Il conto alla rovescia è già cominciato. Believeland, precedentemente conosciuta come Cleveland o The Mistake On The Lake, è pronta a tornare a sognare ad occhi aperti un qualsiasi titolo professionistico che in città non perviene dall’anno 1964, stagione in cui i Browns si aggiudicarono il massimo dei trofei soprattutto grazie alla presenza in squadra di una leggenda come Jim Brown.
Nel giro di due mesi la cittadina dell’Ohio ha acquisito più vista e notorietà di quanta ne abbia vista passare dalle proprie parti negli ultimi cinquant’anni. Dapprima i Browns hanno selezionato al Draft l’asso di Texas A&M, Johnny Manziel. Pochi giorni fa è arrivata anche la notizia del clamoroso ritorno all’ovile del ragazzo di Akron, LeBron James.
Premessa doverosa prima di saltare ad affrettate conclusioni: sono due acquisizioni da calibrare attentamente e differentemente, perché parliamo di un giocatore che già prima di terminare la carriera è inseribile nei primi cinquanta giocatori Nba di tutti i tempi, e di una matricola che per quanto abbia fatto impazzire Alabama ed il proprio sistema difensivo di stampo professionistico non ha ancora provato nulla all’interno di un campo di football Nfl, e deve inoltre dimostrare di valere il posto di titolare affrontando un decisivo training camp.
Sottolineate dunque le dovute proporzioni, l’indotto mediatico generato da queste due presenze, è tuttavia accostabile con una certa sicurezza. Ne deriva che la corsa per tagliare il traguardo per primi è già cominciata. I Cavs non sono ancora pronti per un titolo, i Browns non lo sono da secoli, ma hanno cominciato una ricostruzione sensata ed organizzata.
Quale franchigia riuscirà dunque a portare prima dell’altra un titolo a Cleveland?
I Browns hanno effettuato delle mosse intelligenti, cercando di riparare degli errori abbastanza evidenti che hanno sommato ulteriori disastri ad una situazione già precaria, dato che nei libri di storia recente non si trova un campionato concluso con la qualificazione ai playoffs susseguente al 2002, anno della sconfitta nella Wild Card contro i rivali Steelers ed ultima apparizione post-season conosciuta da una franchigia che dal momento della sua riesumazione (anno 1999) non è mai stata lontana parente di quella gloriosa che arrivò a disputare dieci (!) finali consecutive a partire dal 1946, una cavalcata mai più ripetuta e nemmeno avvicinata dalla pur consistente edizione allenata nel corso degli anni ottanta da Marty Schottenheimer, epoca nella quale la squadra si costruì una nomea scomoda, quella di vincente nella regular season ma perdente nei playoffs.
Oggi le chiavi dell’ufficio manageriale più importante sono passate da Mike Lombardi a Ray Farmar, che ha utilizzato le selezioni extra derivate dalla trade di Trent Richardson con i Colts per rinforzare un roster avvilito dal triumvirato che l’ex running back di Alabama costituiva assieme a Brandon Weeden, altro fallimento, e Mike Holmgren, figura dirigenziale che non ha assolutamente portato i frutti sperati, tre facce che rappresentano un passato recente dal quale ci si vuole distanziare al più presto possibile.
Una delle soluzioni per riuscirvi, si chiama Johnny Manziel, o Johnny Football se preferite. Così lo si chiama dal 2012, anno della sua esplosione dopo un totale anonimato, dato che durante gli allenamenti primaverili non era nemmeno segnato come favorito per divenire il successore di Ryan Tannehill, ma sarebbe salito alla ribalta di lì a poco nella Air Raid Offense degli Aggies di Kevin Sumlin, lanciando e correndo a volontà, e divenendo responsabile per una quantità industriale di mete a favore dei suoi colori. L’apice venne toccato con la storica prestazione contro Alabama, inaspettatamente battuta a Tuscaloosa per 29-24 con 345 yards di total offense per il quarterback, ed a fine stagione arrivò pure l’Heisman Trophy, il primo di sempre ad essere vinto da un freshman come lui. L’epica battaglia della scorsa stagione, vinta invece dai Crimson Tide per 49-42, non ha comunque fatto passare in secondo piano il modo in cui Manziel ha disposto a piacimento della difesa collegiale più forte degli ultimi anni, infliggendole 464 yards e 5 passaggi da touchdown.
La vicenda James ricorda invece molto da vicino la terza puntata della saga de “Il Signore Degli Anelli”: ecco servito il Ritorno del Re.
Annunciato con una lettera scritta di proprio pugno e trasmessa a Sports Illustrated, il secondo giro casalingo di LeBron riporta istantaneamente i Cavs ad una dimensione ben superiore alla rispettabilità, dopo anni di buio pressoché totale. Dal momento della sua dipartita per Miami sono arrivate 97 vittorie in quattro tristissime stagioni, quando invece il bilancio del biennio precedente aveva scritto cifre da record di franchigia, con due campionati consecutivi oltre quota 60 successi. Le uniche fortune dei Cavaliers sono arrivate dalla lotteria, con tre chiamate alla numero uno assoluta in tre delle ultime quattro edizioni del Draft, dimostrazione di fondo-schiena di non poco conto, che ad oggi permettono di schierare la superstar Kyrie Irving, fresca di rinnovo contrattuale multi-milionario, l’oggetto misterioso Anthony Bennett, e l’ultimo arrivato, l’elettrizzante Andrew Wiggins, tutti giocatori per cui Lebron James farà da chioccia nei momenti in cui servirà portare alla squadra l’esperienza playoffs che solo lui possiede. Oltre a questo, c’è da tenere conto del fatto che il nuovo allenatore David Blatt non ha mai allenato una gara Nba da head coach.
Proprio per questo è assai prematuro parlare di Cavs pronti all’assalto del titolo, LBJ da solo non basta se non per garantire una qualificazione certa alla postseason, ma per fare strada ci vuole altro. Il nucleo è intrigante e qualche pezzo potrebbe ancora aggiungersi via trade o nelle prossime free agency, certo è che oltre ai già citati Irving, Wiggins e Bennett, il roster annovera giovani come Dion Waiters e Tristan Thompson, nessuno dei quali supera i 23 anni.
Il futuro, quindi, porta chiaramente l’indirizzo dell’errore sul lago.
Un destino che sembra accomunare basket e football all’interno di una città sportivamente dimenticata dal Signore, lo stesso che sembra aver dato uno sguardo in basso al momento giusto. Tutto passa dalle mani del figliol prodigo che porta Akron nel cuore e dai lanci di un ragazzo texano classe ’92 che ha registrato il marchio del suo soprannome, quasi sapesse già quale tipo di storia si accinge ad avere la possibilità di scrivere, sempre che riesca a far collimare a dovere la vita dentro e fuori dal campo.
Sarà un duello entusiasmante, dal quale la città di Cleveland spera di vedere presto emergere uno dei due rappresentanti con stretta tra le braccia dell’argenteria importante da portare a spasso tra le proprie strade, dimenticando anni di delusioni, piazzamenti mediocri, e tradimenti. LeBron è andato via per imparare a vincere, ed ora vuole riuscirci qui. Johnny Manziel possiede invece una lista di riconoscimenti individuali già lunga un miglio, ma il chiaro desiderio è quello di fare il colpo grosso.
Vinca dunque il migliore. Believeland attende.
Davide Lavarra, o Dave e basta se preferite, appassionato di Nfl ed Nba dal 1992, praticamente ossessionato dal football americano, che ho cominciato a seguire anche a livello di college dal 2005. Tifoso di Washington Redskins, Houston Rockets, L.A. Dodgers e Florida State Seminoles. Ho la fortuna di scrivere per questo bellissimo sito dal 2004.