Ad un primo sguardo, il parallelo tra LeBron James e Shaquille O’Neal può sembrare azzardato, ma, al di là degli aneddoti (entrambi sono stati cresciuti da ragazze madri, entrambi sono arrivati in NBA da scontate prime scelte, portando in Finale squadre di relativo blasone, perdendola per 4-0 contro due squadre texane, per poi cambiare aria e vincere a ripetizione), tra i due è possibile tracciare un parallelo tecnico che percorre la storia degli ultimi vent’anni di NBA.
GLI ESORDI
Figli di due ragazze madri (Gloria James e Lucille O’Neal), Shaq e LeBron condividono un’infanzia che, dopo le iniziali difficoltà, trovò stabilità nell’incontro con delle figure paterne: per O’Neal, fu il Sergente Phillip Harrison. Per LeBron, due allenatori locali di Football: Bruce Kelker, e Frank Walker. Può sembrare banale, ma in un mondo, quello degli afroamericani, in cui tantissimi ragazzi crescono con un solo genitore, la presenza di Harrison e Walker ha giocato un ruolo chiave nel plasmare il carattere dei due ed evitare derive pericolose. LeBron dormiva sui divani di parenti e amici e anziché andare a scuola passava le giornate con i videogiochi, mentre Shaquille aveva la tendenza a infilarsi in risse e liti provocate dal caratteraccio che, molti anni dopo, avrebbe spinto Robert Horry e Rick Fox a soprannominarlo “the big moody”, il grande lunatico (sulla scia dei mille soprannomi che O’Neal si è scherzosamente dato, come Grande Aristotele, Grande Maravich, Grande Agave, e chi più ne ha, più ne metta).
L’HIGH SCHOOL
Atleti dotati di una forza non comune e di una predisposizione naturale per lo sport, in giovane età non ambivano a diventare professionisti dei canestri; LeBron sognava di diventare un wrestler o un giocatore di Football, mentre Shaq voleva fare il cantante e giocava a basket solo perché era alto. Nella base di Wildflecken, dove viveva la famiglia Harrison-O’Neal, Shaq incontrò coach Dale Brown, che allenava LSU. Shaq era già talmente grosso che Brown scambiò il piccolo O’Neal per un giovane soldato. Quando scoprì di avere davanti un ragazzino, iniziò a tessere la tela che avrebbe condotto O’Neal a vestire la maglia di Louisiana State. LeBron si sviluppò fisicamente attorno ai 15 anni, trasformandosi in un atleta poderoso, che si divideva tra Football (giocava da wide receiver) e Basket, eccellendo in entrambi. Si mise in mostra nei tornei AAU, assieme ai suoi amici di sempre, Dru Joyce, Sian Cotton e Willie McGee, tutti iscritti a St.Vincent-St.Mary, l’High School privata di Akron. Entrambi sono atleti dotati e privi delle asprezze di un Bryant o un Jordan. Certo, anche Shaq e King James hanno conosciuto una parabola di crescita non estranea alle frustrazioni, ma hanno maturato, grazie alle sensazionali doti fisiche, l’impressione di dominare con facilità, senza dover impazzire in palestra.
COMING OUT PARTY
LeBron chiuse l’anno da Freshman 27-0 e con il titolo statale di Division III. L’anno dopo, St-Vincent giocò alcune partite sul campo dell’Università locale, per soddisfare la domanda di biglietti. I Fightin Irish chiusero con un bilancio di 26-1 e un altro titolo statale e aprendo la strada della celebrità per il prescelto, che si ritrovò addirittura sulla copertina di Sports Illustrated. Tenuto a freno dalla disciplina di Walker e da coach Drew Joyce (che gli faceva fare 10 piegamenti ad ogni parolaccia), ‘Bron non è mai stato un ragazzo problematico, anche se ha sempre dimostrato una certa tendenza a sentirsi superiore a certe regole, e se ogni tanto una manifestazione d’insofferenza è una salutare dimostrazione d’ironia (come quando partecipò ad un camp della Nike con un paio di Adidas ai piedi, per poi mettersi un paio di Nike al camp di Adidas), in altri casi, certe sue uscite e la tendenza a prendersi molto sul serio gli hanno alienato molte simpatie, al contrario di O’Neal, che diceva quel che voleva, ma in un modo talmente poco serio da non essere mai davvero antipatico. LeBron è un maestro nel pilotare la propria carriera, senza mai legarsi ciecamente a un progetto, ma Shaq è stato insuperabile nella gestione dei media, che lo adoravano per la capacità di dire sempre qualcosa di divertente (anche se spesso ai danni di qualche collega, tipo Eric Dampier o Dwight Howard). James, per molti versi, è sempre stato più maturo dei suoi anni, e anche per questo, l’accesso diretto in NBA non fu affatto problematico. Se LBJ è sempre sembrato un giocatore continuo, maturo per il gioco di squadra, O’Neal ha dovuto fare molta strada per arrivare in NBA. Compagnone e guascone, pieno d’interessi extra-cestistici, Shaquille Rashaun (nome che, ironia della sorte, significa “piccolo guerriero”) dimostrava un interesse alterno per la pallacanestro che si rispecchiava nel suo modo di stare in campo, dove alternava prestazioni maiuscole e deludenti, condannandosi ad essere snobbato dagli scout dei grandi college. Ci volle una memorabile strigliata del sergente (gli disse che se voleva giocare a quel modo, tanto valeva smettere) per far ingranare definitivamente la marcia al “Diesel” e a spronarlo a prendere seriamente il proprio impegno per la squadra di Cole High. Subito dopo, segnò 52 punti in un torneo disputato a Lubbock, e improvvisamente, tutti i college più importanti iniziarono a reclutarlo. L’anno dopo, Cole High chiuse la stagione 36-0, vincendo il titolo statale del Texas. A quel punto, lo volevano tutti, ma Shaq scelse l’LSU di Brown, l’allenatore che lo aveva scoperto. Con O’Neal, Stanley Roberts e la guardia Chris Jackson, Louisiana State era attesa a un grande torneo NCAA. Il 1989 fu per Shaquille una stagione difficile, da terza opzione dei Tigers: “La filosofia del coach era di tirare se si era liberi. Chris (Jackson) era così veloce con la palla che ogni volta che riceveva, di fatto, era libero, e tirava spessissimo. Per avere il pallone tra le mani, dovevo prendere rimbalzo d’attacco”. LSU uscì al primo turno del torneo NCAA, e l’anno successivo perse sia Roberts (ineleggibile a giocare) che Jackson (che andò in NBA), e Shaq si trovò, come Tom Cruise in Risky Business, con in le chiavi di casa in mano e nessuno a controllarlo. Lavorò duro per farsi trovare pronto, e mise a referto 28.5 punti di media, conditi da 15.2 rimbalzi, con il 63.9% dal campo.
L’APPRODO IN NBA
Tutti e due arrivarono al draft NBA (1992 e 2003) con la virtuale garanzia di essere prime scelte assolute (insidiati solo da Alonzo Mourning e Darko Milicic). In entrambi i casi, dopo gli iniziali entusiasmi (sia Shaq che King James furono rookie dell’anno) e i primi successi di squadra, i nodi vennero al pettine. Shaq conquistò la Finale del 1995, venendo spazzato via dai Rockets di Hakeem Olajuwon per 4-0. I Magic erano una buona squadra, costruita su un asse talentuoso e futuribile play-centro, O’Neal e Penny Hardaway, ma Shaq era attratto dal rap e dai film, così, spinto dall’agente Leonard Armato, nell’estate del 1996 lasciò la Florida per il parterre de rois dei Los Angeles Lakers. LeBron è rimasto in Ohio più a lungo, convinto di poter vincere da stella assoluta con una squadra non eccezionale. Nel 2007 eliminò da solo i Detroit Pistons per poi andare sbattere contro i San Antonio Spurs in Finale. Dopo altri tre anni di delusioni, James decise di salutare la squadra di casa sua e di raggiungere Wade e Bosh a Miami, in una delle mosse più controverse della storia della free agency. LeBron è sempre stato meno abile di O’Neal nel gestire i media, complice una minor verve e una presenza scenica meno travolgente di Shaquille, uno che ha spesso detto più del dovuto, pur di strappare una risata o di incassare l’approvazione dell’interlocutore. James si apre molto raramente con i media, e anche per questo, le sue dichiarazioni suonano spesso trattate dai media come i frammenti di Eraclito, ermetiche perle apparentemente un po’ spocchiose.
I SUCCESSI
Nella seconda parte della loro carriera, Shaq e LeBron hanno vinto e convinto tutti, conquistando entrambi 4 Finali (Shaq ne vinse tre, LeBron due) e uscendo dalla letteratura spicciola nella quale si erano ficcati (O’Neal, per aver detto “in carriera ho vinto tutto, tranne che in NBA e al College”, come se un titolo dello Stato del Texas potesse nobilitare una carriera; James era l’oggetto di numerose battutine, tipo “Se dai a LeBron un dollaro, ti restituisce 75 centesimi, perché non dà mai l’ultimo quarto”). Poi, venne di nuovo il momento di cambiare. O’Neal si era inimicato Jerry Buss (al quale aveva chiesto in modo plateale e volgare di “essere pagato”) e aveva raggiunto il punto di rottura con Kobe Bryant, così, chiesta la cessione, si vide accontentato alla velocità della luce. O’Neal diede l’ok per lo scambio con i Miami Heat, dove conquistò un altro titolo NBA (come secondo violino di Dwayne Wade, quindi in pratica, facendo ciò che si era rifiutato di fare a Los Angeles) e poi scemando in modo un po’ inglorioso; scambiato con i Suns, poi aggregato ai Cavs (già, perché LeBron e Shaq hanno giocato anche insieme!) e con i Celtics. Quest’estate la dirigenza degli Heat avrebbe invece voluto trattenere James a qualsiasi costo, ma LBJ ha preferito tornare ai Cavs, forti di un nucleo giovane e talentuosissimo. Gli effetti di questa Decisione 2.0 sono ancora lontani dal dipanarsi (stiamo alla finestra in attesa di sviluppi nell’affaire Kevin Love) e fare previsioni sarebbe avventato.
I PUNTI DI FORZA
Ai tempi di Louisiana State, coach Brown chiamò Kareem Abdul-Jabbar e Bill Walton ad insegnare a O’Neal come padroneggiare i movimenti del centro NBA. Walton disse che “Shaq mi ricorda Charles Barkley. Ha quella capacità di esplodere rapidamente, come Barkley. È una forza che non si costruisce con la palestra”.
Lo stesso si potrebbe dire di LBJ, che fu definito da Ronny Turiaf ”pound per pound, il giocatore più veloce della NBA”; entrambi costituiscono una combinazione unica di potenza fisica, coordinazione e velocità difficili da incontrare.
James è considerato a buon diritto una forza della natura, ma Shaq era ancora più dominante, perché nessun pari-ruolo era in grado di arginarlo. Nemmeno Dikembe Mutombo, specialista difensivo e secondo miglior centro di quegli anni, era in grado di limitarne il devastante impatto.
O’Neal non aveva tiro (i liberi erano la sua spina nel fianco) ma i suoi spin-move vicino a canestro e i suoi semi-ganci hanno fatto scuola. Buon passatore, rimbalzista inarginabile (quando aveva voglia) e dotato di un’esplosività tale per cui era difficile fargli fallo senza rischiare il gioco da tre punti, Shaq cambiò la geografia NBA.
The Choosen One ha un impatto incredibile su ogni partita, perché sa fare tutto a livelli eccellenti e ha un costante vantaggio fisico rispetto a chi lo marca, ma nemmeno lui raggiunge le vette di Shaq, il cui dominio fu molto più breve (due, al massimo tre anni) di quello di LBJ, ma di un’intensità formidabile. Shaq e LeBron sono giocatori che fanno leva su qualità fisiche rarissime, che rendono difficile inquadrarli in una prospettiva storica. Come sempre, è facile incensare i vincitori e sputare sugli sconfitti; quando perdevano, erano ritenuti atleti incapaci di buttare il cuore oltre l’ostacolo, mentre, dopo le vittorie, si sono sprecati paragoni eccellenti, ed è spuntato anche qualche aedo dedito a decantarne la raffinatezza tecnica, sublimandone l’onnipotenza. Come spesso accade, la verità si colloca a metà strada; lungi dall’essere Pete Maravich o Tim Duncan, Shaq e LeBron sono giocatori che hanno costruito il proprio dominio grazie a qualità fisiche impressionanti, alle quali hanno coniugato intelligenza tattica, e una serie di movimenti –quelli sì, costruiti con lunghe ore di allenamento– immarcabili e automatici. In fondo, non esiste un solo modo per giocare a basket, e ci sembra scontato rilevare che, quando si dispone del posteriore di O’Neal o delle spalle del Prescelto, raffinarsi tecnicamente serve solo fino ad un certo punto. In ogni caso, proprio come per il Diesel, così anche per LeBron, certi paragoni andrebbero fatti solo a bocce ferme: nel 2002 tutti parlavamo (incluso chi vi scrive) di O’Neal come del miglior centro di tutti i tempi, senza sapere che la parte restante della sua carriera avrebbe contribuito a ridimensionarlo. Non sappiamo cosa succederà a James (posto che l’etica lavorativa di LeBron non si può nemmeno paragonare con la filosofia da cicala di Shaq). Forse anche lui vincerà un altro anello, per poi arrendersi al calo fisico, oppure, chi può dirlo, farà come Karl Malone e continuerà a ignorare gli effetti del tempo fino ai quarant’anni.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.
bene. mi ricorda un “vite parallele” di qualche anno fa…
Interessante.
Le differenze tra i due, tuttavia, sono enormi. L’etica lavorativa di LBJ non è paragonabile, nemmeno lontanamente, a quella di Shaq. Che in carriera ha sbagliato 5.000 tiri liberi. E che, sceso il livello fisico, ha quasi finito di giocare.
James, dopo la scoppola presa dai Mavs, è migliorato sia come giocatore che (presumibilmente) come uomo. Ha lavorato sui suoi difetti, caratteriali prima che fisici, con passi avanti in leadership e concretezza quando necessario. Poi ha cominciato ad andare in post. Infine, ha lavorato sul tiro da tre, che è diventato sempre più continuo. Nel contempo, ha cominciato ad assumere, a volte, una modalità di gioco alla Magic, Dal punto di vista dell’applicazione al gioco, LBJ mi ricorda più Kobe che Shaq.
Ecco, l’ho detto…
Come sempre, si può dire qualcosa di definitivo su di una carriera solo quando è finita (o agli sgoccioli), e non è questo il caso di LBJ. James ha un’etica lavorativa che Shaq non si è mai sognato, ma, va detto, anche O’Neal crebbe molto (a rimbalzo, nelle letture, in difesa, dove, se voleva, era il migliore) ed era più dominante e carismatico di LeBron, ma è durato oggettivamente poco.