Le prime parole di Derek Lamar Fisher da allenatore dei New York Knicks sono coincise con un manifesto programmatico che, in poche parole, racchiude la sintesi di ciò che D-Fish ha rappresentato nel corso della sua lunga e fortunata carriera NBA: “Sono enormemente orgoglioso di venire qui e fare il mio lavoro. Questa non è una cerimonia, non è per pubbliche relazioni, io e Phil (Jackson) non siamo qui per divertirci come amici. Siamo qui per lavorare e per portare a termine il nostro compito; vogliamo aggiungere altri banner, man mano che continueremo a entrare qui dentro (la conferenza stampa s’è tenuta al Madison Squadre Garden), giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese e anno dopo anno”.
Nel corso delle sue diciotto stagioni NBA, Fisher si è imposto come un leader rispettatissimo da tutta la comunità dei giocatori per essersi saputo ricavare un ruolo di primo piano in tante squadre da titolo, sopperendo ad un talento relativo con il lavoro e con una forza interiore unica, quella che gli anglosassoni chiamano efficacemente “drive”;
Giocata dopo giocata, Derek è arrivato a frequentare con familiarità le Finali NBA e ad assurgere a uno status di venerabile maestro che pochi gli avevano pronosticato quando lasciò Little Rock per dichiararsi al draft del 1996.
Fisher è il primo a riconoscere di essere stato raramente il giocatore più talentuoso delle squadre nelle quali ha militato, ma ha saputo spremere ogni oncia di energia a disposizione, fino a trascendere i propri difetti, trasformandosi in un playmaker roccioso e dal fisico possente, non veloce ma capace di leggere le situazioni e di ricorrere a un’esperienza sterminata per trovare sempre il modo di contribuire alla causa, con un tiro, una buona posizione difensiva o un tuffo per recuperare una palla persa.
Figlio di John Fisher, un ex militare impiegato come amministratore in posta, e di Annette, che lavorava in banca, Derek dice di dovere a loro la propria determinazione a raggiungere il successo: “La loro etica lavorativa è stata fondamentale, mentre crescevo, e mio padre non si limitava a guidare con l’esempio. Mi ha spinto in modi che non dimenticherò mai e per cui non lo ringrazierò mai abbastanza”.
Suo fratello, Duane Washington, non ebbe lo stesso successo: era l’idolo del piccolo Derek e riuscì ad arrivare in NBA (giocò con Clippers e Nets) ma deragliò per problemi con la cocaina. Fisher, che l’aiutò durante la riabilitazione, giurò che mai e poi mai sarebbe cascato tra le grinfie delle droghe.
La sua vocazione per i discorsi motivazionali e la sua etica lavorativa, forgiati tra le mura domestiche e nei tornei AAU, erano già molto forti ai tempi di Arkansas at Little Rock, , quando il suo allenatore, Wimp Sanderson, era aduso chiedergli di parlare ai compagni per spronarli.
Arrivato ai Lakers grazie all’abilità di scout di Jerry West, D-Fish forgiò subito un sodalizio con l’altro rookie della squadra, Kobe Bryant, con il quale passava ore e ore a svolgere allenamenti extra ad El Segundo.
“Spesso eravamo gli unici due in palestra”, ricorda Bryant, “così ci mettevamo a giocare uno-contro-uno a tutto campo; ed era una specie di lotta, perché eravamo entrambi molto competitivi. Da allora in poi non ho avuto altro che rispetto nei suoi confronti”.
Kobe era una giovane star, mentre Fisher era un giocatore dal futuro incerto, ma li univa la passione per il gioco e per il lavoro; al netto del diverso peso tecnico e mediatico, l’uno riconosceva negli occhi dell’altro la stessa fame di vittorie e la determinazione a raggiungerle.
Entrambi divennero titolari nel 1999, ma Fisher si vide presto retrocesso a riserva quando, su richesta di Kobe e Shaq, Jerry West assunse Phil Jackson, noto per prediligere le guardie alte ai playmaker di modesta statura.
D-Fish venne rimpiazzato in quintetto da Ron Harper, ma, lungi dall’offendersi, cominciò a riflettere su come rimediare alla mancanza di centimetri, e la folgorazione arrivò durante l’opener della Regular Season 1999-00: la partita contro i Jazz si decise in volata, quando, con meno di un minuto sul cronometro, Derek ricevette nell’angolo destro, realizzando il canestro da tre della vittoria.
A quei tempi Fisher era conosciuto come uno specialista difensivo, ma quel tiro cementò le certezze del nativo di Little Rock, convincendolo di potersi rendere utile alla causa come spot-up-shooter.
Quella stagione finì in trionfo, e Derek ricoprì un ruolo marginale, impiegato, durante le Finali NBA, come arma tattica per neutralizzare Travis Best. Durante l’Off-Season ebbe modo di chiedere al suo allenatore se davvero una guardia sottodimensionata non avesse chance di accedere al quintetto, e si sentì rispondere che non era un problema di centimetri, ma di cuore ed esecuzione. Erano le parole giuste per convincere Fisher a triplicare gli sforzi.
Quando in Preseason gli fu diagnosticata una frattura da stress al piede che lo mise a tappeto per gran parte della stagione, Derek si chiuse in palestra con suo fratello maggiore, Duane Washington, e costruì il tiro mancino per il quale è diventato famoso.
Tornato in squadra poco prima dei Playoffs 2001, contribuì a far svoltare un gruppo che stentava a ritrovare le alchimie dell’anno precedente, lanciando la volata per degli storici Playoffs: 15 vittorie ed una sola sconfitta, oltre al record per percentuale di vittorie in trasferta (non ne persero nemmeno una). Fisher disputò 36 minuti di media in 16 partite, tirando con il 48% dal campo e mettendo a referto 35 su 68 da tre, ossia un irreale 51%.
D-Fish rimase in quintetto anche nel corso delle due successive stagioni, vincendo un terzo titolo NBA e sperimentando la cocente delusione del 2003, quando i Lakers furono eliminati allo Staples Center dai San Antonio Spurs che li avrebbero poi scalzati anche nell’albo delle squadre campioni.
Nel corso dell’estate successiva a quel 2-4, i Lakers si rinforzarono con due veterani d’eccezione, Gary Payton e Karl Malone. D-Fish si vide ancora una volta retrocedere a riserva, ma non si lamentò mai, continuando a dare il suo contributo, riuscendo alla fine a completare la singola giocata più importante della stagione, ossia il famoso canestro di Gara 5 con 0.4 secondi sul cronometro che mise a tappeto gli Spurs, consegnandoli esanimi ad una scontata Gara 6.
Durante la turbolenta offseason del 2004, quando Kobe pareva sul punto di firmare con i Clippers, Jackson pubblicava libri incendiari e Shaq preparava le valigie per la Florida, Derek decise di lasciare Los Angeles, accettando un contratto quinquennale da 37 milioni con Golden State, che in quel momento aveva un nucleo giovane e bisognoso d’essere puntellato da qualche veterano al quale dare minuti e responsabilità.
Due anni più tardi, fu ceduto agli Utah Jazz, alla ricerca di un playmaker di riserva per coprire le spalle a Deron Williams. Quei Jazz giocarono 16 gare di Playoffs (Fisher fu titolare in 14), durante le quali Fisher regalò l’ennesimo momento memorabile di una carriera da film: volò a New York per assistere sua figlia Tatum (alla quale era stata diagnosticata una particolare forma tumorale all’occhio sinistro), e, rassicurato dai medici, tornò a Salt Lake e, scortato al palazzetto dalla polizia, contribuì in modo decisivo alla vittoria in overtime sui Warriors.
Finita la stagione, Fisher chiese e ottenne la rescissione del contratto da parte della squadra dei mormoni; sua figlia aveva bisogno di cure che potevano essere fornite solo in una manciata di città statunitensi.
Salutato Mr. Miller, lo storico proprietario dei Jazz, Derek e sua moglie Candace decisero così di fare ritorno a Los Angeles, dove avrebbero ritrovato l’amico Bryant e anche l’allenatore prediletto, Phil Jackson.
Fisher, ormai raggiunto lo status di veterano, assunse da subito il ruolo di guida e mentore dei suoi giovani compagni, dividendo con Kobe i gradi di capitano e discutendo a lungo con lui e con Jackson sul modo giusto per condurre all’illuminazione (cestistica, ça va sans dire) i vari Vujacic, Walton, Farmar e Radmanovic.
Derek si è imposto come un leader carismatico e come un giocatore capace di innalzare il proprio gioco nei momenti caldi, uno la cui mano non trema sotto pressione e che ha sempre la frase giusta da sfoderare nel time-out chiave di una partita tesa (oltre ad un talento naturale per la recitazione del quale spesso si è avvalso per “aiutare gli arbitri a prendere la decisione giusta”, citando Reggie Miller).
In questa seconda vita in California D-Fish ha consolidato la propria reputazione con tanti episodi che ne hanno evidenziato il carattere vincente e la personalità; possiamo citare gli ultimi, clamorosi minuti di Gara 4 delle Finali 2009, quando piazzò in faccia a Jameer Nelson il canestro che di fatto chiuse la serie, oppure quando sorprese i Boston Celtics con una prestazione formidabile in Gara 3 delle Finali 2010, segnando 11 punti nell’ultimo periodo, oltre all’highlight della serata, un coast to coast chiuso con canestro e fallo “di gruppo” da parte di Glen Davis, Garnett e Allen. Finita la partita, Fisher si chiuse nello spogliatoio del Boston Garden a piangere, tale fu la spesa emotiva dello sforzo.
In tutte queste imprese Derek ha sempre avuto accanto l’amico e sodale Kobe Bryant, che non ha mai lesinato complimenti al suo playmaker, definito il miglior compagno di squadra; opinione, questa, reciprocata da Fisher: “Kobe è di gran lunga il mio compagno di squadra preferito, dal punto di vista della pallacanestro. Posto che sarebbe ingiusto nei confronti di gente come Devean George, Horace Grant, Luke Walton e altri, se lo collocassi automaticamente in cima a una lista di amici, abbiamo davvero condiviso qualcosa di speciale, e mi manca ogni giorno”.
Allontanato con una trade quando Jim Buss decise di cancellare tutto quel che ricordava Phil Jackson, Derek non tardò a trovare un contratto a Oklahoma City, dove, pur senza mai centrare il titolo NBA, ha costruito un buon rapporto con Scott Brooks, Russell Westbrook e soprattutto con Kevin Durant, ansioso d’abbeverarsi dell’esperienza cestistica dell’ex numero due di Los Angeles, perché, se l’impatto di Fisher è diventato statisticamente irrilevante, le sue qualità da leader e la sua conoscenza enciclopedica del gioco sono rimaste intatte, consentendogli, anche grazie ad una invidiabile condizione fisica, di continuare a recitare un ruolo chiave.
Derek si è ritirato con cinque titoli NBA, otto Finali raggiunte, 259 partite di Playoffs giocate e 161 vittorie (entrambi sono record assoluti), dopo aver annunciato a ottobre che questa sarebbe stata, con ogni probabilità, la sua ultima cavalcata da giocatore professionista.
Kevin Durant ha tentato di dissuaderlo, ma, dopo aver perso le Finali della Western Conference, Fisher sentiva di aver dato tutto e di essere pronto per un nuovo capitolo della sua storia d’amore con il basket, quello da head coach.
Nessun addetto ai lavori dubitava che Fisher sarebbe arrivato a sedere su una panchina NBA; Derek aveva troppa personalità e autorevolezza per non essere destinato ad allenare, e così è stato.
Due settimane fa i Los Angeles Lakers hanno preso contatto con Derek per un colloquio informale che non è sfociato in una proposta definita, lasciando così strada libera ai New York Knicks di Phil Jackson, che lo ha voluto fortemente sulla panchina del Madison Square Garden.
Lasciatosi alle spalle la costa ovest, il neo-allenatore dei Knicks ha iniziato a parlare di quello che si aspetta dall’avventura sulla panchina di New York; D-Fish ha fatto riferimento al blasone da rispolverare di una franchigia storica, che però non raggiunge le Finals dal 1999 e non le vince addirittura dagli anni settanta.
Obiettivi ambiziosi, menzionati con la convinzione di chi non parla solo per dare aria alla bocca e ha la credibilità (sia verso i media che verso i suoi giocatori) per comandare rispetto. Dopo poche parole di Fisher, la ricostruzione di New York è sembrata meno remota.
Se i Knicks vogliono ritrovare compattezza e unità d’intenti, avranno bisogno di lavorare sotto l’egida di un progetto e di un gruppo di persone capaci di “vendere un’idea” ai giocatori, forti del proprio passato vincente. Da Jackson a Fisher, ci sembra che la direzione presa sia, per la prima volta, quella giusta.
A precise domande su Carmelo Anthony e sull’Attacco Triangolo, Fisher non si è voluto sbilanciare troppo, ma è evidente che i Knicks si sentono arricchiti dell’eredità che va da Red Holzman (che allenò i Knicks negli anni dei titoli) al suo alievo prediletto, Phil Jackson (che ha vinto con i Bulls e con i Lakers più di qualsiasi altro allenatore), e che oggi s’incarna nell’esordiente al quale è affidato il compito di rinverdire i fasti del passato.
Carmelo, che starebbe contemplando la possibilità di cercare fortuna a Chicago o Houston, avrà, se non altro, un dubbio in più, posto che gli anni passano e i Knicks non diventeranno magicamente una squadra da titolo NBA da un giorno con l’altro.
Gli scenari che lo vedono prima punta dei Bulls o in squadra con Dwight e Harden sono sicuramente affascinanti, ma lo stesso vale per la possibilità di giocare per un sistema che ha contribuito a rendere grandi Kobe e Michael, alle dipendenze delle stesse persone che hanno contribuito alla leggenda delle due guardie più forti di sempre.
Chiudiamo con le parole di Derek Fisher relative ai dubbi derivanti dalla sua inesperienza: “credo di aver iniziato a prepararmi ad essere il coach di una squadra NBA attorno ai sei anni. Avevo quell’età quando giocai la mia prima partita di basket organizzato e, anche se ero uno dei migliori ragazzi della squadra, mi è capitato di rado d’essere il miglior giocatore, quello più talentuoso o alto, con più verticalità o con il miglior tiro. Sin da ragazzo ho quindi iniziato a ragionare sul gioco, su come massimizzare la mia efficacia a dispetto di un talento relativo.
Negli ultimi 33 anni ho guardato così al basket, e negli ultimi 18 l’ho fatto da giocatore NBA; l’unico motivo per cui sono stato così longevo in questa professione è che ho approcciato il gioco come un allenatore; ragionando sulle opportunità, i vantaggi e svantaggi, le spaziature, il modo migliore per avere impatto difensivo mentre invecchiavo. Raramente mi sono costretto a pensare di voler fare a tutti i costi una cosa, ma l’opportunità di essere l’head coach dei New York Knicks è una opportunità straordinaria e di cui sono grato e mi sento molto preparato, anche se non ho mai allenato in vita mia”.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.
Che la fortuna sia con te, piccola immenso uomo