big Three e diventarono all’istante la squadra più odiata della lega, facendo di tutto per farsi odiare ancora di più.
Il percorso che ha portato gli Heat nell’olimpo della lega non è stato affatto facile nonostante i proclami iniziali. Assemblare e amalgamare tutto quel talento ha richiesto due anni di sacrifici, di alti e bassi e di cocenti delusioni prima di trovare il bandolo della matassa.
Chi in passato ha provato a fare altrettanto ha fallito, come i Lakers nel 2004, o non ha avuto un’ampia finestra temporale per durare a lungo, come i Celtics nel 2008. Ci hanno provato nuovamente i Lakers nel 2012 con Nash-Bryant-Howard e i Nets nel 2014 con Williams-Johnson-Pierce-Garnett, ma il loro fallimento è ancora fresco nella mente dei tifosi.
Il grande artefice di tutto questo è stato senza ombra di dubbio Pat Riley, colui che in 20 anni a Miami ha costruito e modellato a sua immagine e somiglianza gli Heat trasformandoli da squadra barzelletta che erano negli anni ’90 in uno degli ambienti più solidi e vincenti del nuovo millennio.
Con una figura così carismatica ed influente gli Heat post-Decision sono cresciuti come squadra, sia a livello tecnico che a livello mentale, nonostante la forti pressioni esterne e l’enormi difficoltà iniziali che più di una volta hanno minato il percorso verso la grandezza.
Non ci sono state scorciatoie, tutto è stato guadagnato con il sudore delle fronte, l’abnegazione e il lavoro in palestra. Ogni stop è servito ad accrescere il senso di unità e di appartenenza che ha spinto ogni membro della squadra a migliorarsi nel corso di questi 4 anni.
In questo lasso di tempo LeBron James è diventata la più performante macchina da basket dell’ultimo lustro, uno dei pochi giocatori al mondo capace di migliorarsi e di pari passo migliorare i compagni di squadra.
La sua evoluzione, e quella di Dwyane Wade e Chris Bosh è stata straordinaria. I primi Miami Heat erano tutto energia e prepotenza fisica, ovvero tutte caratteristiche che si sposavano bene con il tipo di difesa impostato da Erik Spolestra, per cui bastava recuperare un pallone o stoppare un tiro per volare in contropiede, dove la premiata ditta James & Wade era inarrestabile. Tutt’altro discorso era invece l’esecuzione offensiva a metà campo dove trovare le giuste sinergie ha richiesto del tempo.
Il primo anno servì a porre le basi. Una partenza difficile, alla ricerca della chimica giusta, poi un rullo compressore fino alle finali NBA con un perentorio 4-1 contro Celtics e gli ultimi Bulls di Derrick Rose sano.
Quegli Heat erano però una squadra corta e non ancora pronta a vincere: gli infortuni tolsero di scena per gran parte della stagione Udonis Haslem e Mike Miller mentre il contorno, infarcito di veterani oramai al capolinea, non fu all’altezza.
I Mavericks, più squadra e più umili, colsero la palla al balzo e inflissero la più severa delle lezioni. Sopra 1 a 0 nella serie con gara 2 quasi in ghiaccio, Wade e James pensarono bene di dare il via ai festeggiamenti. Errore.
I Mavs trascinati da Dirk Nowizki e Jason Terry fecero ingoiare il primo di tanti bocconi amari in quelle Finals, pareggiando la contesa. Dopo quella botta gli Heat rimasero senza certezze, LeBron sparì sistematicamente nei quarti decisivi nelle partite successive ed a festeggiare furono i texani.
Dopo la sconfitta si aprirono inchieste su inchieste, gli haters puntavano il dito contro LeBron James, che aveva fallito nuovamente, e la stampa verso Erik Spoelstra, inadeguato a guidare quella squadra di campioni.
Pat Riley invece sapeva che la squadra non aveva ancora raggiunto la piena maturità che si acquisisce con il tempo e il vero problema era la panchina corta e poco funzionale. Per questo la notte del draft riuscì a ottenere Norris Cole dai Chicago Bulls e si presentò all’inizio della free agency 2012 strappando alla concorrenza Shane Battier.
I Miami Heat che si presentarono al via della stagione accorciata dal Lockout erano una squadra nuova, completa, in missione.
Alla prima palla a due stagionale, la notte di Natale, nel remacht della Finals spazzarono via i Mavericks e non si fermarono più.
Gli Heat non erano solo difesa e contropiede. Il loro attacco nel frattempo si era evoluto, LeBron James si mise a giocare in post basso, Bosh accettò di giocare centro cambiando completamente stile di gioco e Wade sviluppò un efficientissimo gioco senza palla.
I playoff nel 2012 rispecchiarono in tutto e per tutto questi cambiamenti. Non furono una passeggiata, perchè l’infortunio di Chris Bosh mise in serie difficoltà gli Heat contro i Pacers e LeBron James, a un passo dall’eliminazione in finale di Conference sotto 3-2 contro i Celtics, dovette indossare la faccia più cattiva mai vista su un campo da basket per portare gli Heat alla seconda Finale NBA consecutiva.
Memori della bastosta subita 12 mesi prima gli Heat non si sciolsero dopo la prima sconfitta a Oklahoma City per mano di un pazzesco Kevin Durant, ma piazzarono 4 vittorie consecutive, una più clamorosa dell’altra, con un LeBron James a livelli stratosferici, e gli zampini decisivi dei vari Bosh, Battier, Miller e Chalmers nei momenti più opportuni.
Il titolo vinto servì a togliere pressione, ma il sapore della vittoria crea dipendenza, e con un Ray Allen e un Chris Andersen in più nel motore, non avevano voglia di abdicare. Esprimendo il miglior basket di questi 4 anni con la chicca delle 27 vittorie consecutive in regular season, nonostante il cuore dei Chicago Bulls e la feroce resistenza degli Indiana Pacers, gli Heat raggiunsero nuovamente le finali, dando battaglia ai San Antonio Spurs in una delle finali NBA più belle e epiche di sempre.
Il grande equilibrio, il blizt degli Spurs e di Parker in gara 1, la gragnola di triple di Danny Green e Gary Neal nelle gare in Texas, lo scontro tra Dwyane Wade e Manu Ginobili, il canestro di Ray Allen in gara 6 e il miglior LeBron James si sempre in gara 7 rimarranno momenti scolpiti a fuoco nella storia di questo gioco, il più grande spettacolo di basket da tempi immemori.
L’ultima stagione non è stata all’altezza delle precendenti. Nonostante il cammino trionfale verso le 4° Finals consecutive si era perso quello spirito di fratellanza che aveva contraddistinto le ultime due cavalcate vincenti e che secondo Shane Battier, era stata la chiave dei loro successi.
All’appuntamento più importante gli Heat si sono sciolti come neve al sole contro il grande basket collettivo giocato dai San Antonio Spurs che non ha lasciato scampo a una squadra arrivata in finale in condizioni fisiche precarie (Andersen a mezzo servizio, James stremato dagli extra richiesti in stagione, Battier completamente finito ecc…) ma soprattutto mentalmente appagata, peccato capitale contro la voglia di vendetta degli speroni.
Personalmente, da tifoso Heat, sono stati 4 anni ricchi di soddisfazioni. Porto nel cuore ogni singolo giocatore sceso in campo e che abbia contribuito ai successi conseguiti in questi anni.
Ho ammirato LeBron James diventare un leader e il più forte giocatore del pianeta, ho ammirato l’evoluzione di Chris Bosh e il gioco senza palla di Ray Allen.
Ho amato e odiato Mario Chalmers una quantità indescrivibile di volte, mi sono emozionato ad ogni sfondamento subito e tripla messa e segno di Shane Battier e Mike Miller, ho apprezzato il cuore di Udonis Haslem, l’energia di Chris Andersen, la durezza di Joel Anthony, la difesa e la faccia tosta di Norris Cole.
Ho imprecato alle forzature di Wade per poi perdonarlo subito l’azione successiva.
Ho visto un coach con poca esperienza e tanta pressione addosso ribaltare più di una volta a suo vantaggio situazioni difficili con il carisma e la naturalezza di un veterano uscendo dall’ombra ingombrante di Pat Riley e uno staff tecnico fare autentiche prodezze per mettere tutti nelle condizioni di dare il meglio.
Tutto questo poteva continuare per almeno un’altro anno ma LeBron James ha deciso di tornare a Cleveland, una scelta di cuore, per riprendere quel discorso interrotto nel 2010. Dopo il panico iniziale in cui Riley, Spoelstra e Andy Elisburg (il braccio destro di Riley) chiusi in ufficio si districavano tra telefonate e lunghe attese, si è aperto in Florida un nuovo capitolo.
Le strade da percorrere erano due: smantellare il vecchio roster e rifondare attorno alle bandiere e “HeatLifer” Wade e Haslem, mettendo in preventivo 2/3 di limbo prima di riaffacciarsi al basket che conta con un nuovo ciclo, oppure reinventarsi, puntando il tutto per tutto sullo spirito di rivalsa, sulla vecchia guardia e cercando il miglior sostituto di LeBron James possibile.
Pat Riley era stato chiaro in conferenza stampa appena dopo le ultime Finals con il suo motto “Retool, not rebuilding”. Riley ha trattenuto Chris Bosh che pareva destinato a Houston e lo ha ricompensato con un contratto che vale oltre 20 milioni a stagione per i prossimi 5 anni, ha trovato l’accordo con Dwyane Wade e Udonis Haslem ed ha riportato in Florida i propri pretoriani Mario Chalmers e Chris Andersen che parevano destinati altrove.
Sul mercato dei Free Agent ha fatto fruttare al massimo tutto lo spazio salariale a disposizione inchiostrando due giocatori di complemento come Josh McRoberts e Danny Granger e convincendo Luol Deng a scegliere Miami nonostante l’agguerrita concorrenza di Houston, Dallas e Phoenix. E per la prima volta dal 2011, gli Heat hanno aggiunto a roster talento fresco e futuribile con Shabazz Napier, James Ennis e Justin Hamilton.
Si riparte da Wade, Bosh, Spoelstra e gran parte della squadra che ha disputato le ultime 2 Finals.
La perdita di James è stata una botta enorme, ma gli Heat anzichè abbattersi hanno alzato la testa, e si sono posti nuovi obbiettivi, nuovi stimoli.
Fare le cose in grande e non adagiarsi sugli allori, puntare in alto come da prassi ed accettare il responso del campo consci di averci messo tutto l’impegno possibile per arrivare più avanti possibile e il non accontentarsi mai saranno i “leit motiv” della prossima stagione. Lo ha detto anche Mickey Arison, patron degli Heat, in un messaggio rivolto agli abbonati: “We are not done, not even close”.
Voi ve la sentireste di scommettere contro i Miami Heat?
Segue la NBA dal 1995, quando venne folgorato da Harold Miner durante la gara della schiacciate e divenne tifoso Heat.
Scrive e dirige assieme agli amici Jasone e Scrumble il sito wewantheat.playitusa.com.
Gli articoli che trovate su playitusa potete leggerli anche nel suo blog personale, cosedibasket.wordpress.com!
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L evoluzione di bosh? Secondo ne nn sei fatto x fare il giornalista
Articolo piacevole, con diverse inesattezze/omissioni dettate dal cuore, ma nel complesso apprezzabile. Non sono d’accordo con il precedente commento: hai un bello stile,gradevole. Dovresti provare a scrivere di una squadra di cui non sei tifoso, ne guadagnerebbero i contenuti
ti ringrazio. Ti invito a seguire il mio blog, in cui parlo (tanto) di NBA e (poco) di Heat. Ciao
http://www.basketball-reference.com/players/b/boshch01.html a mio avviso (notare la position estimate) l’evoluzione vera di bosh come centro inizia dai playoff 2013, con battier in quintetto al posto di haslem durante le finali, perchè finchè bosh non si è fatto male contro Indiana Miami giocava con 2 lunghi e comunque non esprimeva il basket favoloso di squadra che ha espresso l’anno dopo con grande circolazione di palla e una difesa basata (forse per la prima volta nella storia NBA) sulla capacità di recupero orizzontale dei giocatori e non sulla verticalità. La pallacanestro vincente di Miami senza centri ma con un quasi 5-fuori da minibasket inizia nelle finali contro i Thunder in cui Ibaka doveva marcare Battier fuori dalla linea dei 3 punti (infatti fu devastante da 3)
p.s la foto di the shot è sbagliata, è un tiro con 4 minuti sul cronometro e 21 secondi da giocare su quello dei 24
la nascita degli Heat di Bosh da 5 è nelle Finali di Conference contro i Celtics del 2012 quando ci fu bisogno di reinserirlo gradualmente dopo l’infortunio.
Cmq già da prima Spoelstra era ricorso al quintetto con lui unico lungo e Battier da 4, anche se solo per variare tatticamente certi quintetti nei 4/4°.
Diciamo che da dopo le ECF e la finale contro Thunder Bosh da 5 è stata la regola e non l’eccezione.
Concordo inoltre con te sulla peculiarietà della difesa Heat, orizzontale anzichè verticale.
Per quanto riguarda “Fra”: non sono un giornalista. Dimmi cosa c’è di errato nella frase “l’evoluzione di Bosh”.
Per quanto riguarda le foto pure quella dei festeggiamenti del titolo 2014 è sbagliata: infatti ci dovrebbere essere gli Spurs immortalati ;-) Comunque bell’articolo, ora gli Heat mi stanno meno antipatici.